Quattordici!»
Dal pollice al mignolo della mano destra: cinque.
Dal pollice al mignolo della mano sinistra: altri cinque, fanno dieci.
Dal pollice all’anulare della mano destra: più quattro.
«Quattordici!»
Annunciato dal suo garrito, un gabbiano bianco si posa sulla grata della cella. E’ quella di Salvo, lo strabico della III^ sezione: «L’uomo è un gabbiano, misterioso e bianco, in cerca di se stesso, che disegna nel vento inediti sentieri, inventati, trasparenti» (J.B.Gadea).
Alle spalle il mondo degli umani, in fronte il becco del gabbiano:
«Questo è il quattordicesimo, porca-vacca, gabbiano».
E’ Natale, nell’anno quattordicesimo della galera di Salvatore.
La foto appesa sopra la branda è sbiadita: è una vecchia Polaroid scattata qualche giorno prima dell’arresto. Adesso, quattordici natali dopo, l’uomo che in mutandoni di lana sta a colloquio col gabbiano è l’ombra di ciò ch’era allora. La muscolatura ha perso tono, il corpo s’è tutto disseccato, le costole contrassegnano i fianchi. Ha sempre vissuto all’aria aperta, ha dormito sotto le stelle, ha battuto strade per infiniti chilometri: ora è rinchiuso come un randagio in un’anonima gattabuia dello Stato.
L’hanno arrestato con l’inganno: «In questura, c’è una carta da firmare. Passi appena può». Era l’unico modo per ingannarlo, lui che gli sbirri tante notti li aveva tratti in inganno, fingendosi morto.
«Salvo! Dai che comincia la messa: vieni!»
«E come no! E chi legge se non arrivo io?»
Non ha la terza media, ma sentirsi dire lettore gli piace assai.
Appena fuori dalla sua cella, s’accorge d’essere scalzo. Rientra: quando esce, lui ch’è prossimo ai cinquanta, indossa delle Converse arancione-fluo. È quasi in chiesa quando gli fanno notare che andare in chiesa in mutande, nel giorno del compleanno di Cristo, non è buona-usanza, neanche nelle città di cemento dei banditi. Ritorna in gabbia, per ritornare in chiesa indossando la tuta: braghe azzurro-cielo, maglia verde-fluo, scarpe arancio-fluo.
Tutto goffo: è lo strabico della sezione. Il matto del villaggio.
«La prima orazione tocca a Salvo!» – minaccia con dolcezza.
Nessuno fiata: è notte santa, notte generosa, notte di trepidazione.
Un prete, con tredici avanzi di galera assonnati, più qualcuno di quelli andati a finire dritti dentro il Gloria: «Uomini di buona volontà».
Salvo non ricorda mai quand’è il momento di leggere le preghiere dei fedeli. Nel frattempo, incurante della messa, continua a ripassare le parole della prima-preghiera, quella che gli toccherà in sorte: uno sbaglio, da queste parti, si sconta con giornate di sberleffi. M’accorgo dei suoi ripassi, faccio finta di non accorgermi della sua distrazione. Brucia d’impazienza, ma è capace di attendere: come uno sciacallo che guata la preda. Troppo vile per aggredirla apertamente.
Ha pur sempre il ministero del lettorato.
La preghiera dopo una decina di ripassi, è stampata nel volto: «Nel mistero del Verbo incarnato, nel quale è apparsa agli occhi del mondo la luce del tuo fulgore, ti preghiamo, Dio nostro salvatore, che tutti possiamo crescere nel tuo amore (Ascoltaci, o Signore)».
Nell’attimo esatto, Salvo s’alza di scatto, inafferrabile: che nessuno gli rubi la primogenitura. Legge tutto d’un fiato, com’è di chi prende la rincorsa per fare il salto migliore: «Nel mistero del Dio incalmato…»
«Incalmato! Che ridere: ma quant’è ignorante – spettegola tra sé il prete -. Dio-incalmato: una bestemmia, la notte di Natale tra l’altro. Padre, perdonalo: non sa quello che legge!»
Alzo lo sguardo: cerco sorrisi d’alleanza, l’ironia per uno simpatico sberleffo. Tutti concentrati, invece, un sorriso neanche a pagarlo oro: manco si sono accorti, questi! Sono un gregge di capre.
Oppure Salvatore ha detto ciò che anche loro pensavano?
Il Dio incalmato, altro che il Dio incarnato.
Eggià: l’incarnazione, per uomini illetterati dalle carni ferite, è roba astratta, materia per perditempo di teologia, una parola spuria. E’ un dogma da groppo-in-gola: da queste parti – tra pidocchi, bestemmie e ricette appena inventate – dire che Dio si è incarnato è come non dire nulla: un parlare al vento. Professare che Iddio si è incalmato, invece, per gente terra-terra è tutto un programma: nessuno, tra gli eretici, aveva osato fin qui, ai bordi della quasi-bestemmia.
«Nel mistero del Dio incalmato».
Incalmare è verbo di botanica, porta l’odore lercio dello sterco, ha discendenza contadina: è inserire il ramo di una pianta su un’altra di diversa varietà, per ottenere una pianta nuova: «Prendi la vanga, è la tua matita. Prendi i semi e le piante, sono i tuoi colori» (W. Mason).
S’incalma per migliorare, è una manovra per ortolani esperti, un raggiro di prima qualità: «Dio si è incalmato e venne ad abitare in mezzo a noi» (dal vangelo apocrifo di Salvo, galeotto strabico).
Il riverbero di Dio sul muro di cemento del cuore di un prete.
Natale, per Salvo, è: la divinità che s’innesta nell’umanità, l’Onnipotenza che s’innesta nell’impotenza, Dio che s’incalma con l’uomo.
La salvezza è un innesto: o attecchisce o niente.
E’ parola di Salvo, l’uomo del lapsus natalizio. Il cervo sfuggito agli sbirri, anche al cuore del prete: «Capita talvolta che un cervo sfugga sebbene abbia già la muta addosso, e allora i più vecchi cacciatori non sanno che dire» (V. Hugo).
La porta della chiesa si apre, cigolando. Sta passando il carrello delle vivande, passa come l’arrotino in paese: «L’arrotino, signore. E’ arrivato l’arrotino!» A squarciagola: sembra che oggi, ma solo oggi, a nessuno gliene importi granché. Tutti fermi, concentrati, con la testa nella luce di Salvo, il lettore analfabeta. Il passaggio di un carrozza, però, allarga la strada. I contadini lo san bene: solo la disperazione sbadiglia.
Ed è solo all’inizio del suo tentativo di lettura, Salvatore: mancano ancora tre-quarti di preghiera da leggere. Come si dice: “Un principe è nulla in confronto con un principio”. Li fisso ad oltranza, imbranato per la mia poca-fede: sono gente avariata, storie sacre al netto dello schifo, il mio Israele in mezzo a questo deserto di ferro-e-cemento.
Esiste uno spettacolo più grande del cielo: è la sgrammaticatura di un’anima pia: «Il grande dolore è un raggio divino e terribile che trasfigura i miserabili» (V. Hugo).
Ho riso di Salvatore.
Ho capito il perché di quel riso: l’infinito m’aveva irriso.
Non m’ero ancora stancato, però, d’irridere Dio.
Il gabbiano garrisce.
Il prete stia sull’attenti: è in arrivo un’altra perturbazione.
Un’iradiddio di scintille.
(da M. Pozza, L’iradiddio, San Paolo 2017)