«Poiché un bimbo è nato per noi, ci è stato dato un figlio» (Isaia 9, 5). Mai come quest’anno mi sono ritrovato a riflettere sul significato del Natale e sul perché lo scambio di doni è peculiare di questa festa. L’ansia che spesso ci attanaglia nello scegliere i doni più adeguati o la frenesia degli ultimi acquisti rischiano di far perdere di vista il motivo che sta alla base di questa tradizione.
Il Natale è il memoriale di un dono, di un dono gratuito che il nostro Dio ci ha fatto nella pienezza dei tempi, nella terra di Israele, in un determinato periodo storico. Ci ha donato suo Figlio. E continua a donarcelo, anno dopo anno, confidando sempre nella nostra conversione e rinnovando la prova della sua fedeltà. Anche se noi ce la mettiamo tutta a contrariarlo, lui però prosegue imperterrito nel suo donarsi gratuitamente. Non vuole nulla in cambio, se non che accettiamo il suo dono e lo facciamo nostro.
Un padre della Chiesa, Origéne, ha scritto: «A che mi giova festeggiare Cristo che viene nella carne, se non viene nella mia carne?». A noi chiede proprio questo: il dono che ci viene fatto, il figlio di Dio, deve nascere in ciascuno di noi per poter essere un dono fecondo. Come mai allora questa festa viene sempre più annacquata, snaturata, impoverita e tradita? Perché è divenuta festa zuccherosa di un “vogliamoci tutti bene” che suona sempre più farisaico e superficiale? Perché il dono gratuito diventa un dono di scambio, un dono obbligato, un dono esibito? Perché il Bambino in carne e ossa posto in una mangiatoia, e che ci sconvolge nella sua povertà, diventa un asettico, grasso e irreale Babbo Natale la cui funzione non è di essere lui stesso dono, ma solamente di portare doni altrui?
Eppure, anche di fronte a contraddizioni e tradimenti il nostro Dio continua a donarsi, guardandoci dalla mangiatoia del presepe e allungando le sue piccole braccia verso di noi per venirci in braccio. Maria non è gelosa della sua maternità, ma vuole estenderla a tutti coloro che si affacciano alla porta della capanna e prendono in braccio il Bambino.
Il Natale è una festa molto concreta, molto reale e densa – e quindi non è la festa dei bambini, se non nel senso che si festeggia un bambino; è la festa dell’uomo e della donna che accolgono un dono dal loro Dio – perché è la festa del nostro Dio che si fa così concreto da assumere natura e carne mortali. Il Cristiano sa bene che cosa sia la concretezza di una relazione, di un servizio, di un aiuto a chi ne ha bisogno; cerca di vivere la carità attraverso gesti concreti, perché nella persona che serve c’è lo stesso Dio-Bambino del Natale. Ha ricevuto in dono l’esperienza del proprio pellegrinaggio quotidiano nella sua comunità che gli ha fatto scoprire la bellezza del vivere insieme l’emozione di un incontro con il Signore e con la Vergine Maria; ha ricevuto in dono la gioia di vivere la fede e la carità in una parrocchia o in un gruppo dove l’impegno è comune, gli ideali e le difficoltà sono condivisi, l’ammalato e il sano sono concetti superati dall’amore vicendevole e dalla concreta verifica che tutti hanno doni da scambiare e dei quali arricchirsi vicendevolmente.
E si ritorna ai doni: ma allora per il cristiano la festa del Natale non finisce mai? Ma allora i piccoli e quotidiani doni scambiati nella gratuità e nell’amicizia sono piccoli segni del grande dono del Natale? Ma allora i dubbi che ho espresso all’inizio svaniscono: sto scoprendo finalmente che cosa significa questa festa, dopo averla spolverata dei segni del tempo, ripulita di tante ruggini e sovrastrutture, resa brillante e luminosa dalla gioia di averla riportata al fulgore di quella notte di dicembre, in una capanna nella terra d’Israele. È la festa di un dono divino che riconosco dovunque un dono umano viene scambiato con amore.