Come per il terzo giorno, anche nel sesto Elohim crea due opere: gli animali terrestri (Gen 1,24-25) e ʾādām (= uomo; Gen 1,26-31). Mantengo anche in italiano il termine ebraico ʾādām per qualificare l’”uomo”, perché rende meglio il soggetto umano non ancora caratterizzato in «uomo» (ʾı̂š) e «donna» (ʾiššâ). Prendiamo in esame direttamente la seconda opera creata al sesto giorno, senza prima non aver notato che la prima opera si era conclusa con il ritornello «E Dio vide che era cosa buona» (v. 25), segno della sua completezza.
La creazione di Adam
Con la creazione di ʾādām il ritmo della narrazione rallenta decisamente. Infatti, sono sei i versetti dedicati al racconto della sua creazione e ciò enfatizza il suo significato. Due sono le particolarità. La creazione di ʾādām non avviene tramite un comando e un’azione di Dio, bensì è messo in scena tutto il processo decisionale. La seconda, già rilevata nel post precedete, è l’assenza del ritornello «E Dio vide …», perché quello del v. 31 si richiama a tutta l’opera creatrice.
Al versetto 26 si annuncia un doppio progetto, poi descritto nei vv. 27-28. La tabella seguente mette a confronto il progetto con la realizzazione.
Progetto | Realizzazione | |
26Dio disse: | ||
«Facciamo ʾādām in nostra | 27E Dio creò hāʾādām in sua | |
immagine | immagine | |
come nostra somiglianza | in immagine di Dio lo creò | |
maschio e femmina li creò | ||
28E Dio li benedisse e Dio disse loro: | ||
«Fruttificate e moltiplicate | ||
riempite la terra e sottomettetela | ||
dominate il pesce del mare | e dominate il pesce del mare | |
e il volatile dei cieli | e il volatile dei cieli | |
e il bestiame | ||
di tutta la terra, | ||
e ogni strisciante sulla terra». | e ogni vivente strisciante sulla terra». |
È subito evidente che tra progetto e realizzazione molte sono le ripetizioni e quindi è giocoforza che le variazioni acquistino rilevanza, diventando luogo di interpretazione.
Il discorso divino inizia con un plurale: «Facciamo». Molte sono state le interpretazioni, eccone un elenco:
- Il “noi” fa riferimento alla corte celeste di Elohim. L’ipotesi era già sostenuta da Filone di Alessandria e da vari commentatori rabbinici.
- Per molti cristiani di ieri e di oggi nella prima persona plurale è adombrata la trinità oppure la presenza del Verbo.
- Il “noi” è una reminiscenza di un politeismo arcaico.
- C’è poi una spiegazione grammaticale: il “noi” è una sorta di plurale maiestatico, ma esso è sconosciuto alla lingua ebraica; farà la sua prima comparsa solamente nell’aramaico dell’epoca persiana.
- Infine, il verbo esprimerebbe una sorta di deliberazione interiore di Dio: egli parlerebbe con se stesso, quasi scindendosi in due soggetti, di cui l’uno affida l’incarico all’altro. È l’ipotesi che ha trovato il maggior consenso e da questa ripartiamo.
Se c’è un difetto in tutte queste soluzioni interpretative è che cercano una soluzione al di fuori del mondo del racconto, lasciando praticamente senza risposta l’interrogativo: perché il personaggio Elohim parla al plurale? L’ebraico conosce bene la forma al singolare per dare e darsi un ordine.
Fare dal nulla
Cominciamo rilevando che la scelta del plurale coinvolge un “altro” interlocutore. Ma qui Elohim è solo! Inoltre, quando successivamente il narratore racconta quanto Elohim mette in atto, dopo la sua decisione, usa sempre il verbo «creare» al singolare (wayyiḇrāʾ: v. 27). Nella Bibbia il verbo «creare» non significa «fare dal nulla», ma «fare del nuovo, del mai visto in precedenza», inoltre ha quasi sempre un solo ed unico soggetto: Dio. C’è poi la scelta del verbo «fare» (ʿāśâ) che ha un’accezione molto più ampia del verbo creare. Da qui un’ulteriore domanda: perché la scelta del verbo «fare» e non «creare»? Chi “altro” è coinvolto oltre a Elohim? Altra variante nella monotona ripetitività sta nel binomio immagine e somiglianza. Nelle parole di Elohim ʾādām è fatto «nella immagine di noi, come somiglianza di noi» (traduzione letterale). Per la legge del parallelismo i due vocaboli potrebbero indicare una sola realtà ed essere, quindi, dei sinonimi, ma questo non può essere perché nel verso successivo (v. 27), quando il narratore riprende la deliberazione di Elohim per raccontare quanto opera, c’è la sorpresa dell’assenza della «somiglianza», mentre il termine immagine viene ripetuto due volte. Di conseguenza c’è qualcosa dell’immagine che non c’è nella somiglianza. Per concludere i due termini non sono dei sinonimi.
I vocaboli
Il primo vocabolo «immagine» ṣelem (Lxx: εἰκών; Vg: imago) indica un’immagine plastica, in particolare le sculture (1Sam 6,5; 2Re 11,18), comprese delle statue di Dio (Ez 7,20; Am 5,26) proibite dalla legge (Dt 4,15-19). Si tratta quindi di una rappresentazione, di un ritratto. Il secondo «somiglianza» demût (Lxx: ὁμοίωσις; Vg: similitudo) deriva dal verbo dāmah, «essere come, somigliare a». Indica la «somiglianza» tra due realtà paragonabili per il loro aspetto (Ez 1,26; 2Cr 4,3), oppure tra una copia e l’originale (Is 40,18; Ez 23,15). Passando al versetto 27 resta una domanda: dove è finita la «somiglianza»? Nell’esecuzione del progetto c’è una terza variazione rispetto al progetto: ʾādām viene specificato in «maschio e femmina» (zāḵār ûnᵉqēḇâ). Questi due termini, nel contesto dell’Antico Testamento, sono usati sia per riferirsi all’essere umano (cfr. Lv 12,2.5; Nm 5,3) che agli animali (cfr. Gn 6,19; 7,3.9.16; Lv 3,1). Invece di avvicinare ʾādām a Dio, essi mettono in risalto ciò che ʾādām ha in comune con gli animali. Il narratore, in questo modo, sembra sfumare i confini tra la creazione di ʾādām e le creazioni precedenti. Infine, la creazione di ʾādām non si conclude con il ritornello: «E Dio vide che era cosa buona». Questo porta a un’interpretazione intrigante: la creazione di ʾādām è incompleta. L’umanità è creata a «immagine» di Dio, ma spetta a essa «farsi» (verbo ʿāśâ) «somiglianza», cercando di “somigliare” all’immagine divina che porta in sé. Di conseguenza il plurale «facciamo» se da un lato coinvolge come primo soggetto Elohim, dall’altro appella all’”altro” soggetto che è lì separato e differente da Elohim ma non del tutto estraneo perché ne è immagine: ʾādām. È nel «noi» del verbo «facciamo» che si dà il sorgere della relazione! In principio la “relazione” si radica nella parola di Elohim che di fronte all’“altro” – ʾādām – fonda l’“io” (in questo caso divino) e il “tu”.