Il processo con il quale la teologia assimilò in sé stessa la «storia», tuttavia, non fu affatto semplice. A questo proposito, si possono qui compiere alcune esemplificazioni. La prima evidenzia che la vera cesura assiale inquilina alla concezione attuale della storia, testimoniata pure dal calendario cristiano, che interpreta Cristo in quanto asse dei tempi, non trova riscontro alcuno nemmeno nel primo millennio dell’èra cristiana.
Anche le riflessioni teologiche di Ruperto di Deutz (1077-1135), di Onorio di Autun (1080-1150 ca.) e di Anselmo di Havelberg (1099-1158) dimostrano, piuttosto, che nel primo millennio cristiano Cristo non è visto come il perno della storia, bensì come il principio della fine, essendo, in questo caso, in perfetta sintonia con una linea di pensiero di origine patristica[7]. La salvezza che l’incarnazione dell’eterno Figlio di Dio inserisce nel periodare storico è, da questa prima prospettiva, per quella misura secondo la quale la fine comincia a risplendere presentemente nella storia.
il rapporto tra teologia e storia
L’altra esemplificazione, dimostrante come il rapporto tra teologia e storia sia stato sempre alquanto frizionato, si osserva in un’interessante crepa interpretativa. Già nel XII secolo i due storici cristiani P. Orosio (380-418 ca.) e, soprattutto, Otto di Freising (1112-1158 ca.) dedussero, dalla visione d’insieme storica e geografica circa la diffusione del cristianesimo nel mondo, la convinzione che la distinzione tra la città terrena e quella di Dio fosse diventata talmente sottile da non potersi più nemmeno distinguere e, per questo, da considerarsi effettivamente indefinibile, poiché «in omnem terram et in fines orbis terrae exierit sonus Verbi Dei»[8]. Questo tipo di errore storico ottenne, poi, una sua formalizzazione scientifica dal vescovo di Meaux Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), che pure si inseriva all’interno di una consolidata tradizione medievale, benché rimanga, per qualcuno, nient’altro che un suo erede infedele[9].
Proiettando l’assoluto nel relativo e il trascendente nell’empirico, nei suoi Discours sur l’histoire universelle[10] Bossuet interpretò l’impercettibile differenziazione tra città di Dio e la costruenda città cristiana dell’uomo come l’identificazione tra il progresso della società spirituale — che per lui è la Chiesa visibile — con l’edificazione della città di Dio, idea certamente non ancora espressa nel De civitate Dei di Agostino d’Ippona. In questo modo, il riferimento soprannaturale della storia veniva negativamente mutilato a favore di una visione completamente immanentista della storia stessa, oramai profanata nell’immagine interpretativa di un tutto già sufficiente a se stesso. Sarebbe, dunque, bastato l’arrivo di una filosofia secolarizzata per consumare e concludere un processo che abbassava l’analisi della storia al solo livello di umanità empiricamente osservabile, processo che non si fece molto attendere, dato il sopraggiungere della filosofia illuminista del XVIII secolo in Europa.
La formalizzazione dell’errore storico-interpretativo operata dal Bossuet è, comunque, assai più profonda di questa eziologia storica che è stata presentata, perché essa è consistita essenzialmente nell’aver voluto inserire un elemento razionale nell’interpretazione della storia universale e, precisamente, un nesso di relazione causale tra quanto il vescovo di Meaux vedeva accadere davanti ai suoi occhi nel XVII secolo e una filosofia «teologica» della storia intesa in senso molto generale, ossia giustificante la dimensione politica dell’azione del Delfino di Francia Luigi XIV (1643-1715)[11].
I risultati cui portò questo processo degenerativo nei confronti del valore in sé della storia si sono, poi, osservati in Europa soprattutto in alcuni messianismi storicistici, quali l’idealismo tedesco, il marxismo, l’esistenzialismo filosofico e l’evoluzionismo progressista. Per ognuna di queste forme di pensiero o «filosofie nuove» la storia doveva essere definitivamente rubricata dalla sua origine cristiana. Ciò nonostante, è stato proprio il pensiero teologico del secolo XX, quindi quello nato per reazione protestante e cattolica alle aporie del post-idealismo tedesco, che ha risollevato le sorti della storia al livello che le compete, ripristinandone l’autentica origine cristiana, quando insomma, si cominciò a parlare di storia della salvezza piuttosto che di storia «sacra».
La sicurezza della parola interpretante e narrativa
Il problema, dunque, era soltanto quello di vedere cosa accadde quando, incontrando il cristianesimo la cultura occidentale, diede i natali al concetto di storia. Semplificando non poco la questione, si può affermare che nel secolo XX, quello appena concluso, la riflessione del Concilio Vaticano II si accorse che soltanto il recupero del paradigma parola-storia poteva aiutare a comprendere quando la salvezza entra nella storia, perché fu proprio il paradigma cristiano che la «parola si fece carne» (o Logos sarx egeneto) (Gv 1,14) in Gesù Cristo quello che avviò la comprensione attuale che noi abbiamo della storia in quanto tale.
Infatti, partendo dai dati della Bibbia, quando si parla di «storia della salvezza» non si deve mirare soltanto ad adeguare tra loro la specificità dell’azione di Dio nella storia (salvezza) e il fatto che è essenziale all’uomo la propria storicità a priori (storia) affinché tale salvezza possa essere efficace. Questo adeguamento risulta incompleto se non si visualizza fino in fondo quella parola in cui la salvezza è diventata realmente efficace, che è la persona di Gesù Cristo. È necessario, allora, trattare sempre uniti parola (verità) e storia quando si desidera leggere la storia della salvezza, che non sia soltanto una storia «sacra», oppure una teologia «dei possibili».
Il fondamento della storia della salvezza è una relazione che si deve attuare tra l’evento storico e la sua interpretazione e narrazione presenti nella Bibbia, con le quali l’evento storico stesso è stato, così, trasmesso fino a oggi dalla comunità credente, perché proprio attraverso tale interpretazione appare quello che esso in realtà è: un fatto storico di salvezza. In quanto parola della Chiesa, la parola interpretativa, però, non è un dato aggiunto accanto all’avvenimento salvifico, ma è la parola già in esso inclusa implicitamente e da esso esigita perché sia così evento di salvezza. Infatti, il problema che sorge dinanzi alla Rivelazione di Dio visibile negli accadimenti della storia non prescinde dalla considerazione della parte che spetta a Dio e di quella che spetta alla storia nelle cosiddette «azioni salvifiche», ossia nella storia della salvezza, di cui l’uomo e l’intero creato sono beneficiari[12]. Affinché questa commisurazione sia attuabile, la teologia insegna che ciò è possibile solo osservando il susseguirsi cadenzato delle azioni salvifiche di Dio nella storia, ossia non solo sullo scenario della storia, ma nella costituzione della storia come avvenimento.
In realtà, noi conosciamo quei fatti – i fatti della storia biblica – non perché semplicemente narrati, ma perché confessati come avvenimenti di salvezza. Quei fatti possiedono, insomma, un solo punto di fuga che li può rendere visibili: l’applicazione della parola confessante. A ragione, pertanto, vale qui l’affermazione che «nessuna cosa riavvicina laddove la parola manca»[13]. Il problema sorge per i non-credenti che non confessano affatto il significato salvifico inteso dagli eventi significativi, problema che raggiunge il suo apice nell’incarnazione di Gesù Cristo, di fronte alla quale perfino gli Israeliti si chiudono nella loro incredulità (Rm 3,2-3). Per Gesù Cristo il problema è anche una questione, poiché in lui si avverò quella definitiva manifestazione divina che non avvenne, per così dire, di fianco all’avvenimento e nascosto in esso, bensì l’avvenimento stesso è stato la manifestazione irrevocabile e assoluta della salvezza di Dio. Infatti, «e la parola si fece carne» (Gv 1,14). Ma proprio in Gesù Cristo accade anche che il significato inteso dalla storia si trasformi in una proposta perché Gesù non è un bruto factum, bensì una persona realissima, di cui nella storia si è sentito il timbro della voce e si sono osservati i gesti salvifici (Dei Verbum 2).
In questo modo, sarà sempre il criterio cristologico quello che dovrà indurre il teologo a comprendere il concetto di «storia della salvezza», visto che l’immediato riferimento a Gesù Cristo, persona nella storia e presenza nella Chiesa, è la modalità più congrua per rendere teologicamente plausibile e ipotizzabile l’intervento attivo della trascendenza divina nel divenire storico. Veramente Gesù Cristo è il principio e il fine della storia (Ap 21,6). La Bibbia non teme di dire che in questo grandioso avvenimento non si tratta soltanto dell’uomo e della sua salvezza, ma che in esso è contenuta la gloria stessa divina che giungerà alla sua piena rivelazione.
La storia riconosciuta nell’uomo risorto di Nazareth e visualizzata nella sua tendenza ad una manifestazione, che deve ancora avverarsi pienamente, è la maggiore testimonianza della presenza attiva dell’Essere trascendente nel tessuto, altrimenti frammentario, della storia[14]. Solamente sulla croce gloriosa parla eternamente nel tempo quel Dio che, fin dai remotissimi inizi della sua parola di promessa, parla ancora escatologicamente dicendo: «Io sono colui che sono» (Es 3,14).
[7] Questa stessa opinione è condivisa sia da san Tommaso (1221-1274), come pure da san Bonaventura (1217-1274). Il motivo per il quale siavvallava, con fin troppa facilità, la connessione tra il principio della «fine» dei tempi con la venuta del Salvatore, proviene dall’assimilazione, da parte della teologia medievale, di una convinzione di origine pagana e trasmessa da Agostino d’Ippona (354-430), secondo cui Gesù Cristo si incarnò nella «sera dei tempi», ovverosia nell’ultima delle età del mondo, quindi nella pienezza delle sue età: cf J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, Nardini, Firenze 1991, 210-211.
[8] A. Hofmeister, ed., Ottonis episcopi frisingensis chronica sive historia de duabus civitatibus, Hahn Verlag, Hannoverae et Lipsiae 19122, 228.
[9] Cf H.-I. Marrou, «La théologie de l’histoire», in P. Courcelle, ed., Augustinus Magister. Congrès international augustinien (Paris 21-24 Septembre 1954). Actes, III, Études Augustiniennes, Paris 1955, 193-212, qui 196.
[10] Cf J.-B. Bossuet, Discorso sopra la storia universale per dilucidare la continuazione della religione e le mutazioni degl’imperj, Baglioni,Venezia 1775.
[11] È il filosofo W. Dilthey (1883-1911) colui che definisce la riflessione del Bossuet «una filosofia teologica della storia» (eine theologischePhilosophie der Geschichte): W. Dilthey, Gesammelte Schriften. I. Einleitung in die Geisteswissenschaften. Versuch einer Grundlegung für das Studium der Gesellschaft und der Geschichte, B.G. Teubner Verlag, Leipzig-Göttingen 19594, 99; tr. it. Id., Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della società e della storia, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1974.
[12] Cf. G. Pasquale, La storia della salvezza. Dio Signore del tempo e della storia, Diaconia alla verità 11, Edizioni Paoline, Milano 2002, 133-142.
[13] U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, Il Saggiatore, Milano 19982, 141.
[14] Cf G. Pasquale, «The principle of non-contradiction according to Aristotle», Filosofia Oggi 25 (2002) n. 2, 169, 219, qui 208-215; G. Reale,Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’«uomo europeo», Scienza e Idee 108, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, 99-104.