Credo sia ormai cosa ovvia sentire che, almeno nella nostra società occidentale, stiamo vivendo una grande crisi della morale. I valori che sono stati capisaldi per intere generazioni sembrano essere spariti e i punti di riferimento etico non sono più evidenze condivise. Sembra quasi che ognuno possa ormai fabbricarsi in casa propria la sua morale a seconda delle situazioni che urgono e nei salotti televisivi ogni guru improvvisato detta le nozioni etiche che vanno bene per il momento[1]. «Senza riferimenti di senso per la vita collettiva, l’abitante del villaggio globale vive una nuova stagione di solitudine e di insignificanza. Deve fare i conti con il senso di spaesamento e di estraneità a cui è consegnato in questa società»[2]. O, come afferma Umberto Galimberti, l’uomo oggi vive all’interno di una «società dalla “coscienza infelice” in cui il singolo non interpreta più la società e non ne è più interpretato»[3].
Ciò che sembra essere più grave in questa realtà è l’emergere di una profonda sfiducia che l’uomo ha nei propri confronti; sfiducia che viene sottolineata dai vescovi italiani i quali affermano che la società sta vivendo «una vera e propria eclissi del senso morale [….]. Più radicalmente, la caduta delle ideologie totalizzanti e delle grandi utopie di liberazione storica […] ha lasciato spazio a forme di relativismo, di indifferenza diffusa per le domande radicali, senso del provvisorio, frammentazione del sapere e delle esperienze»[4].
Ma questa sfiducia segna, credo, una radicale situazione di «peccato»: l’uomo sta perdendo (ha perso?) la sua dimensione ontologica e assiologica; il suo essere «immagine e somiglianza di Dio» non ha quasi più alcuna rilevanza e il desiderio di autonomia e di libertà ha portato l’uomo a cercare da solo proprie immagini e somiglianze di sé; ha intrapreso, quasi, un vagabondare ontologico che si ripercuote poi in un mendicare etico. Con una conclusione tragica: l’uomo si perde di vista e non ha più niente da dire né a se stesso, né agli altri e nemmeno a Dio[5].
Determinazione relazionale tra legge naturale e legge morale naturale
Non è questa la sede per trattare esaustivamente della legge morale naturale; basta rivedere qualsiasi manuale di teologia morale fondamentale; penso che tutti noi durante gli anni della nostra formazione teologico-morale abbiamo appreso come la riflessione morale non abbia mai potuto rinunciare a questo concetto, nonostante sia sempre stato, e lo sia tuttora, al centro di dibattiti e di contrasti accesi e accaniti[6]. Qui vale la pena soltanto ricordare che se il concetto di legge naturale è legato a una vera scoperta della coscienza e dell’uomo come misura di tutte le cose «nel senso che ogni singolo uomo è misura di se stesso e totalmente indipendente dagli altri», è con Aristotele che nasce «l’idea di natura umana […] e con essa l’idea e la formulazione della legge naturale»[7].
Il cristianesimo si è ampiamente servito delle categorie filosofiche greche nella sua riflessione morale. Per Agostino nell’uomo «sono presenti, in qualche misura, le idee universali: la loro ignoranza non può essere dovuta che al peccato e alla deliberata cattiva volontà dei trasgressori. La sinderesi, o intuizione originaria del precetto morale, è presente in ogni uomo per ogni singola scelta. Di qui la tendenza a trasformare la legge naturale in un elenco scritto – o comunque scrivibile – di peccati»[8].
Il problema sembrerebbe, allora, sorgere nella assolutizzazione della legge naturale, nella identificazione della natura come norma di comportamento derivante direttamente da Dio facendo quasi collimare un «agire secondo natura» a un «agire secondo il pensiero di Dio», riducendo così l’agire morale a una deduzione di regole e precetti estrapolati dalla legge naturale da esperti di morale. Questa forma di deduzionismo morale, l’assoluto oggettivismo dovuto a una certa dimenticanza della Sacra Scrittura, talvolta chiamata in causa come strumento divino per garantire posizioni umane, la legge naturale ridotta a un elenco di precetti, sono fattori che hanno contribuito a una disaffezione profonda da parte dei fedeli. Il desiderio di autonomia ha dato un colpo di grazia a questa idea di legge naturale sentita come oppressiva nei confronti di un bisogno profondo di libertà.
Ciò nonostante, avviene che ogni essere umano si interroghi sul bene e sul male morale, e si dia dei criteri valutativi sui quali commisurare i suoi comportamenti, sia che egli conosca la Rivelazione, sia che la ignori o in buona fede la rifiuti. Pertanto accanto al dato valutativo rivelato c’è anche un dato che non proviene dalla Rivelazione; un modo di essere presente all’uomo della chiamata divina diversa dalla Rivelazione; qualcosa non di «soprannaturale», ma, appunto, di «naturale». Anche la legge naturale è, allora, un luogo di lettura della chiamata divina e in questo senso si potrebbe dire che anch’essa è una «forma» di Rivelazione. Essa è la presenza, come appello, all’uomo del «consilium Dei» sul mondo, sulla storia e sul singolo. Si tratta di una forma che esclude già in partenza che il singolo possa naturalmente trovarla scritta e proclamata una volta per tutte da parte di altri uomini, cosicché, in questo senso, «naturale» significa una legge diversa dalla legge «positiva umana».
La legge naturale «è in primo luogo la stessa capacità dell’uomo di riflettere, ragionare sul proprio fine, sulla propria vocazione, sul significato della propria esistenza, e così stabilire quei criteri valutativi e quelle considerazioni di fatto, in base ai quali scoprire la norma per la situazione concreta […]. Per S. Tommaso essa è “participatio legis aeternae in creatura rationali”, è “impressio divini luminis”»[9].
Cristo nomos a motivo della sua individualità storica
Ciò che si instaura con l’incarnazione di Cristo è il suo modo nuovo di vivere il rapporto con Dio e la Legge. A partire da Gesù Cristo, ciò che viene da Dio sia in termini di Rivelazione – la legge morale –, che in termini di creazione – la legge naturale – non può essere subìto e vissuto solo come un complesso di precetti, osservanze passive e automatiche, bensì quale luogo di riscoperta di una figliolanza amorosa[10]. Ciò che il cristianesimo crede è l’agire e il parlare storico di Dio nell’Antico e nel Nuovo Testamento: al centro c’è Gesù Cristo, il messaggio definitivo di Dio e il suo ingresso «umano» nella storia, non più come precetto al quale rifarsi, ma come dinamica scoperta, nel tempo, della volontà di Dio. Così il cristianesimo non si è limitato a essere un divulgatore di precetti morali per una redenzione dal mondo e dalla storia, né mai ha rinunciato ad annunciare con fermezza un agire nuovo per una salvezza del mondo e della storia.
A questo proposito è significativo il fatto che l’evangelista Giovanni non usi mai nel suo Vangelo il termine «νόμος», se non per indicare la Legge mosaica, e ogni volta che parla della legge di Cristo usa il termine «ἐντολή» – comandamento[11]. Questa distinzione lessicale non è marginale. Gesù, infatti, annuncia il comandamento come «suo» e lo offre ai «suoi». Tale sottolineatura precisa che il confronto con la legge non avviene all’interno di una passiva deduzione di precetti, ma nell’intimo incontro con il Signore medesimo. Questo nuovo comandamento è la carità che è Dio stesso. Con Gesù non è abolita la Legge morale antica. Al contrario, per Gesù la nuova legge morale è lo Spirito che è in noi e che ci guida nel discernimento di ciò che concretamente è l’esercizio della carità.
Gesù ricorda spesso che la legge morale nasce all’interno del singolo individuo. Anche san Tommaso e san Bonaventura sottolineano che la legge morale rivelata nel Nuovo Testamento è propriamente il frutto dello Spirito di Dio nei singoli, ovvero la legge della carità. San Bonaventura, addirittura, rispondendo alla domanda di come la synderesis riesca a scoprire la verità intesa nella legge naturale dal suo Creatore, arriva ad affermare come non sia sufficiente la sola funzione della synderesis per l’atto moralmente buono: «e benché l’uomo possa pure avere questa naturale capacità di giudicare il bene assieme alla molteplicità dell’esperienza – scrive il Dottore Serafico –, tutto ciò non basta se non si aggiunge quell’illuminazione che viene dall’influsso divino»[12]. Anche in questo caso si tratta, ancora una volta, di una capacità naturale; però tale capacità naturale non può portare a nessun tipo di conoscenza certa senza l’influsso dell’illuminazione divina[13]. È, dunque, innanzitutto attraverso la terza via, quella soprannaturale, che, stando a san Bonaventura, si trova la chiave per la corretta comprensione della legge morale naturale poiché, con l’influsso di Gesù Cristo attraverso lo Spirito Santo, proprio questa scienza può condurre davvero all’eterna salvezza[14]. Per ogni altro precetto specifico, invece, succede che l’uomo sia, per così dire, «costretto» a scoprirlo, con la propria ragione essendo egli creatura razionale[15].
La fonte oggettiva del dovere morale è, comunque, certamente esterna alla situazione e, in questa ottica, il Nuovo Testamento rifiuta ogni etica della situazione in senso stretto; ma è anche interna al soggetto che agisce in situazione. Così si può affermare che: a) per un verso l’uomo non deve che obbedire a se stesso; b) per un altro, che questa obbedienza a se stesso non è arbitrio, ma vera obbedienza di fede in Cristo Gesù. Gesù di Nazaret ricorda agli uomini che non sono più servi obbedienti, ma amici che possono vivere una fede audace; ricorda pure agli uomini di avere fiducia, di avventurarsi nelle promesse della parola di Dio; di essere pronti a staccarsi dal mondo del misurabile e del calcolabile, dalla comodità e dalla banalità delle abitudini e di affidarsi alla novità del Vangelo. Nella sua vita Cristo invita il discepolo a non accontentarsi del «minimum morale» anche buono, anche devoto, anche lecito, bensì «inventare» nuovi percorsi e risposte e riconoscere la salvezza di Dio nella storia.
Nel suo agire storico Gesù ricorda alla Chiesa che essa possiede la verità nel senso che deve continuamente lasciarsi in essa introdurre dallo Spirito Santo (Gv 16,13). La parola della Chiesa, perciò, non è affatto, per ogni aspetto, la parola di Dio; la volontà della Chiesa non è la volontà di Dio. Essa è di continuo e sempre di nuovo in cammino. Essa deve costruire una risposta sempre nuova con l’obbedienza storica di fede. La Sacra Scrittura, infatti, non pensa in termini di leggi universali, di eterne nature ed essenze; il mondo non è per essa un qualcosa di fisso e di già fatto; esso è piuttosto in cammino, attende nello struggimento, attende di essere salvato e giace perciò, fino a quell’ora, in sospiri e doglie (Rm 8,19-21).
Questo carattere storico di ogni realtà è la ragione profonda del perché possono fallire tutti i tentativi, sia teologici che pratici, di volere risolvere le questioni della vita sociale, i problemi del matrimonio e della teologia morale in genere, soltanto con il diritto naturale. Invece che in termini storico-dinamici, si è sovente argomentato in forma storico-naturale. Ci si è esposti di continuo al pericolo di eternare un determinato status storico e di canonizzare e pietrificare determinati modi storici di realizzazione di un autosviluppo umano. A causa di questo pensare, in fondo non biblico, si sono provocati pericolosi conflitti con l’ulteriore sviluppo storico dell’uomo – che non si poteva impedire – e con i suoi rapporti esterni. Da qui le profonde crisi che così sorgono.
In effetti non c’è nessuna struttura metafisica che si possa svincolare da una concezione storico-salvifica[16]. L’unica cosa che permane – dal punto di vista teologico – è che l’uomo è colui che è stato chiamato storicamente da Dio e invitato a dare una risposta. Questo essere storicamente determinato sulla base di parola e risposta è la sua natura e fonda la sua irripetibile dignità e la sua moralità. Egli deve realizzarla in obbedienza e responsabilità storiche davanti a Dio.
Il rischio storico appartiene, dunque, sia alla fede, sia all’agire cristiano nel mondo. Il cristiano ha sempre a che fare con ciò che è nuovo; egli deve, pertanto, affidarsi a ciò che ancora non è stato provato, a ciò che non è prevedibile e non aggrapparsi – quasi con un atteggiamento conservatore o addirittura restauratore – a ciò che esiste e ogni volta è già passato; qui si intende dire che egli deve essere aperto alla parola di Dio, che crea storia e interviene di continuo in essa, scegliendo, rifiutando, spiegando, rivoluzionando. Contro ogni immobilismo, indice di poca fede, il cristiano deve essere segno di speranza in questo mondo angosciato in cerca di sicurezze. Se è vero che Dio è il più giovane di tutti noi, allora il cristiano deve rimanere sempre giovane sapendo riconoscere i «segni dei tempi» e conformandosi a essi nella fede.
A questo proposito, storia e storicità rappresentano una categoria fondamentale per la fede e la morale cristiana perché è il cristianesimo che ha portato all’umanità la categoria della storia[17]. E il pensiero storico moderno può essere per la fede e la morale una possibilità nuova, da valutarsi in modo positivo. Si potrebbe anche aggiungere che non la natura, non la profondità dell’anima, ma la storia è la dimensione in cui noi, come cristiani, incontriamo Dio. Ma qui si tratta di precisare esattamente quale categoria di «storia» interessa al cristianesimo.
Legge naturale e storia della salvezza: dal «che cosa hai fatto?» al «dove sei?»
La predicazione e l’agire cristiano, infatti, non devono – non possono – insegnare il Dio dei filosofi, un essere superiore e supremo, ma devono testimoniare il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe[18]. L’annuncio cristiano non dovrebbe, pertanto, rappresentare un sistema di verità astratte o una concezione precettistica di asservimento, bensì proclamare le grandi azioni storiche di Dio e attualizzarle con la parola e i sacramenti. Esso rimane legato all’«in illo tempore». Non deve conoscere nient’altro che Gesù Cristo e questi come persona concreta, storica, come il crocifisso (1Cor 2,2). Se non si prende seriamente in considerazione questo Gesù storico, si va a finire, come oggi la teologia ha di nuovo riconosciuto, nel docetismo, e si fa dell’incarnazione un’apparenza e di Gesù un mito astorico[19]. Il riferimento corretto alla storia è, dunque, non soltanto una parte costitutiva della fede cristiana, ma pure della comprensione cristiana della stessa legge morale naturale. Non si può sfuggire dinanzi alla problematica che ci viene posta oggi dalla storia, ritirandosi in un presunto spazio interno alla fede o respingendo come irrilevante per la fede la questione storica.
Infatti potremmo anche chiederci: se la fede diventasse senza storia, la storia non diverrebbe senza fede? Cosa rimarrebbe ancora della missione universale della Chiesa, della forza del cristianesimo che cambia il mondo e perciò fa la storia? Oggi abbiamo proprio tutti i motivi per sottolineare il carattere storico del cristianesimo e per affermare che, con Cristo, Dio è entrato realmente in questa nostra storia concreta – proprio in quella feriale –, l’ha accettata, amata e redenta. Una esistenziale interpretazione della fede, estremamente unilaterale, in cui al posto della storia esiste soltanto la storicità soggettiva, rende il cristianesimo senza mondo e accomiata Dio dalla storia concreta.
Secondo l’esempio offerto da Gesù, la storia è il dialogo tra Dio e l’umanità, che si realizza in determinati spazi di tempo. Il singolo si trova in essi, vi è inserito e in quelli può incontrare il Dio che si rivela in Cristo. Ecco perché per il cristiano la storia sta sotto la norma e sotto il metro di Cristo. Qui si intende esattamente dire che con Cristo la storia è entrata nella sua fase ultima e decisiva. Così la norma, in quanto tale, non dovrebbe mai presentarsi in forma autonoma e autarchica. Se perciò le utopie intramondane sono espressione dell’uomo che dà sicurezza a se stesso, esse sono condannate, a partire dal Vangelo; condannate perché consegnano l’uomo sempre più a un agire e a un operare che ruota attorno a se stesso, a un immutabile cerchio diabolico.
Insomma, ciò che Cristo consegna agli uomini è una riscoperta del significato forse più profondo e vero della legge morale naturale; in effetti egli ricorda che il dono della legge naturale è per l’uomo il mezzo mediante il quale egli è chiamato a essere nella storia il «custode della trascendenza». E questo ha come conseguenza un agire morale fondato non su un deduzionismo freddo e asettico, ma su una continua ricerca di un modo di essere che ha per orizzonte il desiderio dell’incontro di Dio. La «norma» che Gesù Cristo affida agli uomini è il superamento di un agire fondato sul semplice dovere imposto esternamente da una legge; piuttosto essa è la gioiosa e riconoscente risposta alla domanda di senso che Dio ha deposto nel cuore di ogni uomo. Si tratta qui di una morale che non risponde al «che cosa hai fatto?» (Gn 3,13), ma al «dove sei?» (Gn 3,9) che Dio rivolge prima ad Adamo e poi a Caino chiedendogli: «Dov’è tuo fratello Abele?» (Gn 4,9), interrogativo che, infatti, racchiude l’orizzonte di senso che Gesù ha proclamato con il suo «comandamento nuovo».
L’individualità storica di Gesù Cristo, insomma, è la stessa norma che si (pro)pone a qualsiasi uomo perché sia riconsegnato pienamente e totalmente alla sua dignità e libertà. Pertanto, Gesù Cristo è norma storica alla legge morale naturale proprio perché illumina quest’ultima quale autentico percorso di una possibile e dignitosa libertà dispiegata all’essere umano. L’uomo, in Cristo, riaccende quella peculiare capacità di intelligenza e di raziocinio come doni di Dio, abilitandosi, così, a non rimanere chiuso nel passato di debolezza e fragilità – che rischiano perfino di obnubilare la recta ratio interpretante la legge naturale –, bensì aperto a un futuro di grazia, spinto in un cammino di libertà nel quale Cristo precede sempre l’uomo, chiamandolo a essere suo imitatore: il che significa generoso costruttore di opportunitàper sé e per il prossimo nell’oggi di una storia, che rende simultanei nel tempo i trentatré anni della microstoria di Gesù di Nazaret, ove i «suoi» scorgono l’essere e l’agire di Dio, che è sempre amore.
Gianluigi Pasquale OFM Cap.
[1] Aveva ragione, a questo proposito, Mons. Rino Fisichella ad affermare, ancora nell’anno 2000: «Dio oggi non è negato, è sconosciuto! Dalla problematica dell’ateismo che ha segnato certamente il periodo preconciliare e la stessa analisi di Gaudium et Spes, si è passati, almeno in Occidente, a un’altra espressione che è l’indifferenza religiosa e l’ignoranza dei contenuti di fede. È in questo contesto che bisogna comprendere gli interventi che sottolineano l’importanza per l’inserimento dei credenti in un processo culturale che sia in grado di far conoscere il messaggio biblico, anche come semplice espressione culturale, che possa poi sfociare in una comprensione del Dio di Gesù Cristo»: R. Fisichella, Approdo sintetico, in Id., ed., Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pp. 729-736, qui p. 733.
[2] O. Svanera, La formazione della coscienza nella Chiesa, in «Credere Oggi» 22 (2002) n. 2, pp. 95-113, qui p. 95. Si veda pure C. Caltagirone, La comunità dei parlanti. L’istanza etica del «parlare» secondo Jürgen Habermas, Studi e Ricerche della Fondazione «Istituto Euromediterraneo per la formazione, ricerca, terapia e lo sviluppo delle politiche sociali» 10, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2006, pp. 214-228.
[3] U. Galimberti, Orme del sacro. Il Cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, Serie Bianca, Feltrinelli, Milano 2000, p. 226. Si veda anche C. Dotolo, Il futuro del cristianesimo. Una questione teologica, in C. Aparicio Valls – C. Dotolo – G. Pasquale, ed., Sapere teologico e unità della fede. Studi in onore del Prof. Jared Wicks, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004, pp. 248-272.
[4] Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000 (Roma 29 Giugno 2001), n. 41, in Enchiridion CEI 7, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006, pp. 90-155, qui p. 125.
[5] Cf G. Pasquale, Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, Ricerca, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 135-142.
[6] Interessante è il resoconto offerto dal recente studio di G. Quaranta, La cultura pieno sviluppo dell’umano. Il concetto e la funzione della cultura nel pensiero di Bernhard Häring, Tesi Accademia Alfonsiana, Editiones Academiae Alfonsianae, Roma 2006, pp. 233-296
[7] E. Chiavacci, Legge naturale, in F. Compagnoni – G. Piana – S. Privitera, Nuovo Dizionario di Teologia Morale, a cura di, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, pp. 634-647, qui p. 635.
[8] E. Chiavacci, Legge naturale, p. 636.
[9] E. Chiavacci, Teologia morale.I. Morale generale, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 1983, pp. 164-165.
[10] Cf G. Pasquale, La unicidad de la persona de Jesucristo. Ensayo de una gramática teológica, «Espíritu y Vida. Revista Franciscana de Pensamento» 64 (2006) pp. 277-300.
[11] Cf R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, I-II, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 1979, pp. 394-480, e Id., Introduzione al Nuovo Testamento, a cura di Gastone Boscolo, Queriniana, Brescia 2001, pp. 457-514.
[12] «Et quantumcumque homo habeat naturale judicatorium bonum et cum hoc frequentiam experientiae, non sufficiunt, nisi sit illustratio per divinam influentiam»: Bonaventura da Bagnoregio, De donis Spiritus Sancti collatio VIII, n. 15a, in Id., Sermoni Teologici/2, Nuova Collana Bonaventuriana, a cura di J. Guy – C. Del Zotto – L. Sileo, Città Nuova Editrice, Roma 1995, pp. 262-263.
[13] «Nullus certitudinaliter illuminatur nisi per ipsum (Deum)»: Bonaventura da Bagnoregio, De donis Spiritus Sancti collatio VIII, n. 15b, pp. 262-263.
[14] Cf M. Heinrichs, Synderesis und Apatheia ein Beitrag zur Theologie Bonaventuras im östlichen Raum, in Commissio Internationalis Bonaventuriana, ed., S. Bonaventura (1274-1974). III. Philosophica, Collegio S. Bonaventura, Edizioni Porziuncola, Grottaferrata (Roma) 1973, pp. 623-695.
[15] È questa, per chi scrive, l’esatta differenza tra la posizione tommasiana e quella bonaventuriana. Proprio per questo, non è accettabile, da quest’angolo visuale, l’ermeneutica di chi intende(rebbe) intravedere in Tommaso d’Aquino una determinazione della legge naturale non in termini proposizionali, ma di processo performativo in cui – presupposto l’originario motus creaturae rationalis in Deum come summum bonum – il bonum in particulari emerge(rebbe) dialogicamente e solo in tal modo diventa obbligante: «Das Gute in particulari bleibt für den Menschen strukturell unalgorithmisierbar und zutiefst unvorhersehbar. Insofern der Handelnde bereit ist, die Endlichkeit und Fragmentarität seines Handelns zu akzeptieren, wird er nicht aus einer Position, die für sich absolute Gewißheit beansprucht, entscheiden, sondern sich vielmehr auf einen Prozeß des ‚Dialogs der Fragmente‛ einlassen, aus dem allein eine recta electio bzw. eine wohlgeformte Handlung emergieren kann. Der daraus entstehende actus debitus et bene proportionatus wird ein originäres Moment der Realisierung des Guten in generali, ein Moment der Freiheit und der Kreativität und somit ein Moment der persönlichen und aber auch der sozialen Wiederfindung sein. Die zu einem konkreten Akt objektivierte Erfahrung der kreativen Freiheit, in der das Streben nach Vollkommenheit erscheint, präsentiert sich als der Objekt gewordene Prozeß des Dialogs und als die zum Werk gewordene Erfahrung des fundamentalen Ganzen, ja als ästhetisches Moment der Vollkommenheit. Diese zeigt sich in der Temporalität immer als Fragment und verbirgt somit das Ganze der eigenen Selbstverwirklichung, gerade indem es manifestiert»: E. Bidese, Die Strukturen des freien und kreativen Handels. Interpretationen und Perspektiven aus der linguistischen Forschung Noam A. Chomskys und der ethischen Reflexion Thomas von Aquins, Epistemata. Würzburger Wissenschaftliche Schriften 325, Königshausen & Neumann, Würzburg 2002, p. 240. L’evidente precarietà – la quasi relatività – di questo assunto mi sembra rintracciabile quale portato di una (ingenua) presupposta possibilità di sinossi tra la ricerca linguistica di Noam A. Chomsky e l’Aquinate. L’agire così strutturato, infatti, si caratterizza come finito e frammentario; l’actus debitus et proportionatus costituirebbe il momento originario della realizzazione del bene in generali, come E. Bidese ha tentato ulteriormente di dimostrare in E. Bidese, Nota sul concetto di «formalità dialogico-procedurale» come base per una «metafisica aperta» in Tommaso d’Aquino, «Rivista di Filosofia Neoscolatica» 96 (2004) pp. 557-566, e, poi, proprio in una Rivista stranamente pubblicata da una Pontificia Università: Id., Das Naturgesetz als dialogische Emergenz des Ethischen. Zum Verhältnis zwischen lex aeterna, lex naturalis, und motus rationalis creaturae im De-lege-Traktat der Summa Theologiae Thomas von Aquins, «Gregorianum» 86 (2005) pp. 776-805. Assai più equilibrate sono le posizioni di M. Rhonheimer, La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando Editore, Roma 1994, pp. 126-153, e di B. Niederbacher, Glaube als Tugend bei Thomas von Aquin. Erkenntnistheoretische und religionsphilosophische Interpretationen, Münchener philosophische Studien 24, Verlag W. Kohlhammer, Stuttgart 2004, pp. 149-156.
[16] Ciò non toglie, però, che si possa parlare, almeno, di una «metafisica minima», avendo essa la sola pretesa di far valere dimostrativamente che è impossibile restare all’esperienza storica, e che è necessario affermare l’alterità radicale dell’essere assoluto rispetto a tale esperienza. Il suo nucleo speculativo consiste, pertanto, nella dimensione della non-identità della totalità di ciò che non è con l’unità originaria dell’esperienza: cf C. Vigna, Metafisica minima, «Hermeneutica». Nuova Serie 24 (2005) pp. 119-137, e P. Pagani, Contraddizione Performativa e Ontologia, Filosofia 495.104, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 362-373.
[17] Cf G. Pasquale, La teologia della storia della salvezza nel secolo XX, Nuovi Saggi Teologici. Series Maior 3, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2002, pp. 541-545.
[18] Cf B. Pascal, Memoriale [23 Novembre 1654], in Id., Pensieri, a cura di Paolo Serini, Einaudi, Torino, 1967, pp. 421-422 e l’esauriente commento di A. Peratoner, Blaise Pascal. Ragione, rivelazione e fondazione dell’etica. Il percorso dell’Apologie, I-II, Ed. Cafoscarina, Venezia 2002, pp. [I] 613-808.
[19] Cf V. Battaglia, La signoria universale di Gesù Cristo. Una lettura in prospettiva escatologica, in V. Battaglia – C. Dotolo, ed., Gesù Cristo. Figlio di Dio e Signore, Biblioteca di Ricerche Teologiche 3, EDB, Bologna 2004, pp. 191-211, qui pp. 207-209.