La Lettera dal convento di fra’ Gianluigi Pasquale di oggi, venerdì 27 gennaio:
Il voto di povertà, l’altro volto della libertà
Dopo aver scritto sul voto di obbedienza la scorsa volta, parliamo in questa Lettera del voto di povertà. Rispetto all’obbedienza e alla castità è quello che la gente comprende meglio perché illumina di autenticità e credibilità colui che lo professa e lo pratica. Fin dagli albori della vita monastica e religiosa, non solo in Europa, tutti i fondatori di congregazioni o forme di vita consacrata fecero propria la povertà Figlio di Dio.
Beati i poveri in spirito
Gesù di Nazareth, come sappiamo, nacque in una mangiatoia a Betlemme povero (Lc 2,12), non aveva un «luogo dove posare il capo» (Mt 8,20) e non sapeva nemmeno come fosse fatto un denaro (Lc 20,24). Morì, infine, completamente povero: addirittura nudo sulla croce (Mt 27,35). Anzi, stando al «discorso della montagna», affermò che la prima beatitudine è questa: «beati i poveri in spirito» (Mt5,3). Attirati dall’essere povero di Gesù, monaci, frati e suore sceglievano per sé e per la propria comunità di non possedere nulla, vivendo senza nulla di proprio, perché si erano presto accorti che la comunità cristiana diventa assai poco credibile quando si presenta ricca, potente o dedita solo all’accumulo di denaro. Il voto di povertà, quindi, assume un triplice significato: innanzitutto aiuta il religioso a seguire più da vicino il Signore Gesù, fin da subito; poi lo prepara a non sentirsi legato alle cose di quaggiù, ma a quelle del Cielo (Col 3,2), creando nel suo cuore una grande disponibilità all’annuncio del Vangelo; infine, consegnando tutti i beni alla propria comunità, come accadeva all’inizio nella prima Chiesa (At 4,35), egli fa sì che questa condivida tali beni con i poveri.
Povertà personale e comunitaria
Il modo di interpretare il voto di povertà tra i religiosi ha surriscaldato i loro animi lungo i secoli. Indice, questo, del desiderio di essere fedeli al Vangelo di Gesù proprio in riferimento alla testimonianza da offrire con la professione di questo voto. Semplificando, vi sono stati e vi sono tre modi di interpretare la povertà volontaria per il regno dei Cieli. Con il primo, né il religioso, né la comunità possono possedere alcunché, ossia il denaro non si tocca mai. È questa l’interpretazione dei santi Francesco (1182-1226) e Chiara d’Assisi (1194-1253), soprattutto di Chiara che, in modo commovente, riuscì a ottenere da papa Gregorio IX (1170-1241) il «privilegium paupertatis», lottando per questo sino alla fine. Francesco, addirittura, considerava il denaro «sterco del diavolo» (Fonti Francescane, 654) e si irritò assai quando vide che a Bologna i suoi primi frati accettarono la proprietà di un pur piccolo romitorio (Fonti Francescane, 1575). Il secondo modo di vivere la povertà è, infatti, proprio questo: il frate non possiede nulla per sé, mentre la sua comunità può possedere qualcosa per la normale sopravvivenza. Vi è, infine, un terzo modo già intravisto da san Francesco, che consiste nel vivere con «il lavoro delle proprie mani» (Fonti Francescane, 24), non quindi chiedendo la carità, e utilizzando il “salario” per la comunità e per i poveri.
I monasteri e la cultura europea
Senza tema di smentita si può affermare che il voto di povertà dei religiosi ha creato e forgiato l’Europa. Finalizzato, in ultima istanza, ad aiutare i più poveri, rinunciando ai propri beni per consegnarli alla comunità, i monaci permisero a quest’ultima di attrezzarsi di tutto ciò che era necessario per bonificare i terreni attorno ai monasteri, per istruire i contadini e i primi “cittadini” con i libri scritti e conservati nei monasteri e, soprattutto, per curare e alleviare le sofferenze della popolazione con medicine e bevande che uscivano dai monasteri.
Povertà, fa rima con libertà
Anche nello scenario attuale il “voto” di povertà riveste un significato profondo. Gesù ci avvertì che «i poveri li avrete sempre con voi» (Mc 14,7), eppure il religioso è consapevole che soprattutto negli occhi dei poveri si intravede il riflesso di quelli di Gesù, il Figlio di Dio. Il religioso è anche consapevole che, pur non avendo nulla di proprio come di fatto accade, il rischio che gli uomini del nostro tempo siano, in realtà, più poveri di lui è sempre incombente. Infine, il religioso è consapevole che la povertà reale toglie al denaro quella forza misteriosa che inganna e illude e, per questo, che il voto e la realtà della povertà fa sempre rima con libertà.