Non si potrebbe sillabare nulla intorno alla statura teologica di Jean Daniélou (1905-1974) senza prima conoscere alcuni tratti della sua biografia e della sua formazione intellettuale. Soltanto a partire da questi due tracciati è possibile scorgere il peculiare interesse che il Cardinale Gesuita di Parigi ebbe nei confronti sia del mondo che della missione, come testimoniano inequivocabilmente le sue opere e i propri interventi al Concilio Vaticano II. Perfino l’ultimo gesto della sua morte fu un atto di carità missionaria, come ho cercato recentemente di dimostrare (G. Pasquale, Jean Daniélou, (Novecento Teologico), Morcelliana, Brescia 2011) e come ci ricorda François Dosse nella sua documentatissima biografia Michel de Certeau – Le marcheur blessé, Découverte, Paris 2002, p. 210). Basti qui soltanto ricordare che la madre, la signora Daniélou, nata Madeleine Clamorgan (1880-1956), nel 1910 comincia a raccogliere un gruppo di donne che si consacrano all’educazione; la scoperta della spiritualità ignaziana, all’incirca due anni dopo, definisce completamente l’identità missionaria dell’associazione e nasce, così la «Communauté Apostolique Saint-François-Xavier», che forte influsso ebbe sul giovane Jean. Ma fu soprattutto il secondogenito e fratello di Jean, Alain (1907-1994), che obbligò il futuro Gesuita a confrontarsi con culture diverse da quella europea. Alain divenne un fine conoscitore del sanscrito, delle filosofie hindu e dello yoga, ma trasmise soprattutto al fratello Jean un incredibile interesse per le religioni non cristiane e, di conseguenza, per l’annuncio missionario attuato dal cristianesimo.
Una spiritualità incarnata nel mondano
La seconda traccia è l’impegno intellettuale di Daniélou. Mentre si percepisce una certa “reticenza” nei confronti di colossi come Tommaso d’Aquino, e ancor più della Scolastica in genere – così, almeno, egli scrive nelle sue Memorie (J. Daniélou, Memorie, SEI, Torino 1975, pp. 98-111) –, il gesuita parigino cita più volentieri autori mistici come Ruysbroeck e Tauler. Bernardo di Chiaravalle, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, alla pari di Caterina da Genova e di Caterina da Siena ritornano soprattutto nei suoi primi scritti spirituali; meno presente è Teresa di Lisieux. Charles de Foucauld lo ha influenzato tanto nella sua vita interiore quanto nella sua teologia della missione; come un’altra influenza particolare gli viene, invece, dal cardinale Pierre de Bérulle e dalla scuola francese. Ed a partire da questi filoni che il Nostro svilupperà una sua “spiritualità” quella che, non collocandolo ancora troppo precisamente tra la cosiddetta corrente degli “incarnazionisti” o degli “escatologisti” matura, tuttavia, in lui quella consapevolezza che lo porterà a scrivere il celebre: L’orazione come problema politico (Edizioni Arkeios, Roma 1993).
La sua feconda produzione teologica esibisce la sintesi di almeno tre coordinate caratterizzanti la biografia del gesuita parigino: innanzitutto, l’accostamento pedissequo e ininterrotto alle fonti dei Padri; quindi, la frequentazione di almeno altri due “maestri” nella lettura continuata delle fonti patristiche, Henri de Lubac e Odo Casel; infine, la propria peculiare visione della storia della salvezza quale memoriale del passato e profezia dei magnalia Dei: si pensi, per esempio, alla monumentale Storia delle dottrine cristiane prima di Nicea: I. La teologia del giudeo-cristianesimo (1958), II. Messaggio evangelico e cultura ellenistica (1961), III. Le origini del cristianesimo latino (1968). Indirizzandosi a un pubblico molto più vasto, la prima parte della Nuova storia della Chiesa (1963), ripubblicata indipendentemente sotto il titolo di L’Eglise des premiers temps (1985), offre una visione magistrale della Chiesa dalle origini fino alla fine del terzo secolo. Pionieristici furono anche gli studi di Daniélou sul giudeo-cristianesimo, mentre è utile menzionare anche Etudes d’exégèse judéo-chrétienne. Les Testimonia (1966), un contributo sulle tecniche di citazioni dall’Antico Testamento all’interno del corpus neotestamentario e della letteratura cristiana arcaica. Altre opere maggiori sono: Sacramentum futuri (1950), che si focalizza attorno al carattere figurativo di Adamo, Abele, Noé, Mosé, e Bibbia e liturgia (1951), un manuale che spiega i riti dei sacramenti alla luce della Scrittura e dei Padri. In questa linea s’innesta il piccolo ma denso libro I simboli cristiani primitivi (1961), che facilita la comprensione di alcuni simboli in ottica sacramentaria. Ma bisogna nominare anche: Il segno del tempio, o della presenza di Dio (1942) e i famosi Diari spirituali (1998) Il segno del tempio (1953) offre, in una suggestiva veste poetica, un condensato del suo pensiero: tutto il mistero cristiano viene dispiegato in alcune pagine sotto il segno del Tempio divino, simbolo della presenza di Dio nell’universo, nella Legge Mosaica, nel Cristo, nella Chiesa, nella storia, nell’anima cristiana, infine nel Cielo; si vede, così, che la storia santa è, innanzitutto, ciò che Dio compie.
I Diari spirituali, invece, rappresentano il “cantiere” aperto di numerose altre opere, in ragione dell’approccio mistico della teologia di Daniélou, caratterizzata da una compenetrazione di contemplazione e speculazione teologica. Si tratta di interessantissimi appunti personali che egli prendeva durante la sua formazione – essenzialmente dal 1936 al 1946, oltre a qualche pagina scritta nel 1957 – spesso durante i suoi ritiri spirituali, e che saranno parzialmente pubblicati nel 1993, dunque quasi vent’anni dopo la sua morte, integralmente soltanto nel 2007. Alla sua scomparsa era seguita la pubblicazione delle Memorie (19745): anche questa raccolta di ricordi e di interessanti osservazioni sul mondo contemporaneo apre una finestra sull’anima del teologo e sulle influenze che, a suo avviso, lo avevano segnato maggiormente.
Un teologo difficilmente rubricabile
Nel secolo XX la teologia si stagliava in un preciso scenario, con il quale dovette confrontarsi anche Daniélou. Allora i teologi si dividevano tra coloro che intravedevano una salvezza cristiana rintracciabile all’interno dell’impegno ecclesiale incarnato nel mondo, e altri che, invece, proprio alla luce del fatto che tale salvezza non è soltanto di ordine naturale, la prospettavano come sicuramente raggiungibile in un al di là ultraterreno. I primi vengono ancora oggi rubricati quali teologi “incarnazionisti”, gli altri, per converso, come teologi “escatologisti”. Se si pensa alla teologia “della liberazione” si capisce facilmente che il problema non sia affatto nuovo. Si presenta soltanto sotto panni diversi. Tuttavia, nessuno finora, per quanto consta allo scrivente, ha mai compreso appieno la posizione definitiva assunta dal Daniélou.
Non bisogna, però, dimenticare che, attraverso i Padri della Chiesa e le prime testimonianze della fede, il nostro teologo giunge ad accordare un ruolo fondamentale all’interpretazione spirituale della Scrittura applicata alla teologia sacramentaria, adoperando in particolare la tipologia biblica quale categoria preferenziale per autorizzare un’ermeneutica credente dell’impegno missionario (J. Daniélou, Essai sur le mystère de l’historie, Éditions du Seuil, Paris 1953, p. 6). L’enunciazione dei caratteri – che per Daniélou sono tre – della tipologia biblica in quanto ermeneutica del tempo dell’attualità, distanzia e distingue, pertanto, Daniélou dalle soluzioni delle varie correnti escatologiche, anche se non lo colloca tra gli incarnazionisti; analogamente, il riconoscimento della natura della teologia della storia all’interno del dogma calcedonese, gli permette di affermare che la parusìa non sarà una conclusione dell’evoluzione dell’umanità, né, tanto meno, che la storia della Chiesa sarà completamente sganciata dal contributo dell’azione umana.
Daniélou al Concilio: Rivelazione divina a antropologia teologica
Nel Settembre del 1962 il Beato Giovanni XXIII convoca il Nostro al Concilio Vaticano II in veste di esperto: Daniélou contribuisce, più o meno direttamente, all’elaborazione di documenti come Lumen Gentium, Perfectae Caritatis,Nostra Ætate, Dei Verbum, Apostolicam Actuositatem, Dignitatis Humanae, Gaudium et Spes. Anche se non lavora direttamente all’elaborazione di Sacrosanctum Concilium, la Costituzione integra l’essenziale della sua riscoperta dell’espressione sacramentale della «storia della salvezza nella liturgia». In una pagina, inoltre, Daniélou si dice impressionato dalla persona del cardinale Wojtyla (J. Daniélou, Carnets spirituels, Les Éditions du Cerf, Paris 1993, pp. 119-120).
Dopo uno studio attento degli Acta Synodalia, due sono, in sintesi, i contributi di Daniélou al Concilio: quello inerente la divina Rivelazione e quello intorno all’antropologia cristiana, confluiti rispettivamente in Dei Verbum, Lumen Gentiume, soprattutto, in Gaudium et Spes. Durante il primo periodo del Concilio Vaticano II, Daniélou propone di formulare un «proemio» sulla Rivelazione (Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, I/III, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1985, pp. 319-320 [AS]). Il testo dello schema, che fu consegnato da Mons. P. Veuillot (1913-1968) durante la XXIV Congregazione generale (21 Novembre 1962) e, successivamente assieme ad alcuni ritocchi, trasmesso dall’allora Mons. G.M. Garrone (1901-1994) alla «Commissione mista» il 26 Novembre 1962, si ritrova nella sua formulazione originaria nell’archivio personale di Daniélou, ora pubblicato (J. Daniélou, De Revelatione et Verbo Dei, «Les amis de Cardinal Daniélou» 11 (1985), pp. 9-12, qui pp. 9-10). Il rilievo cristologico ivi presente è assai interessante: «Questa rivelazione è stata a noi comunicata (fatta) da Dio in Cristo. [Eb 1,1]. Egli è l’agnello che apre il libro, nel quale sono contenuti i segreti dell’imperscrutabile volontà divina e che ne scoglie e sigilli. In esso si svela che gli uomini sono stati eletti prima della fondazione del mondo a diventare figli adottivi di Dio in Cristo e lode e gloria della sua grazia. (Ef 1,4-6)»: ibid., n. 2, pp. 286-287, con mia traduzione dal latino). Nel n. 4, inoltre, si pone questa importante affermazione: «In Cristo si dà l’ultima e completa [integra] rivelazione [Eb 1,1]. In lui, che è il Verbo di Dio, il Padre si è manifestato in modo perfetto [Gv 14,2]. In questo modo Cristo, è il centro e il fine del tempo, anche di quello presente. […] Non è, pertanto accettabile quella concezione seconda la quale il cristianesimo sarebbe una mera età tra quelle della storia umana, essendo piuttosto l’ultima e definitiva età della stessa storia: AS I/III, p. 287, con mia traduzione dal latino). È significativa, in questo caso, l’osservazione che egli appone allo schema elaborato dalla Commissione preparatoria conciliare «De deposito fidei pure custodiendo», dove al capitolo 4 («De Revelatione publica et de Fide catholica») a commento del n. 18 (Revelatio et historia salutis), scrive: «L’oggetto di fede non è in effetti del tipo di quello delle verità teoretiche, bensì delle opere divine, alle quali le fede aderisce direttamente sulla base della testimonianza infallibile della Scrittura e della Tradizione che ce le dà a conoscere. Sembra che il paragrafo s’ispiri a una deficienza circa la concezione della “storia della salvezza”, quasi si opponesse a quella di “dottrina di fede”, benché questa opposizione sia ingiustificata, poiché attraverso la preposizione dogmatica è la realtà che essa significa che viene messa al riparo» (J. Daniélou, Observations sur le «De deposito fidei pure custodiendo», «Bulletin des Amis du Cardinal Daniélou» n. 13 (1987), pp. 3-21 qui p. 13, mia traduzione dal francese).
Determinante è, inoltre, il contributo di Daniélou all’antropologia teologica. Egli è convinto che l’uomo, in conseguenza al suo stato creaturale, «esiste solo in quanto è proferito dal soffio di Dio. Esistere per lui è essere in relazione con Dio. Questa relazione è costitutiva del suo essere». Daniélou insisterà su questo aspetto, particolarmente sviluppato nella patristica e nella teologia orientale. A proposito di uno schema preparatorio del Concilio così scrive: «Lo schema sottolinea con ragione il dogma della creazione. Ma potrebbe sottolineare maggiormente l’aspetto di dipendenza radicale in rapporto a Dio di ogni esistenza esterna a Lui, e non solamente del fatto della creazione originaria» (J. Daniélou, Observations sur le «De deposito fidei pure custodendo», cit., p. 10). Questi “appunti” di antropologia biblica sono gli stessi su cui Daniélou sperava, nel 1962, che si insistesse al Concilio: la dignità dell’uomo in quanto immagine di Dio; la sua sovranità in rapporto alla natura; la sua costitutiva partecipazione a una comunità umana; il suo relazionarsi a Dio mediante l’adorazione. A questi elementi conviene aggiungere quelli che d’Ornellas ha circoscritto in particolare nel testo intitolato «De admirabili vocatione hominis secundum Deum», contributo per l’elaborazione dello «Schema XVII» largamente influenzato da Daniélou. D’Ornellas sottolinea come l’apporto di Danielou sia stato «determinante», perché «è lui che aveva sottolineato il posto della libertà nella “transizione” fra la prima parte antropologica e la seconda che espone l’ordine morale. Grazie a lui, il pensiero personalista comincia a entrare nella redazione di Gaudium et Spes (P. D’Ornellas, La théologie morale dans le Concile Vatican II, Institut Catholique de Toulouse, Toulouse, Toulouse 1996, pp. 319-322). Infatti, l’opera di Dio, scrive Daniélou in Évangile et monde moderne, «non potrebbe realizzarsi senza la cooperazione della libertà. La persona umana deve conquistarsi e compiersi. […] Le esigenze morali non appaiono in nessun modo qui come delle costrizioni esteriori che impedirebbero alla persona di realizzarsi, ma descrivono le condizioni della sua realizzazione autentica, conforme alla sua vocazione. Esse sono la proiezione, a livello di comportamenti, della realtà stessa dell’esistenza personale. Certamente, esse possono non apparire sempre nella pienezza della loro giustificazione. Richiedono di essere assunte liberamente e non subite dall’esterno. Ma indicano le sole condizioni nelle quali la vita personale si realizza in modo autentico. Esse delimitano la sola via che abbia un senso. Al di fuori, esistono solo quelle terre impraticabili di cui parla il Salmo. La morale è così la legge interiore della vita personale» (J. Daniélou, Évangile et monde moderne. Petit traité de morale à l’usage des laïcs, Desclée & Co., Tournai 1964, pp. 24-25). D’Ornellas cita inoltre un foglio manoscritto di Daniélou pensato su questo argomento: «È liberamente che l’uomo deve rivolgersi verso il bene. La libertà è un aspetto eminente dell’immagine di Dio nell’uomo, ma questa libertà, inscritta nel cuore dell’uomo, deve anche essere fedelmente esercitata da lui».