Pubblichiamo, in tre parti, l’intervento di fra’ Gianluigi Pasquale presso l’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose Ignatianum di Messina su Karl Rahner, il teologo dell’historia salutis. Questa è la prima parte.
Karl Rahner: teologo dell’historia salutis
Scopo di questo intervento è la messa a fuoco di uno tra i contributi principali che Karl Rahner ha offerto all’intelligenza teologica del secolo XX e, quindi, anche a quella di questo XXI secolo: l’idea cristiana di «storia della salvezza». Il concetto rahneriano di «storia della salvezza» ha, infatti, un merito indiscusso: aver tentato di spiegare come il Dio, assolutamente altro, si comunichi nella storia, essendo questa tutt’altro che Dio. Già nello stesso anno in cui veniva indetto il Concilio Vaticano II (1961) Rahner firmava un famoso intervento apparso nel Kleines Theologisches Wörterbuchprogrammaticamente intitolato «storia della salvezza». Fin da quell’anno Rahner era persuaso che la teologia cattolica della storia, ovvero la riflessione sul senso del tempo e di quanto accade agli occhi di Dio, stesse ancora muovendo i suoi «primi passi»[1]. Di fatto il teologo gesuita non si sbagliava, se non altro perché il conio dell’espressione tecnica «historia salutis» avvenne ufficialmente soltanto quattro anni dopo, nel 1965, con la Costituzione dogmatica Dei Verbum (DV 2)[2].
Qualche mese dopo la chiusura del Concilio Karl Rahner, poi, tenne una conferenza a un congresso teologico internazionale all’Università di Notre Dame negli Stati Uniti (23 Marzo 1966), riguardante i compiti della teologia nel periodo postconciliare[3]. Egli era abbastanza fiducioso che il Vaticano II avrebbe fornito uno stimolo straordinario alla teologia cattolica, non per il fatto di aver aggiunto nuovi dogmi ― cosa che, a suo parere, il Concilio non fece ― bensì perché esso cambiò quell’atmosfera nella quale la teologia può servire all’intelligenza della fede[4]. Sempre in quella conferenza egli invitava a puntare lo sguardo su Cristo «nell’orizzonte di una storia della salvezza che comprende a priori tutta l’umanità e permette di vedere in Cristo il vertice di essa e della rivelazione per tutti gli uomini»[5]. In questo modo, però, pronunciandosi a favore di un’idea così ampia di «storia della salvezza», Rahner indicava alla teologia cattolica che proprio tale concetto poteva fare da collante per un discorso comune su Dio e sull’uomo in genere, tale da essere credibile.
Egli, in realtà, era fortemente convinto che, nell’areòpago delle religioni, scopo del cristianesimo fosse proprio quello di coordinare i complessi parziali di senso della storia dell’uomo ― l’amore, il bello, il vero individuale e sociale ― con la protologia e l’escatologia cristiane, ovvero con l’inizio e la fine della storia della salvezza, in cui Dio crea e porta a consumazione tutte le cose in Cristo[6]. Ciò nonostante, parlando sempre in merito alla teologia della storia in generale, circa vent’anni dopo (1982), Rahner ritornava a ribadire che «è impossibile proporre una completa teologia della storia come patrimonio cristiano comune, viste le molteplicità e la contraddittorietà che caratterizzano la storia della teologia nella cristianità»[7].
È giusto, allora, chiederci: quale idea teologica si era fatto Rahner della storia della salvezza? E, soprattutto, non era stato proprio lui a veicolarla in qualche modo nei documenti conciliari e, successivamente, nel sapere teologico, affermando categoricamente che «il cristianesimo è la religione del divenire, della storia, dell’autotrascendenza, del futuro»[8]? Ci corre l’obbligo, insomma, di chiederci dove stia effettivamente la peculiarità dell’intuizione rahneriana in merito alla «storia della salvezza» se è vero, come è vero, che fu di Rahner il tentativo di spingere fino ai limiti del possibile i presupposti filosofici e teologici nel pensare la storia come mediatrice verso l’essenziale della salvezza che viene da Dio. E questo perché il problema fondamentale di ogni teologia, sia protestante che cattolica e, quindi, di tutta la teologia, è proprio quello di mettere assieme la fede nel Dio eterno con la storia grigia e frammentaria in cui egli si rivela, l’«è» di Dio con i nostri «e» transeunti, l’essenza con l’economia. In questo intervento, dunque, osserveremo in tre passi successivi le migliori intuizioni del teologo gesuita per l’argomento che qui ci interessa. In ordine di importanza esse sono tre: l’obbligo ineluttabile che ha l’uomo di rivolgersi alla propria storia per ottenere la salvezza; l’intima relazione che esiste tra la rivelazione divina e la storia generale del mondo e della salvezza; il probabile impatto che le fatiche teologiche di Karl Rahner avranno, a questo proposito, per il secolo XXI.
Il «dovere» dell’uomo di rivolgersi alla storia
Chi desidera comprendere in modo interdisciplinare il pensiero di Rahner trova nel suo concetto di «storia» una via d’accesso indiscutibilmente efficace. E questo perché quando Rahner pensa alla storia (Geschichte), a quella dell’uomo ma anche a quella di Gesù Cristo, egli rimanda sempre alla «storicità» (Geschichtlichkeit) in generale. L’uomo, infatti, viene percepito da Rahner come quell’ente che si realizza solamente nella storia, mentre questa, a sua volta, attua la propria essenza soltanto attraverso l’uomo[9]. L’uomo, pur abitando nello spazio e nel tempo come tutti i suoi simili, e come tutti gli altri esseri animati, è, però, l’unico che vive nella storia in modo storico (geschichtlich), proprio perché una parte della storia corrisponde all’autointerpretazione che l’uomo di essa si dà[10]. Il percepirsi dell’uomo in questi primi anni del secolo XXI, per esempio, non è identico a quello degli anni Ottanta del secolo scorso perché qualcos’«altro» è accaduto nella storia, un qualcosa che Rahner chiama storicità. La storicità, dunque, è la caratteristica con la quale l’uomo deve «mettersi in pari»[11] con la sua essenza, dovendo trasformare mondo e tempo in esistente. Qui qualsiasi uomo, credente o meno, si accorge che la storicità ha bisogno di essere continuamente salvata, mediante un «senso» che illumini e fondi l’esistenza, senso verso il quale è protratta la ragione umana. E il senso è una parola (lógos), almeno la parola che l’uomo «si sente» di dare come giustificazione per quanto gli accade. Con ciò siamo giunti a un primo obiettivo fondamentale: la «spiritualità» dell’uomo, secondo Rahner, è quella per lui di dover essere necessariamente rivolto alla storia, in ascolto, per così dire, di una voce acuta, presente nella storia stessa, che porta i panni di una rivelazione[12].
Efficacia del metodo antropologico trascendentale
Da quest’angolo visuale l’uomo è davvero uno «spirito nel mondo» e un «ascoltatore della parola», come dicono appunto i titoli delle sue prime due opere Geist in Welt e Hörer des Wortes[13]. In esse si può, per così dire, individuare quel «primo Rahner» ― distinto ma non separato, come vedremo, dal «secondo Rahner» ― la cui teologia lega inscindibilmente la parola alla storia in cui essa viene ascoltata. Infatti, l’uomo è spirito nel mondo perché la libertà del suo essere uomo è quella dello Spirito, inteso nel senso teologico di un’originarietà proveniente dall’esterno, per via di esteriorità[14]. È, pure, uditore della parola perché la sua spiritualità gli impone di rivolgersi alla storia dove percepisce quel senso che egli «si sente» di dare come ragione di quanto gli accade, nel bene o nel male. Precisamente a questo livello Rahner inserisce il concetto di «trascendentalità» come il dover rivolgersi alla storia da parte dell’uomo, dal momento che in essa egli trova la forma trascendentale per antonomasia che è Gesù. È in questa forma storica che Dio si esibisce in quanto trascendente e costituisce l’uomo ascoltatore della parola, ossia lo costituisce essere storico[15]. In modo icastico si può anche dire: nella mondanità l’uomo rintraccia la divinità, appunto perché trascendentale.
Risulta in questo modo, però, che l’uomo di cui parla Rahner è un essere soggetto della trascendenza e poiché egli parla immancabilmente di questo tipo di uomo, un tratto originalissimo della teologia di Rahner è, appunto, l’inaugurazione del famoso metodo antropologico trascendentale. Pur riconoscendo le dirette dipendenze di tale metodo da alcune tracce provenienti dal razionalismo kantiano[16], l’antropologico trascendentale in Rahner non è affatto una filosofia, bensì propriamente la scelta di un metodo, che rivela piuttosto il suo discepolato presso Martin Heidegger (1889-1976), l’influenza subita da Joseph Maréchal (1878-1944) e le conseguenti, comprensibili difficoltà nel difendere la tesi di dottorato in filosofia con un intrepido neoscolastico qual era Martin Honecker (1888-1941)[17].
Per quel che ci riguarda, basta qui ricordare il ruolo che la connotazione «trascendentale» implica nel metodo rahneriano. In Rahner il trascendentale è quell’apriori, non acquisito ma dato con l’esistenza e, quindi trascendentale perché offerto in maniera irriflessa e a-tematica, che solo rende la realtà categoriale, permettendo la conoscenza, l’azione e l’esperienza in genere. Il metodo antropologico trascendentale trova, così, il suo complemento nella dottrina rahneriana dell’«esistenziale soprannaturale» e, successivamente, nel famoso conio dell’idea di «cristianesimo anonimo»[18]. Il metodo antropologico trascendentale, dunque, si presta, anche per queste caratteristiche, a un’analisi efficace del rapporto fra la storia del mondo, la storia profana e quella della salvezza che Dio concede all’uomo, con l’obiettivo di chiarirne implicazioni e distinzioni, calibrando l’agire di Dio e l’agire dell’uomo, il ruolo della salvezza e della grazia, valutati assieme all’impatto significativo della libera volontà dell’uomo.
Questo metodo, poi, ratifica adeguatamente la realtà che nella storia non è dato trovare la salvezza[19]. Esso mostra, piuttosto, che la salvezza è trascendente, proviene direttamente da Dio, e che è un obiettivo della fede, della speranza e della grazia. Risultano, dunque, erronee le dottrine intramondane sulla salvezza. Ciò nonostante, la dottrina cristiano-cattolica sulla storia, dopo Rahner, non può fare a meno di affermare che la storia della salvezza si realizza, in un certo modo, nella storia del mondo[20], come tenteremo di dimostrare.
La metafisica cristiana è esistenziale
La disamina finora compiuta, soprattutto sul primo Rahner, pone, dunque, in risalto un binomio fondamentale per comprendere non solo tutta la sua teologia, ma anche quella conciliare: il legame profondo tra parola e storia[21]. Se il modello neoscolastico aveva pressoché accantonato, nell’estrinsecismo di una theologia naturalis «sub ratione deitatis» il rapporto tra theologia e oikonomia[22], è proprio con Karl Rahner che la relazione tra essenza e storia, posta a fondamento di tale rapporto, si tramuta nel binomio di parola e storia, grazie alla svolta antropologica, ovvero grazie all’attenzione posta all’uomo, vivente nella storia che ascolta la parola.
Insomma, anche se M. Honecker non accettò la sua tesi Geist in Welt (1936), è proprio nelle ultime pagine del suo protolavoro dove Rahner arriva a comprendere che per conoscere se Dio parla, dobbiamo (prima) sapere che egli è, e che «la sua parola deve incontrarci in un’ora terrena»[23]. Per questo, secondo Rahner, la metafisica tomista della conoscenza «è cristiana se richiama l’uomo nel qui e nell’ora del suo mondo finito»[24]. Le domande in cui si articola, secondo Rahner, una simile quaestio de veritate potrebbero formularsi così: come si rapporta la verità alla storia? La trascende? E ― se la trascende ― non c’è il rischio che nel suo comunicarsi attraverso la rivelazione si riduca all’orizzonte del linguaggio in cui entra?
Il primo positivo colpo orientativo dato alla scienza teologica da Rahner ottiene, pertanto due effetti: in primo luogo, la teologia da riflessione sulle essenze passa a dare il primato alla rivelazione della parola «sub ratione Christi». Non ci sembra, pertanto, esagerato affermare che il nuovo interesse cristologico penetrato nella teologia del secolo XX provenga in buona misura dalla svolta antropologica rahneriana, la quale solamente mostra come il primo, vero ed unico perfetto ascoltatore della parola sia stato Gesù Cristo, parola fattasi carne[25]. A questo proposito non deve essere ritenuto un caso che la costituzione dogmatica sulla rivelazione inizi proprio così: Dei Verbum, facendolo coincidere con la vitam aeternam che è Gesù Cristo (DV 1). Il secondo effetto appare oltremodo significativo perché proprio in Dei Verbum vi è, come si è detto, il conio, per la teologia cattolica, del concetto di «historia salutis», conio adeguatamente inserito in un contesto cristologico. Ma anche in questo caso, basteranno alcuni accenni all’idea rahneriana di «storia della salvezza» per scorgere in essa i natali teologici del successivo pronunciamento conciliare.
La seconda parte dell’intervento di fra’ Gianluigi Pasquale su Karl Raher verrà pubblicata venerdì prossimo, 9 agosto.