La “Lettera dal Convento” di fra’ Gianluigi Pasquale di oggi, venerdì 14 aprile. Dopo la seconda virtù teologale, la speranza, presentata la scorsa settimana la terza e ultima virtù teologale che ci manca è la carità.
La carità è sempre oblativa: si dona
San Paolo è convinto che la più grande delle «virtù», cioè delle «forze» presenti nell’uomo, sia la carità (1Cor 13,13), che, anzi, supera quelle della fede e della speranza. La carità è paragonabile all’amore, nella sostanza e nei termini, ma non si tratta della stessa cosa. La prima, infatti, è quel dono sublime infuso da Dio stesso nell’uomo tanto da renderlo disposto ad amare Dio, il prossimo e se stesso. Infusa nell’uomo, la carità prende, poi, la forma dell’amore. La differenza tra i due è questa: la carità è sempre «oblativa», aperta a donarsi senza misura fino al sacrificio di sé, mentre l’amore può essere sia oblativo che egoistico, almeno come istinto di sopravvivenza.
Addestrarsi alla carità
Nessuno nasce già formato alla carità, benché l’uomo sia predisposto ad amare i suoi simili. Alla carità, infatti, si viene addestrati piano piano perché, dal momento in cui viene infusa come virtù nel battesimo, il cristiano impara a vivere in sé «gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù» (Fil 2,5): l’amore a Dio, al prossimo, il perdono e il dono di sé fino alla morte (Gv 15,13), se fosse necessario. In questo senso, se l’amore si nutre dell’energia che sgorga dall’uomo, la carità si nutre dello Spirito che esce da Dio. Ecco perché la carità è quella virtù necessaria per conoscere Dio in modo adeguato, cioè amandolo, e il prossimo in maniera anche eroica, cioè con un “amore” che supera se stesso.
È la relazione che “crea” le persone, non il contrario
Infatti, noi diciamo che «Dio è amore» (1Gv 4,8) con lo stesso significato con cui affermiamo «Dio è carità». La fonte della carità è, invero, dentro la Trinità, cioè dentro i rapporti che il Padre trattiene con il Figlio e questi con lo Spirito Santo. Quei rapporti sono di un amore che non conosce “sfinimenti”. Anzi: non sono le tre Persone che intrattengono i rapporti, bensì il contrario: sono le relazioni che “creano” le Persone. È come se ci fosse una corda che lega due amanti: non sono questi che tirano la corda, ma è la corda che forma i due amanti, intendendo così che viene prima la relazione rispetto alle due Persone “in gioco”. Ecco perché – se potessimo creare una gerarchia – vi è prima la carità e, poi, fiorisce l’amore.
Trasformarsi in un «tu» per qualcuno
Perché la virtù teologale della carità supera la speranza e la carità? La risposta si ottiene piuttosto facilmente guardando alla vita dei santi. Della loro tessitura esistenziale la gente trattiene sì l’intrinseca loro fede e speranza, ma soprattutto l’opera di carità che essi hanno innestato nel tempo, come, appunto, l’amore per i poveri di Santa Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), per i peccatori di San Pio da Pietrelcina (1887-1968), per i giovani di San Giovanni Bosco (1815-1888), eccetera. Detto in altre parole, la virtù teologale della carità traduce in opere e in un determinato periodo della storia della Chiesa le virtù della fede e della speranza con le quali un battezzato è riuscito a imitare al meglio il Signore Gesù. Anzi, la carità è la traduzione esatta con cui un discepolo attende la seconda venuta del suo Signore alla fine dei tempi. Per questo, come ebbe modo di affermare San Giovanni della Croce (1542-1591), alla sera della nostra vita «sarà l’amore a dire se l’esistenza che abbiamo vissuto sarà stata o no una vita piena e degna». Il segreto per ciascuno, infatti, sta nel trasformarsi da un «io» per se stessi in un «tu» per qualcuno, per il prossimo e anche per Dio.