Il primo dettaglio – per gli addetti ai lavori – è già stato intercettato da Reinhart Koselleck (1923-2006) quando si è accorto che la comunità di coloro che attendono il ritorno del Signore, nata per non durare e per presto svanire, si è, nel tempo, mutata in organizzazione dell’attesa, fino ad affezionarsi a se stessa[1]. In quanto organizzazione, nota Koselleck, essa non ha nessuna intenzione di cessare, anzi tende a durare illimitatamente. Su questa eventuale ipotesi, colui o colei che professa ogni domenica il «Credo» in Chiesa, non può certo glissare. La domanda, infatti, potrebbe suonare così: «opero a favore del Regno conscio della sua fine, oppure per organizzarlo con l’intento del mio permanere il più a lungo possibile nella comunità che lo confessa?». Al di là della provocazione di Koselleck, il fenomeno che vorrei per un attimo congelare nella sua diagnosi è ben più insidioso e non è, certo, semplicemente rubricabile come un’opera di maquillageteologico. La Chiesa, fin dalle sue origini, pulsava, infatti, escatologicamente: aveva sempre presente la propria fine, attendendo, quindi, di poter ricevere la salvezza direttamente da Dio come forma della «vita venturi saeculi»[2]. Poi, è successo che l’éschaton continuamente differito – ci troviamo per il momento ancora in questa fase, nulla è cambiato – l’ha persuasa a dover amministrare la salvezza attuando tutte quelle virtualità al fine di poter durare il più a lungo possibile e, quindi, trasmettere questa salvezza, fino a dichiarare che «Extra Ecclesiam nulla salus».
La techne
Come non bastasse, oggi essendo la téchne, la scienza riproducente se stessa, a darci la salvezza, talvolta con estrema certezza fino a prolungare all’inverosimile gli anni della nostra stessa vita, è stato tolto alla Chiesa proprio quell’ultimo brevetto di salvezza che le era rimasto[3]. Purtroppo con un esito quasi nefasto, esprimibile in quel modo: se non c’è più nulla da attendere, nessuna fine del mondo e meno che mai un mondo liberato definitivamente dal dolore e dalla morte, allora sorge spontanea la domanda se il cristianesimo sia ancora plausibile. Ne consegue che, indagando su questo registro piuttosto che su quello aperto da Dan Brown (*1964) o da Corrado Augias (*1935), diventa allora lecita la domanda se il cristianesimo abbia tradito Gesù, oppure no. Proprio perché si tratta di una domanda intra-ecclesiale. In realtà, nella storia il dilagare del male ha favorito spesso dinamiche catastrofiche, fino al punto da elaborare – visto che questo mondo non giungeva al tramonto – un dietro-mondo opposto a questo e contro questo. L’éschaton, continuamente differito, ha, insomma, indotto alcuni a dubitare perfino dell’esistenza di Dio, altri addirittura a non pensarci più. La civiltà occidentale ha conosciuto molte esperienze caratterizzate dalla delusione dell’éschaton[4]. Questa delusione, per un lato ha vanificato l’attesa, per l’altro ha posto le condizioni perché si formasse e si sviluppasse una sorta di éschaton profano, che noi qui abbiamo già designato quale spiritualizzazione dell’éschaton stesso, una profanazione, per così dire, di primo livello.
Questa diagnosi, agli ideologi fautori della cosiddetta “nuova secolarizzazione” può dire – ne siamo certi – ancora troppo poco. Essi, indipendentemente dall’approccio credente alla questione o meno, scorgono il futuro del cristianesimo nella radicalizzazione degli effetti dell’incarnazione. L’accento non andrebbe posto né sulla risurrezione, né sulla vita eterna, ma, innanzitutto, sull’«etiam pro nobis», la carità, la donazione, la carità come donazione. Essi sembrano parafrasare Aristotele, quando nella sua Etica Nicomachea lo Stagirita afferma che gli amici tra di loro non hanno bisogno di amicizia: sono, piuttosto, i giusti che hanno bisogno di amicizia[5]. E questo perché la sovrabbondanza del dono esclude la relazione proporzionata di giustizia. Insomma, basterebbe una “vita buona” per essere felici, come purtroppo incappano sovente ad affermare anche alcuni presuli nel nostro continente europeo. Ma, lo sappiamo bene, non è così. Per sbriciolare teoreticamente la questione, bisogna, infatti, mettere in campo il secondo elemento radicalmente nuovo dello scenario che stiamo tentano di pennellare: si tratta della temperie da tardo modernità (Spätmoderne), la quale ha generato una sorta di profanazione dell’éschaton cristiano, per noi da considerarsi di secondo livello[6].
La nuova difficoltà a conciliare particolarismo con universalismo
Questa temperie è quella istanziata dalla tensione globale tra il particolarismo, che si fissa solo sul tempo finito, e l’universalismo, che rimanda, invece, all’ipotesi di un’eternità, quindi dalla tensione esistente tra finito e infinito. A questo proposito, nel presente studio si utilizzerà più volte il termine “tardo modernità” (Spätmoderne) – nell’accezione di Anthony Giddens, Hans-Joachim Busch, Barbara Freyer Stowasser –[7] per evitare di disperdersi nella infinita querelleterminologica tra “post-modernità”, “seconda modernità”, “modernità riflessiva” o “età post-secolare”. In Italiano noi intenderemo “Spätmoderne” come “tardo modernità”. Al di là di questa “nuova oscurità” (“neue Unübersichtlichkeit”)[8]in cui si è terminologicamente incorsi, il termine Spätmoderne non dichiara che l’età moderna è terminata – come affermano i post-moderni[9] –, né la considera come “troppo poco” moderna, quasi dovesse ancora giungere alle sue “vere” conseguenze – questo sarebbe il giudizio del termine “seconda” o “modernità riflessiva” –, e nemmeno identifica “modernità” e “secolarismo”, come fa Habermas, quando parla dell’“età post-secolare”[10].
L’accezione di tardo modernità ritiene tutte queste indicazioni utili, ma unilaterali e si limita alla constatazione che stiamo parlando di una modernità “irritata”, “scossa”, se non addirittura “frastornata”; in questo senso l’11 Settembre 2001 portava solo alla luce quello che si può ritenere la grande questione irrisolta dalla modernità: la conciliazione delle varie particolarità individuali e culturali con l’idea dell’universalità storica globale. Mentre proprio a cavallo degli anni Cinquanta del secolo scorso gli intellettuali occidentali si dividevano in merito ai natali della modernità rispetto alla storia precedente[11], la post-modernità ci ha resi consapevoli del fatto che, accanto al discorso sull’universalità storica, è stata messa in ombra anche la corrispettiva trattazione delle particolarità storiche, in maniera, quasi, direttamente proporzionale. Ma, mentre la spinta anti-moderna della post-modernità dichiarò la “fine” delle grandi narrative, cioè delle concezioni razionali-universali, e tratta il discorso delle particolarità a scapito di ogni possibilità di raggiungere una razionalità universale, il discorso della tardo modernità si astiene da questa conseguenza affrettata e non confonde subito “critica” con “rigetto”. Mediante questa accezione della tardo modernità, si comprende facilmente che non vi è una capitolazione, come vorrebbe la post-modernità, dinnanzi a qualsiasi pretesa di un discorso razionale fatto su valori o ragioni “ultime” della storia; viene riconosciuto, piuttosto, il bisogno di una radicalizzazione critica di questo discorso stesso. Ma con quali conseguenze?
Esse dimorano nel processo di radicalizzazione il quale conduce, molto silenziosamente, a una scorta di profanazione dell’escatologia cristiana, dicevamo, di secondo livello, che il teologo esprime in questi termini: oggi noi abbiamo una percezione sempre meno lineare del tempo, dove il presente sarebbe tenuto insieme al passato e al futuro; si è ammainato l’orizzonte utopico, sono venute meno le ideologie rivoluzionarie. Peraltro, non è riemersa una concezione ciclica del tempo. Ci troviamo, piuttosto, in una sorta di acosmismo, sperimentiamo di continuo l’emergenza e siamo chiamati a governare la contingenza attraverso la dittatura delle scadenze, processo dal quale nemmeno la Chiesa riesce a svincolarsi: anche la Chiesa si è data una schedule e – da allora – la deve rispettare. Il mondo della tardo modernità è, infatti, poco interessato alla provenienza e alla destinazione, al passato e al futuro. La nostra temperie spirituale è un’apertura sull’indeterminato del tempo e della storia[12]. L’esperienza è quella di un continuo transitare. Proprio per questo la cosa per noi importante è diventato il saper dimorare sulla terra, governando le scadenze, blindandoci in quell’organizzazione dell’attesa – assicurata dalla Chiesa – nata solo, sembra, per perdurare nel presente, appunto in un’escatologia che la teologia della tardo modernità rubrica come profanata o, al massimo, di un’éschaton spirituale, che non è affatto un calembour, e che ha poco a che fare con l’annuncio neotestamentario di «cieli nuovi e terra nuova» (2Pt 3,13). Perché, in fondo, questa «valle di lacrime» ci sta anche bene, nonostante e, paradossalmente, dopo quell’11 Settembre di oramai dieci anni or sono. La nostra prima questione sembra, dunque, aver ottenuto una sua risposta: oggi ci si interessa così tanto sulla veridicità della storia di Gesù perché l’evaporazione, ossia la cosiddetta spiritualizzazione dell’éschaton cristiano ha portato a un interesse “neo romantico” nei confronti di Gesù tutt’altro che di genuino tenore storico. In breve: non credendo più nel futuro, si indaga sul passato istituendo quest’ultimo in modo del tutto artificioso perché in esso si è insinuato il nostro modo di pensare e vivere il presente come unico tempo di tutti i tempi.
[1] Cf R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 13-14.
[2] Cf. C. Caltagirone, Essere Chiesa Oggi. Itinerari di coscienza ecclesiale, Editrice Sion, Ragusa 2008, pp. 148-151.
[3] Cf U. Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 192-193.
[4] Cf Z. Stankevičs, Dove va l’Occidente? La profezia di Bernhard Welte, Città Nuova, Roma 2009, pp. 194-199; G. Pasquale, Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 140-142.
[5] «E se gli uomini sono amici non c’è nessun bisogno della giustizia, ma, se sono giusti, hanno inoltre bisogno dell’amicizia: e l’attitudine che tra tutte è la più giusta è, ad avviso unanime, un’attitudine amicale»: Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1 (1155a 22-31), II, a cura di M. Zanatta con testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1986, pp. 702-704.
[6] Cf S. Natoli, Il crollo del mondo. Apocalisse ed escatologia, Morcelliana. Brescia 2009, pp. 52-55; Id., La mia filosofia. Forme del mondo e saggezza del vivere, Edizioni ETS, Pisa 2007, pp. 108-109.
[7] Cf A. Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 188-201; H.J. Busch,Spätmoderne Gesellschaft und Depression, in S. Hau – J. Busch – H. Deserno, ed., Depression – zwischen Lebensgefühl und Krankheit, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2003, pp. 195-213; Y. Yazbeck – B. Freyer Stowasser, Islamic Law and the Challenges of Modernity, Rowman & Littlefield, London 2004, pp. 34-52.
[8] Cf J. Habermas, Neue Unübersichtlichkeit. Kleine Politische Schriften, V, Edition Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985, pp. 125-141.
[9] Cf R. Koselleck, Futuro e passato. Per una semantica dei tempi storici, Clueb, Bologna 2007, pp. 267-270 .
[10] Come avevo fatto notare in G. Pasquale, Il rientro della postmodernità. Virtualità cristiane della secolarizzazione nel mondo postsecolare, «Ricerche Teologiche» 16 (2005) pp. 239-257, al quale mi permetto di rimandare.
[11] Classica è la contrapposizione, per esempio, tra Karl Löwith (1897-1973) e Hans Blumenberg (1920-1996): Cf H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, pp. 70-84], un cui significativo stralcio in lingua italiana, per la traduzione di Renato Cristin, si trova in Id., Il progresso svelato come fatalità, «Aut-Aut. Nuova Serie» n. 222 (1987) pp. 51-59, e la successiva risposta in K. Löwith, Recensione del libro di Hans Blumenberg, ibid., pp. 60-66. Blumenberg non ammette che Löwith assuma la categoria di “secolarizzazione” per discriminare tra tradizione cristiana ed evo moderno. Di contrappunto, Löwith non accetta che Blumenberg legga, nella sua tesi sulla secolarizzazione, un’ipotetica «identità di sostanza» tra la visione ebraico-cristiana della storia e quella della filosofia della storia dell’attualità, sulla quale agirebbe come processo la secolarizzazione (cf H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, pp. 18-20), perché in questo modo Blumenberg a priori addossa «al suo avversario un onere di prova che egli stesso ritiene insostenibile» (K. Löwith, Recensione, p. 62); infatti, è ovvio che non si potrà mai concepire la continuità storica come identità di sostanza, la quale non viene sfiorata da alcun mutamento storico. Icastico, infine, appare l’affondo di F. Büttgen, Eschatologie, fin de l’histoire, ontologie de l’actualité. Sur quelques déplacements historiques et religieux chez Luther et Fichte, in J. Benoist – F. Merlini, ed., Après la fin de l’histoire. Temps, monde, historicité, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1998, pp. 61-90, qui p. 64: «la thèse de Löwith ne peut qu’apparaître abusivement généralisatrice, voire anachronique dans sa manière de rapprocher les philosophies de l’histoire d’une théologie biblique qu’elles ne pouvaient pas connaître dans les termes où Löwith la décrit».
[12] Cf G. Pasquale, Tempo ed eternità. Ciò che può sillabare la filosofia, «Credere Oggi» 29 (2009) n. 5, pp. 55-73.