Non bastasse questo primo guadagno, dobbiamo riconsiderare anche che Gesù, suo malgrado, porta, comunque, i “chiodi della storia” per un duplice motivo: perché i suoi polsi furono conficcati al legno della croce mediante la perforazione con dei chiodi; perché, in secondo luogo, la sua figura storica rimane “inchiodata” alla storia in quel «sub Pontio Pilato». Riprendendo la prima argomentazione, delle due ipotesi l’una: se non accetto Gesù devo rifiutare anchePonzio Pilato – ma allora chi ha oggi solo trentun anni può coerentemente rifiutarsi di credere che sia esistito anche Giovanni Paolo I (1978-1978) in quanto Albino Luciani (1912-1978); oppure se accetto che Ponzio Pilato sia esistito in quanto cittadino romano non posso nascondermi dinnanzi al nazireo Gesù figlio di Maria. Oggi più che mai la sottolineatura dei “chiodi della croce” ha una valenza teologica intrinseca. A ben pensarci la fonte da cui originariamente promana la fede “cristiana” è la croce. Gesù non s’era direttamente proclamato Cristo, vale a dire “Messia” (“Cristo”): chi, invece, l’ha fatto è stato Ponzio Pilato, il quale, dal canto suo, accedette all’accusa mossagli dai Giudei, capitolando di fronte alla quale finì, col suo cartello di condanna redatto in tutte le lingue del mondo di allora, per proclamare Gesù, pendente dalla croce in veste di giustiziato, Re (Messia, Cristo) dei Giudei[1]. Ora questo titolo di sentenza capitale, la condanna a morte della storia, finì paradossalmente per assurgere al contempo a “professione di fede”, ad autentica e radicale scaturigine della fede cristiana, che vede in Gesù il Cristo. Proprio in veste di crocifisso, questo Gesù si erge a Cristo, a re[2]. Io sono convinto che se ci sarà una asse che non cesserà mai di ergersi nella storia, questa sarà proprio la croce: non è stata la Chiesa ad appendere al muro della storia, inchiodandolo, il crocifisso, ma il potere politico per antonomasia, quello laicissimo di Roma. Quegli Stati, allora che lasciano i crocifissi sui muri – sia detto per inciso – sono perfettamente coerenti alla loro scelta di laicità. Paradossalmente, quelli che li vorrebbero togliere o li hanno tolti o non li hanno mai messi, istanziano, loro malgrado, la questione di «chi era Costui?»[3].
L’asse della croce
Ma al di là di questo “dettaglio”, quando la teologia afferma che l’asse della croce rimarrà sempre verticale alla storia, intende dire due cose: che il cristianesimo storico sarà molto difficilmente derubricato dalla storia, ma anche che da questa – che costituisce, per così dire, il segmento orizzontale – non si lascerà mai del tutto interpretare perché la spezzerà sempre in due. Ha ragione san Paolo, allora ad affermare: «se anche [un tempo] abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16b). Il secondo guadagno, insomma, è esattamente questo: incorre in un abbaglio fatale chi affronta la storia di Gesù di Nazareth alla stregua di una qualsiasi altra biografia: da un lato, misconosce la “confessione” plurilingue del romano Ponzio Pilato; dall’altro dimentica che lo studio dei documenti attestanti la biografia del Nazareno non si allinea alla metodologia qualificante, sembra, la presenza di altri personaggi della storia: Gesù conferisce al tempo l’«è» che lo sostiene; tutti gli altri e le altre vivono negli interstizi degli «e» congiuntivi che passano e che passeranno. Cosa che Ponzio Pilato aveva capito assai bene e in maniera altamente perspicua.
La Chiesa mantiene viva la confessione di fede e unisce presente, passato e futuro
Dobbiamo ora compiere un ultimo e definitivo passo. Quello più esplicitamente inerente la fede ecclesiale che Gesù è il Cristo[4]. Abbiamo sopra anticipato che lo stigma ecclesiale, per converso e paradossalmente, è stato, tra l’altro, tenuto in piedi dallo stesso Dan Brown, là dove egli, per esempio, parla della sétta degli “Illuminati” che dovrebbero combattere il primato della Chiesa sulla terra. Ora, poco prima avevamo dimostrato che il “neo romanticismo cristiano” appiattisce sull’attualità passato, presente e futuro. Per superarlo, ovvero per rispondere alla questione se il cristianesimo abbia, oppure no, tradito Gesù, credo sia vantaggioso, osservare – quasi fossimo degli spettatori esterni – quali meccanismi attui la comunità ecclesiale confessando “che” (“daβ”) Gesù è il Cristo sul versante del passato, del presente e del futuro. In merito al passato, nella formula della professione di fede in Gesù, il fatto per noi più sorprendente è che, come nel linguaggio preferito dall’apostolo Paolo, il termine “Cristo”, il quale originariamente non costituiva un nome, bensì un titolo (“Messia”), nel testo originale viene premesso al nome (“Cristo Gesù”)[5]. Ora, si può agevolmente dimostrare che alla comunità cristiana di Roma, cui si deve la formulazione della nostra professione di fede, il termine Cristo era già ben noto in tutta la sua portata contenutistica[6]. La sua trasformazione in un puro e semplice nome proprio, così come lo intendiamo noi oggi, si è verificata già sin nei primissimi tempi; tuttavia qui l’appellativo “Cristo” viene ancora introdotto come designazione di ciò che in realtà è questo Gesù. La sua fusione col nome di Gesù è d’altronde già molto avanzata; ci troviamo oramai quasi all’ultima tappa nell’evoluzione significativa del termine Cristo[7]. Un esempio perspicuo di quanto intendo dire, per analogia, può essere il seguente: nel nostro frasario attuale quando si parla del “Presidente Barak Obama” qui il titolo di “Presidente” è divenuto quasi parte integrante del nome, per cui chiunque usasse la sola parola Presidente degli USA intende propriamente il cinquantenne Barak Obama (*1961).
La cristologia
In merito al presente, deve essere ribadito che architettare una cristologia – un parlare di Gesù Cristo – prescindendo da lui così come ci è stato trasmesso dalla fede ecclesiale significa imboccare un vicolo cieco. A noi spetta semplicemente, piuttosto, cercare di capire che cosa in sostanza ci dica la fede dei nostri predecessori: quella fede che non è ricostruzione, ma attualità sempre presente, che non è teoria, bensì realtà viva ed esistenziale. Forse dovremmo, nonostante tutto, fidarci un po’ di più dell’attualità della fede che resiste ai secoli, facendo assegnamento su di essa, che per sua medesima natura non ha mai voluto avere altra aspirazione fuorché quella di comprendere. Cioè di capire chi e che cosa sia veramente stato questo Gesù[8]. Forse dovremmo contare molto più sulla fede che sulla ricostruzione, la quale va cercando a tentoni la sua strada astraendo dalla realtà; e, come minimo, dobbiamo cercare una buona volta di conoscere a fondo che cosa ci dice questa fede che i nostri genitori ci hanno trasmesso. In merito al futuro, credo che la risposta finale stia nel prendere sul serio la risurrezione di Gesù Cristo come realizzazione anticipata della rivelazione escatologica di Dio stesso[9]. Chi crede, infatti, si attende ancora il futuro da Dio, ossia vive nel giorno penultimo, il sabato mattina, in attesa del giorno finale: la domenica, che è, poi, il primo giorno della settimana. Chi non crede, invece, fa i conti – come abbiamo visto – solo con questo presente, cerca di abitarlo al meglio, di fruirne, di anticiparne le possibilità, in modo che l’improbabile non lo metta, costantemente, in crisi. Però, come diceva Nietzsche di Orazio: «non carpe diem, ma appena, il giorno dopo»[10]. Quindi, anche per chi non crede sembra necessario un minimo di futuro, altrimenti non è possibile condurre l’esistenza. Il confronto con la contingenza sta certamente producendo un nuovo tipo di razionalità, che, però, non esclude la possibilità del credere, ma ne modifica le condizioni, le spiritualizza appunto, stigma intravisto nello scossone che dà ossigeno alla tardo modernità. Ora, qui può anche succedere di doversi imbattere con la stultitia che i morti risorgano perché Gesù Cristo «è» risorto dai morti. Infatti, cosa è più dimostrabile? Il fatto che il giorno dopo (mi) permetta di non entrare più nella crisi dell’improbabile, oppure che questo “giorno dopo” sia eterno, grazie a un “oltre giorno” della risurrezione dei morti fondata sulla risurrezione di Gesù Cristo?[11]. Il cristianesimo non ha, dunque, tradito Gesù. Anzi, noi non possiamo dimenticarci che vi è un nostro essere figli nel Figlio Gesù che tutti possono vedere e per cui credere. Lo aveva osservato lo stesso Karl Rahner in una famosa conferenza dettata pochi mesi prima di morire quando ammise che: Il risultato e il senso definitivo della storia salvata presso Dio non sono identici a quelli messi in luce dai grandi eroi della storia e della cultura. Secondo la fede cristiana, che su questo punto è antielitaria in maniera radicale, i benedetti del Padre, che possederanno il regno, sono i poveri e i piccoli, la «massa» grigia che gli storiografi hanno trovato interessante quasi solo come humus su cui hanno visto crescere le grandi azioni, le uniche per loro degne di essere prese in considerazione dalla storiografia. […] Pure questo problema non trova però in fondo la sua soluzione in una giusta gerarchia nella definitività del risultato della storia, bensì in quell’amore atemporale, in cui il risultato disinteressatamente amato della storia complessiva di tutti appartiene a ognuno[1]. In questo modo, Rahner rimaneva convinto che il modo cristiano di accostarci al Gesù della storia fosse ancora una volta oggetto di fede – esattamente come fanno i piccoli e gli umili di cuore – verificabile forse verso la fine della microstoria personale di ciascuno, se non addirittura rimandabile all’imperscrutabilità dell’eternità di Dio. E, infatti, sempre nello stesso scritto, apparso nel 1983, così concludeva: «pure all’interno del mondo le aurore vengono sempre pagate con tramonti»[2].
[1] K. Rahner, Storia profana e storia della salvezza, in Id., Scienza e fede cristiana. Nuovi saggi, IX, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 11-28, qui pp. 27-28.
[2] K. Rahner, Storia profana e storia della salvezza, p. 20.
[1] Cf M.-L. Rigato, I.N.R.I. Il titolo della Croce, pp. 34-35.
[2] Cf P. Gamberini, Questo Gesu (At 2,32): pensare la singolarità di Gesù Cristo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2005, pp. 124-127.
[3] Cf J. Moltmann, Il Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia contemporanea, Queriniana, Brescia 1975, pp. 350-353.
[4] Cf R Fisichella, Ecclesialità dell’atto di fede, in Id., ed., Noi crediamo. Per una teologia dell’atto di fede, Edizioni Dehoniane, Roma 1993, pp. 59-97, qui pp. 91-92.
[5] Cf W. Kasper, Gesù il Cristo, Queriniana-Club della Famiglia, Milano 19896, pp. 129-131; Id., Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 19976, pp. 255-256.
[6] Cf H. Vorgrimler, Gesù Cristo, in Id., Nuovo Dizionario Teologico, Edizioni Dehoniane, Bologna 2004, pp. 304-311.
[7] Cf J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, pp. 157-158.
[8] Cf J. Ratzinger, Offenbarungsveständnis und Geschitstheologie Bonaventuras, pp. 651-657.
[9] Significativo, a questo proposito, è lo studio di T. Goffi, Gesù di Nazareth nella sua esperienza spirituale, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 159-161.
[10] F.W. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, a cura di Ferruccio Masini, Newton Compton Editori, Roma 1977, p. 77.
[11] Cf F.G. Brambilla, Il crocifisso risorto. Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli, Queriniana, Brescia 1998, pp. 279-283.