Il rischio storico appartiene sia alla fede, sia all’agire cristiano nel mondo. Il cristiano ha sempre a che fare con ciò che è nuovo; egli deve, pertanto, affidarsi a ciò che ancora non è stato provato, a ciò che non è prevedibile e non aggrapparsi – quasi con un atteggiamento conservatore o addirittura restauratore – a ciò che esiste e ogni volta è già passato; qui si intende dire che egli deve essere aperto alla parola di Dio, che crea storia e interviene di continuo in essa, scegliendo, rifiutando, spiegando, rivoluzionando. Contro ogni immobilismo, indice di poca fede, il cristiano deve essere segno di speranza in questo mondo angosciato in cerca di sicurezze. Se è vero che Dio è il più giovane di tutti noi, allora il cristiano deve rimanere sempre giovane sapendo riconoscere i «segni dei tempi» e conformandosi a essi nella fede.
Storia e storicità
A questo proposito, storia e storicità rappresentano una categoria fondamentale per la fede e la morale cristiana perché è il cristianesimo che ha portato all’umanità la categoria della storia. E il pensiero storico moderno può essere per la fede e la morale una possibilità nuova, da valutarsi in modo positivo. Si potrebbe anche aggiungere che non la natura, non la profondità dell’anima, ma la storia è la dimensione in cui noi, come cristiani, incontriamo Dio. Ma qui si tratta di precisare esattamente quale categoria di «storia» interessa al cristianesimo. La predicazione e l’agire cristiano, infatti, non devono – non possono – insegnare il Dio dei filosofi, un essere superiore e supremo, ma devono testimoniare il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (cf Blaise Pascal). L’annuncio cristiano non dovrebbe, pertanto, rappresentare un sistema di verità astratte o una concezione precettistica di asservimento, bensì proclamare le grandi azioni storiche di Dio e attualizzarle con la parola e i sacramenti. Esso rimane legato all’«in illo tempore». Non deve conoscere nient’altro che Gesù Cristo e questi come persona concreta, storica, come il crocifisso (1Cor 2,2). Se non si prende seriamente in considerazione questo Gesù storico, si va a finire, come oggi la teologia ha di nuovo riconosciuto, nel docetismo, e si fa dell’incarnazione un’apparenza e di Gesù un mito astorico. Il riferimento corretto alla storia è, dunque, non soltanto una parte costitutiva della fede cristiana, ma pure della comprensione cristiana della stessa legge morale naturale. Non si può sfuggire alla problematica che ci viene posta oggi dalla storia, ritirandosi in un presunto spazio interno alla fede o respingendo come irrilevante per la fede la questione storica.
L’esempio di Gesù
Infatti potremmo anche chiederci: se la fede diventasse senza storia, la storia non diverrebbe senza fede? Cosa rimarrebbe ancora della missione universale della Chiesa, della forza del cristianesimo che cambia il mondo e perciò fa la storia? Oggi abbiamo proprio tutti i motivi per sottolineare il carattere storico del cristianesimo e per affermare che, con Cristo, Dio è entrato realmente in questa nostra storia concreta – proprio in quella feriale –, l’ha accettata, amata e redenta. Secondo l’esempio offerto da Gesù, la storia è il dialogo tra Dio e l’umanità, che si realizza in determinati spazi di tempo. Il singolo si trova in essi, vi è inserito e in quelli può incontrare il Dio che si rivela in Cristo. Ecco perché per il cristiano la storia sta sotto la norma e sotto il metro di Cristo. Qui si intende esattamente dire che con Cristo la storia è entrata nella sua fase ultima e decisiva. Così la norma, in quanto tale, non dovrebbe mai presentarsi in forma autonoma ed autarchica. Se perciò le utopie intramondane sono espressione dell’uomo che dà sicurezza a se stesso, esse sono condannate, a partire dal Vangelo; condannate perché consegnano l’uomo sempre più a un agire e a un operare che ruota attorno a se stesso, a un immutabile cerchio diabolico
La legge morale naturale
Insomma, ciò che Cristo consegna agli uomini è una riscoperta del significato forse più profondo e vero della legge morale naturale; in effetti egli ricorda che il dono della legge naturale è per l’uomo il mezzo mediante il quale egli è chiamato a essere nella storia il «custode della trascendenza» (Karl Ranher). E questo ha come conseguenza un agire morale fondato non su un deduzionismo freddo e asettico, ma su una continua ricerca di un modo di essere che ha per orizzonte il desiderio dell’incontro di Dio. La «norma» che Gesù Cristo affida agli uomini è il superamento di un agire fondato sul semplice dovere imposto esternamente da una legge; piuttosto essa è la gioiosa e riconoscente risposta alla domanda di senso che Dio ha deposto nel cuore di ogni uomo. Si tratta qui di una morale che non risponde al «che cosa hai fatto?», ma al «dove sei?» che Dio rivolge prima ad Adamo e poi a Caino chiedendogli: «Dov’è tuo fratello Abele?», interrogativo che, infatti, racchiude l’orizzonte di senso che Gesù ha proclamato con il suo «comandamento nuovo». L’individualità storica di Gesù Cristo, insomma, è la stessa norma che si (pro)pone a qualsiasi uomo perché sia riconsegnato pienamente e totalmente alla sua dignità e libertà. Pertanto, Gesù Cristo è norma storica alla legge morale naturale proprio perché illumina quest’ultima quale autentico percorso di una possibile e dignitosa libertà dispiegata all’essere umano. L’uomo, in Cristo, riaccende quella peculiare capacità di intelligenza e di raziocinio come doni di Dio, abilitandosi, così, a non rimanere chiuso nel passato di debolezza e fragilità – che rischiano perfino di obnubilare la recta ratiointerpretante la legge naturale –, bensì aperto a un futuro di grazia, spinto in un cammino di libertà nel quale Cristo precede sempre l’uomo, chiamandolo a essere suo imitatore: il che significa generoso costruttore di opportunità per sé e per il prossimo nell’oggi di una storia, che rende simultanei nel tempo i trentatré anni della microstoria di Gesù di Nazaret, ove i «suoi» scorgono l’essere e l’agire di Dio che è sempre amore.