Nell’incontro avvenuto tra l’annuncio della fede in Gesù Cristo e l’Occidente, è indubitabile l’affermazione che il cristianesimo ne abbia alterato l’anima pagana. Per molti questo fenomeno fissa sul calendario del pensiero i natali di ciò che si intende con il lemma «storia»[1], perché soltanto con la fede il tempo che passa viene iscritto in un disegno dove alla fine (éschaton) appare in tutta la sua luce il fine(télos) a cui tende tutto ciò che nel tempo accade.
Per altri, invece, l’impatto totalizzante che il cristianesimo ebbe con l’Occidente segnò simultaneamente la nascita di un sogno: quello di un mondo senza dolore, ove non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai[2]. Per questa seconda prospettiva, tuttavia, il cristianesimo non è passato invano perché il tempo dell’Occidente è ancora storia in quanto tempo fornito di senso. Ciò sarebbe dovuto al fatto che la religione cristiana, immettendo nel tempo la figura di salvezza, ha prodotto una radicale trasformazione antropologica. Non vi sarebbe più, infatti, l’uomo che vede nel dolore e nella morte null’altro che una legge di natura da cui è assurdo pretendere di salvarsi, ma l’uomo che, essendo per secoli cresciuto ed educato nell’idea di salvezza, dopo il crollo della fede in Dio, tenta in prima persona l’impresa della liberazione dal dolore e dalla morte.
l’incontro tra cristianesimo e Occidente
Ora, di fronte a queste interessanti provocazioni, ciò che in questo intervento si intende precisamente evidenziare è proprio il fatto per il quale l’incontro tra cristianesimo e Occidente ha generato un fenomeno completamente nuovo, la cui traccia, ancora oggi chiaramente osservabile, si può declinare nel modo che segue. In un primo momento si osserverà come l’annuncio del messaggio cristiano nell’occasus mundi abbia effettivamente alterato l’anima pagana inserendo la figura e il concetto di storia e, più particolarmente, di «storia della salvezza».
La storia, infatti, nasce solo quando sul tempo si irradia la figura del «senso», ossia quando gli eventi vengono sottratti alla casualità del loro accadere e iscritti in un disegno che li rende significanti al di là della loro pura eventualità. A ragione, pertanto, osserva opportunamente il filosofo Umberto Galimberti che per questo è possibile dire che si dà storia solo in un contesto religioso e non mitico, solo dove un’attesa promette l’adempimento di quanto è stato annunciato, e non il semplice ritorno di ciò che il ciclo non cessa di ribadire come legge immutabile dell’ordine delle cose[3].
In un secondo momento si tenterà, poi, di capire perché, proprio l’Occidente, che accolse il messaggio cristiano, originò successivamente quel radicale pluralismo ideologico di indole moderna e postmoderna che è lo storicismo del secolo XIX, soprattutto quello di matrice europea. Questo storicismo fissa soltanto nell’identità di ciò che è storico e intramondano la realtà unica di quanto esiste realmente e razionalmente, perché solamente ciò che è reale viene classificato anche come razionale[4]. L’abbaglio paradossale insito nella fede dello storicismo illude ancora, come un miraggio, il linguaggio e il pensare contemporanei dal momento che lo storicismo crede che la realtà con-sista in divenire e progresso. Esisterebbe solo, in questo caso, il domani e a quello, di solito, si pensa.
Infine, in un terzo momento, verrà in questo intervento illustrata l’ipotesi per cui proprio il secolo XX passerà alla storia come il secolo della teologia della storia[5], ossia come quel frangente durante il quale, per svariate motivazioni eziologiche ascrivibili al Concilio Vaticano II (1962-1965), il concetto teologico di storia è stato ripristinato nel suo effettuale significato biblico, allorché il cristianesimo incontrò l’Occidente, che è appunto il significato di storia della salvezza.
Storia come ciò che accade sensatamente
Dal punto di vista della storia dello spirito, la categoria di storia (Historie) fu visualizzata, in un primo momento, nell’ambito della fede biblica, mentre la nascita della nozione cristiana di ciò che oggi viene inteso con il termine «storia» (Geschichte) viene comunemente attribuita a Ireneo vescovo di Lione (130-200 ca.). Con il termine in questione, Ireneo definiva quella realtà, a un tempo continua e discontinua, dove tra passato e futuro vi è una differenza qualitativa, ma anche un insieme di corrispondenze e di prefigurazioni[6]. Da quest’angolo visuale, egli si inseriva propriamente nella tradizione patristica che denominava «storia» tutto ciò che accade nel tempo con un senso, ossia con un valore e una direzione derivanti dall’intenzione divinizzatrice del Dio eterno.
Più tardi, però, la prima grossa difficoltà che la riflessione cristiana dovette affrontare, fu quella di collocare la contingenza dei fatti storici in un sistema razionale che si potesse definire un’oeconomia salutis, trasposizione che, per la teologia medievale, costituiva un grosso ostacolo nella misura in cui si trattava di trasformare una storia santa in una scienza organizzata. L’impossibilità per la classificazione aristotelica — così influente il concetto medievale di «scienza» — di includere la disciplina storica nell’orbita delle scienze, fu, infatti, superata dalla risoluzione dell’economia nella teologia, quindi mediante la concezione cristiana di storia che implicava l’assunzione dei fatti contingenti nella formalizzazione operata dalla teologia.
[1] Cf K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano 1989, 37-40; U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000, 495-496;
[2] Cf S. Natoli, Neopaganesimo, in I nuovi pagani, Il Saggiatore, Milano 1991, 38-39.
[3] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, 493.
[4] «Il vero è l’intero, ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo» («Das Wahre ist das Ganze. Das Ganze aber ist nur das durch seine Entwicklung sich vollendende Wesen» G.W.-F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, I, La Nuova Italia, Firenze 1936, 17. Senza il rischio di essere troppo imprecisi, ci si riferisce qui alla svolta hegeliana nella storia (infatti vi è pure una historische Wende!), per la quale il destino della verità consiste nell’impulso dato all’idea che la verità non ha alcun rapporto con il tutto fatto, bensì soltanto con ciò che si fa (cf ibid., 7) perché, se la «natura del vero è quella di farsi largo quando è arrivato il suo tempo, e […] solo allora appare, quando il tempo e venuto» (ibid., 62), risulta che «il vero è il divenire di sé» (ibid., 16).
[5] Cf G. Pasquale, La teologia della storia della salvezza nel secolo XX, Nuovi Saggi Teologici. Series Maior 3, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, 515-517.
[6] Cf J. Daniélou, «Christianisme et histoire», Études 80 (1947) n. 3, 167-170, qui 170.