La tutela della libertà di tutti i diritti umani è diventato oggi un problema drammatico e attualissimo forse perché si è dimenticato che, in ultima analisi, non è solo di ordine politico, ma anche teologico. Infatti, non soltanto la libertà di religione, ma tutti i diritti umani vanno riconosciuti anche a chi li nega. Senza questo presupposto non c’è vera democrazia, ma d’altra parte ogni democrazia, per essere tale, deve rispettare la verità oggettiva secondo la quale questi diritti, proclamati solennemente nel 1948, rivestono un carattere universale non disponibile e come tali sono irrinunciabili e inderogabili.
Trattando dei diritti umani, oggi è necessario riflettere, in un primo momento di carattere metodologico, sul proposito con cui volgere lo sguardo a questo tema che può essere considerato il nodo etico-teoretico della tensione globale tra «pluralismo» e «universalismo». A questo proposito in questo studio si utilizzerà più volte il termine «Spätmoderne» (nell’accezione di Giddens, Busch, Freyer) per evitare di disperdersi nella infinita querelle terminologica tra «post-modernità», «seconda modernità», «modernità riflessiva» o «età post-secolare». In Italiano noi intenderemo «Spätmoderne» come «tardomodernità». Al di là di questa «nuova oscurità» (Neue Unübersichtlichkeit)[1] in cui si è terminologicamente incorsi, il termine Spätmoderne non dichiara che l’età moderna è terminata – come affermano i post-moderni –, né la considera come «troppo poco» moderna, quasi dovesse ancora giungere alle sue «vere» conseguenze – questo sarebbe il giudizio del termine «seconda» o «modernità riflessiva» –, e nemmeno identifica «modernità» e «secolarismo», come fa Habermas, quando parla dell’«età post-secolare»[2].
Modernità irritata
L’accezione di Spätmoderne ritiene tutte queste indicazioni utili, ma unilaterali e si limita alla constatazione che stiamo parlando di una modernità «irritata», «scossa»: in questo senso l’11 Settembre 2001 portava solo alla luce quello che si può ritenere la grande questione irrisolta dalla modernità: la conciliazione delle varie particolarità individuali e culturali con l’idea dell’universalità globale. Mentre nei decenni dopo la Dichiarazione dei diritti universali da parte dell’ONU nel 1948 gli intellettuali occidentali ritenevano il discorso «universale-giuridico» sui diritti umani come l’istanza decisiva per l’instaurazione di un ordine cosmopolitico e per la risoluzione dei conflitti internazionali derivanti dalla cosiddetta «globalizzazione», la post-modernità ci rende consapevoli del fatto che, accanto al discorso sull’universalità, venne messa in ombra la corrispettiva trattazione delle particolarità, in maniera, quasi, direttamente proporzionale. Ma, mentre la spinta anti-moderna della post-modernità dichiarò la «fine» delle grandi narrative, cioè delle concezioni razionali-universali, e tratta il discorso delle particolarità a scapito di ogni possibilità di raggiungere una razionalità universale, il discorso della Spätmoderne si astiene da questa conseguenza affrettata e non confonde subito «critica» con «rigetto». Con questa accezione della Spätmoderne, questo studio non condivide la capitolazione della post-modernità dinanzi a qualsiasi pretesa di un discorso razionale fatto su valori o ragioni «ultime»; viene riconosciuto, piuttosto, il bisogno di una radicalizzazione critica di questo discorso stesso. Così, proprio l’etica sociale può rispondere alla sfida del relativismo etico con una nuova strategia, facendo leva sul suo compito di «giustificare» le istituzioni e le strutture sociali nei confronti della persona singularis. Visto che con la critica post-moderna il discorso sui diritti umani può essere considerato nuovamente aperto proprio per quanto riguarda il rinvenimento dei suoi concetti base, l’etica sociale sente il bisogno di sviluppare la propria posizione su un duplice versante: in un primo momento, tenendo presente la sfida che deriva dal dialogo internazionale, e cioè interculturale e interreligioso, vuole precisare l’universalità di questi diritti stessi; in un secondo momento, offrendo una risposta nel contesto della Spätmoderne vuole tenere desta l’importanza della domanda sui principi e sul fondamento della dignità umana. È proprio su questa direzione che si muovono le prime dichiarazioni di Papa Benedetto XVI rispetto a quelle del suo predecessore.
La Chiesa e lo schema «comune» dei diritti umani
La storia conflittuale tra la corsa «vittoriosa» dei diritti umani e la posizione della Chiesa cattolica viene raccontata, nella maggior parte dei casi, secondo uno schema classico, suddiviso in tre fasi: La prima fase comincia con la bolla Quod aliquantum di Pio VI con la quale, quest’ultimo, nel 1791 condanna i principi della Rivoluzione francese e la «dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino», proclamati il 26 Agosto 1789. Si aggiungono nel corso dell’ ’800 tanti documenti che confermano questa linea: dopo il Mirari vos di Gregorio XVI (1832), Pio IX esprimeva con il Sillabo degli errori principali del nostro tempo (1864) la posizione della Chiesa proprio in forma antagonistica rispetto alla modernità. Ancora l’enciclica Immortale Dei di Leone XIII (1885) respira questo spirito «antagonista» prima ancora che questo Papa avviasse la seconda fase, segnata da un crescente avvicinamento della posizione cattolica a una valutazione positiva dei diritti umani. Le encicliche sociali a partire dalla Rerum novarum (1891), soprattutto i discorsi natalizi di Pio XII del 1942 e del 1944 parlano, infatti, dei «diritti dell’uomo» ed elaborano una visione ecclesiale che cerca di basarsi, innanzitutto, su un fondamento concettuale solido, prima di passare al rifiuto delle idee liberali e moderne.
La terza fase viene aperta dalla famosa enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII del 1963 – enciclica che fu definita anche la «dichiarazione dei diritti umani cattolica» (Punt) – e vede nei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, specialmente nella Dignitatis humanae e nella Gaudium et spes, l’accettazione positiva dei diritti umani. Osservando questa terza fase, oggi si è in grado di scoprire il contributo positivo che il giusnaturalismo cattolico, specialmente quello di Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier, ha prestato alla formulazione della Dichiarazione universale del 1948. Di più, le due fasi antecedenti vengono interpretate, allora, come un processo di «elaborazione assimilativa» da parte dell’etica cattolica che oggi fortunatamente è stato accolto. Affermazioni come quella del Cardinale Ottaviani, alla metà del XX secolo prefetto della congregazione per la dottrina della fede, il quale diceva: «Dei diritti umani non leggo niente nella Bibbia», fanno ormai parte degli aneddoti del passato.
Questa sintesi dello schema «classico» non è un semplice excursus storico e quasi «obbligatorio» per qualsivoglia trattazione sul tema «Chiesa e diritti umani», ma ci interessa qui perché contiene implicitamente un’affermazione assiologica: cioè l’identificazione tra «liberalismo» e «diritti umani». Se vedo giusto, non viene raccontata la crescente accettazione dei diritti universali da parte della Chiesa, bensì la storia della determinazione della sua posizione rispetto ai diritti umani stessi come venivano dichiarati nella Rivoluzione Francese e come essi influenzarono, poi, i pensatori liberali nella modernità. Il fatto, però, che fino ad oggi i diritti umani – almeno quelli della «prima generazione» – vengano identificati con questa tradizione, ha insinuato una duplice problematicità nel dibattito attuale: (1) che i diritti dell’uomo non vengano percepiti da tutti i popoli come un’acquisizione «universale» della ragione, bensì come il risultato di uno sviluppo storico geograficamente e culturalmente limitato, cioè del liberalismo occidentale; (2) che, proprio per questo, viene negata la considerazione sistematica che proprio per la loro natura di essere dei «diritti», i «diritti dell’uomo» si istanziano sia della loro efficienza, che dei loro limiti. È proprio l’accettazione a-critica del primo aspetto che porta, di per sé, al misconoscimento dell’importanza del secondo, vale a dire: proprio il vantaggio della natura del «diritto» in quanto tale, cioè di trascendere ogni relatività di Weltanschauungen particolari e che rende i diritti dell’uomo quello che sono, viene misconosciuto – facendolo, quasi, implodere – a causa dell’identificazione della conquista dei diritti umani con l’effetto della tradizione culturale del liberalismo di stampo occidentale. Questo, in poche parole, è il meccanismo che determinò nella storia la configurazione del rapporto tra «Chiesa e diritti dell’uomo nella modernità» e che ora sembra andare a ripercuotersi a livello mondiale. È proprio per evitare quest’ultimo pericolo, che viene ritenuto utile sostituire il discorso post-moderno con una considerazione «tardomoderna».
Questa parte dall’interrogazione dell’accezione «liberale» dei diritti dell’uomo. Troviamo in Rawls[1] la sintesi più riuscita[2] dell’intuizione che stava a sfondo della tradizione che parte con Hobbes e che vede al suo centro Kant. A sapere: «come può esistere continuativamente nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli?». La base di ogni Stato è, secondo Kant, il fondamento, per dir così, pre-statale della dignità dell’individuo umano il quale è sottratto all’agire dello Stato[3]. Solo in quanto soggetti di diritto (Rechtssubjekte), cioè dotati di diritti che non sono dovuti all’organizzazione politica ma che spettano agli individui per la loro natura razionale, e in questo senso perfettamente egalitari fra loro, i cittadini sono in grado di adempiere la loro funzione all’interno del corpo politico-democratico e cioè del «sistema di cooperazione sociale». Per garantire questa «cooperazione sociale» viene estromessa dal discorso politico qualsiasi convinzione dei singoli cittadini riguardante i valori etici, religiosi o anche politici; solo in questa maniera il liberalismo può garantire l’universale mediazione delle singole «libertà» in un unico corpo politico.
Un tale liberalismo, che al seguito della Rivoluzione Francese si schierò ideologicamente contro ogni forma di «tradizione» e di «autorità» – cose che sembravano residui di «superstizione» e di una mancata «illuminazione» – poteva essere interpretato, da parte cattolica, solo come una «fede ribelle dell’autonomismo» (Guardini) ossia, nell’esagerazione individualistica dell’idea originalmente cristiana dell’uguaglianza universale degli uomini, come un’«esplosione di un idealismo cristiano laicizzato» (Maritain) e come un’«idea cristiana diventata pazza» (Chesterton). Soltanto passando brevemente in rassegna queste posizioni, si può constatare che lo sviluppo storico della scoperta dei diritti umani non si costruiva per una comune ricerca sui fondamenti primordiali dell’uomo, bensì si svolgeva sulla scorta di una lotta culturale a chi spetta il «diritto» di poter «decidere» ultimamente sul fondamento dell’uomo e dello Stato.
In questo senso, è stato il Concilio Vaticano II che definì il «modus vivendi» della Chiesa con la società moderna dell’Occidente. Nei decenni successivi l’etica sociale cristiana era impegnata a costituirsi secondo questa nuova costellazione e a Giovanni Paolo II essa deve la forma fin allora definitiva della posizione della Chiesa sui diritti dell’uomo. Con Benedetto XVI sembra, però, che essa sia entrata all’interno del dibattito della Spätmoderne, cioè precisamente con il dialogo di Joseph Ratzinger, all’epoca ancora come prefetto della congregazione per la dottrina della fede, con Jürgen Habermas nel gennaio 2004 a Monaco di Baviera. Al centro di questo dialogo sta, nonostante alcune differenze notevoli tra i due contendenti, la comune intesa che la ragione occidentale nella Spätmoderne abbia perso la sua pretesa universale-astratta e stia scoprendo l’«altro da sé», cioè stia entrando in una sensibile sintonia con il suo essere «in contesto» con diverse «manifestazioni» come i sentimenti, le culture, gli interessi e così via. È in questo senso che la ragione occidentale deve lasciarsi criticare da quelle voci che mettono in discussione la mancata attenzione della razionalità «moderna» proprio per queste «particolarità culturali»[4]. Sulla base di questa critica, il discorso attuale considera la capacità della ragione allo stesso momento più limitato e ridimensionato, da un lato, e più radicale dall’altro: ridimensionato per quanto riguarda l’impegno di stabilire degli standard internazionali culturalmente «forti», ma contemporaneamente più radicale in quanto la domanda della «fondazione ultima» della universalità dei diritti umani davanti a quest’orizzonte appaia nel modo più radicale possibile. Ovviamente un tale spostamento del discorso all’interno della Spätmoderne ha le sue ripercussioni notevoli sull’etica sociale cristiana, che può riconoscere in questa sfida l’occasione per sviluppare nuove strategie di argomentazione e di partecipazione al dialogo internazionale. Questo contributo mira essenzialmente a offrire un abbozzo preliminare per avviare tali strategie, sviluppando, dapprima un’analisi etico-sociale di questa duplice sfida in due parti (3 e 4), per poi passare alla considerazione di quali conseguenze ne deve trarre non solo l’etica sociale stessa, ma anche il programma di una «teologia dei diritti umani» (5).
[1] Cf J. Rawls, The Law of Peoples with «The Idea of Public Reason Revisited», Harvard College, Cambridge (Massachusetts) 1999, trad. it. di G. Ferranti e P. Palminiello, a cura di Sebastiano Maffettone, Il diritto dei popoli, Comunità, Torino 2001, pp. 98-135.
[2] È questa l’opinione di C.P. Vogt, «Fostering a Catholic Commitment to the Common Good: An Approch Rooted in Virtue Etichs», Theological Studies 68 (2007) pp. 394-417, qui p. 395-397.
[3] Magistrali sono, a questo proposito, le osservazioni di P. Pagani, «Kant e la Regola d’oro», in C. Vigna – S. Zanardo, ed., La Regola d’oro come etica universale, Filosofia Morale 23, Vita & Pensiero, Milano 2005, pp. 173-225.
[4] Cf G. Pasquale, Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, Ricerca, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 111-120.
[1] Cf J. Habermas, Neue Unübersichtlichkeit. Kleine Politische Schriften, V, Neue Folge 321, Edition Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985, pp. 125-141.
[2] Come avevo fatto notare in G. Pasquale, «Il rientro della postmodernità. Virtualità cristiane della secolarizzazione nel mondo postsecolare», Ricerche Teologiche 16 (2005) pp. 239-257, al quale mi permetto di rimandare.