TEMPO ED ETERNITÀ: CIÒ CHE PUÒ SILLABARE LA FILOSOFIA
«Simile in questo a Dio, il tempo, se è oggetto, non è
che zero: se è qualche cosa, il quasi niente che il
tempo in verità è, non è più niente; non appena la
riflessione vi si sofferma, per quanto lievemente, lo
concettualizza e lo temporalizza»
(Vl. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi niente, 1987, p. 52)
Il tempo come proiezione dell’uomo
Ciò che più arroventa come interrogativo l’uomo è il tempo. Perché l’uomo – a differenza del gatto o di qualsiasi altro esistente – ci vive dentro. E lo sa. Da quando si alza al mattino a quando, solitamente stanco, si corica alla sera. La terribile costante scansione del tempo, poi, insinua nell’uomo un’altra domanda: se esso cesserà, oppure no[1]. Il che significa: l’uomo si domanda continuamente se esista o no il divenire e, qualora esistesse, se esso possa (tra)passare in eternità. Se lo chiede particolarmente oggi, da ché vige la noia – e specialmente ogni «oggi» sembra essere perfettamente identico a quello di ieri – e se lo chiede, soprattutto, perché l’uomo riflette, prima ancora di credere. L’affascinante questione di che cosa sia il tempo e se esista l’eternità è, dunque, innanzitutto oggetto della filosofia, prima ancora che della teologia, come – lo sappiamo – aveva già intuito Sant’Agostino[2]. Perché – ci corre l’obbligo di ripeterlo – l’uomo non si chiede solo il perché delle sue rughe, quando gli escono sulle gote, ma, soprattutto, cosa ci sta a fare in questo spazio che è sempre anche uno spazio di tempo[3]. E se lo chiede, in una maniera quasi insopportabile, specialmente quando uno dei suoi lascia per sempre questo spazio, e quindi anche il suo tempo, per esempio con la morte, allorché gli viene detto, magari che quel suo caro trapassa dal «tempo» all’«eternità». Insomma, la questione della vita eterna attanaglia qualsiasi essere vivente che non sia solo un vegetale o un animale. Com’è accaduto anche Michael Jackson (1959-2009).
Ma in realtà il tempo non c’è. Ci ammanta, ci opprime, eppure non c’è. È progetto della mia «temporalizzazione», progetto da cui nascono tutte le ambivalenze del tempo che sperimentiamo: da un lato è fuggitivo e noi corriamo per superarlo, integrarlo, farne qualcosa, ma nello stesso momento ci fagocita, ci assorbe; potenza che ci opprime, occasione, occorrenza e «trovata». Potremmo parlare del tempo come di un nonnulla opprimente; è un nonnulla, un quasi niente, eppure ci opprime, ci preme; un vuoto nella forma dell’imperativo, un vuoto che va colmato per amore o per forza, quel vuoto che è la nostra vita. Lasciarci divorare dalla noia o dal cosiddetto stress sono due forme dello stesso fenomeno. Lo stress è, paradossalmente, non avere molto lavoro: c’è, infatti, gente con molto lavoro che non conosce lo stress. Questi emerge dalla cattura del tempo, quando ricattiamo il tempo, quando vogliamo spremere il tempo finito per ricavarne un guadagno infinito: vivere la vita che dovrebbe avere qualità e cercare di risucchiare il sangue al tempo vuoto.
Ciò che, invece, c’è e il divenire perché ovunque il divenire è inteso come «divenir altro» e, dunque, come oltrepassamento. Oramai dieci anni fa ebbi modo di assistere, nella mia veste, allora, di studente e nella Città che mi ha adottato, a una memorabile lezione di Emanuele Severino. In quella famosa lezione del 18 Ottobre 2001, ora pubblicata assieme a tutte le altre come «lezioni veneziane», a un certo punto, il Professore, parlando del tempo che non c’è e del divenire che, invece, ci sarebbe, precisò:
C’è il pezzo di legno; la convinzione di fondo del pensiero dell’Occidente è che esso sia il punto di partenza di una forza (umana, in questo caso) che lo trasforma in tavolo; ma sia il punto di partenza, che il punto di arrivo, debbono essere se stessi. Parlare di divenire significa parlare dell’identità con sé del terminus a quo e del terminus ad quem. Se non ci fossero punto di partenza e punto di arrivo, non ci sarebbe variazione[4].
L’identità con sé che il tempo sembra non avere o mettere in gioco rispetto al soggetto pensante, questo è proprio il punto discriminante sul quale dobbiamo ora riflettere per capire cosa ancora la filosofia possa sillabare sul tempo e l’eternità. La citazione di Severino lega il divenire del tempo a un punto di partenza e di arrivo; in questo modo essa non solo chiama in causa, per converso, l’eventuale idea di eternità, ma soprattutto, ci «obbliga» a ritornare per un attimo alla tradizione filosofica più genuina che è quella classica al fine di capire con che cosa abbiamo a che fare.
La necessità di una fondazione metafisica del concetto di tempo
La nozione di tempo riveste un’importanza fondamentale sia perché è un coefficiente discriminante la coscienza storica della tardomodernità, sia perché una sua chiarificazione risulta necessaria da quando, nel corso della storia del pensiero, la concezione biblica – che ne dava una spiegazione rivelata – incontrò quella filosofica, appannaggio della riflessione aristotelica ed ellenistica in genere, le quali ne offrivano una formalizzazione a tutt’oggi imprescindibile. Nella disamina di ordine filosofico conviene sciogliere, innanzitutto, il dubbio secondo il quale Aristotele avrebbe limitato la definizione del tempo sul piano di una rappresentazione matematica astratta legata al movimento del divenire, anziché connetterla con la vita dello spirito, lasciando così il tempo fuori della sua rappresentazione intelligibile[5].
Di contro, vi sarebbe, infatti, l’altra spiegazione alla luce della quale la successione – che è il dato primo e fondamentale della temporalità – dovrebbe essere, invece, connessa all’esperienza psicologica, fino a diventare un dato a priori dell’intelligibilità dell’essere soggetto al cambiamento, cosicché il tempo, creazione dell’anima, sarebbe anteriore all’estensione e al movimento. Aristotele, invece, è molto più chiaro: la nozione psicologica del tempo sorge nella mente umana in modo spontaneo in seguito alla percezione del moto; noi conosciamo, infatti, simultaneamente il moto e il tempo e se non avessimo alcuna percezione del moto non avremmo alcuna coscienza del tempo. Siamo qui nel piano psichico della percezione in cui attingiamo l’idea del tempo in un modo indistinto come una distensione al cambiamento[6].
Al fine della determinazione della sua realtà, tra il tempo psichico e il tempo fisico si forma, così, una reciprocità integrativa da cui nasce la definizione di tempo come «numero del movimento secondo un prima e un poi»[7]. Questa reciprocità precisa esattamente che il tempo è la misura della durata, visto che esso suppone simultaneamente queste due nozioni: durata, ossia cambiamento dell’anima, misura cioè cambiamento dello spazio. I due nessi referenziali del tempo sono, quindi, rispettivamente l’indeterminazione del soggetto e la determinazione dell’oggetto, lo stato personale dell’individuo e il movimento impersonale dell’universo nello spazio, poiché non c’è tempo che non abbia origine in un fatto psichico, ma non vi è neppure tempo che non supponga un minimo riferimento a fatti fisici[8].
Penetrando più a fondo la lettura dei dati della filosofia aristotelica, si chiarisce che tra quei due nessi referenziali, l’elemento formale del concetto di tempo spetta alla nozione di numero in quanto «numerus numeratus»[9] del movimento che l’anima percepisce come passaggio dal prima al poi. Questo significa, in sintesi, che il tempo nasce dall’incontro che avviene tra l’attività discernente – che è propriamente spirituale e un apporto attivo della conoscenza umana – con il fatto della mobilità, intesa come condizione delle cose dell’universo e in quanto valore della realtà obbiettiva. Così, il rapporto tra la realtà fondamentale del tempo e la sua realtà formale può essere validamente approfondito solo in una filosofia che armonizzi il rapporto tra il concreto e l’astratto, il reale e l’ideale e questa filosofia è, senza dubbio, quella aristotelico-tomista[10], ovverosia una filosofia propriamente metafisica, come adesso si vuole chiarire.
Il carattere «spirituale» della durata temporale: il presente
Se il tempo dovesse prescindere dalla mente umana – o, il che ha lo stesso significato, dall’attività discernente dell’anima – esso si caratterizzerebbe, pertanto, per un modo d’essere intrinsecamente incompleto, che solamente nell’istante indivisibile ha ragione obbiettiva di esistenza[11]. Questa consapevolezza, tuttavia, non permette di inferire anche e immediatamente che il tempo presente propriamente «è», a discapito del tempo passato e di quello futuro[12], ma solamente che esso è il perno dell’attività unificatrice e discriminatrice della varietà essenziale dell’essere successivo da parte dell’intelligenza. In realtà, il presente è una relazione di coesistenza reale o ideale tra l’anima intellettiva e l’essere mobile. Quando un intelletto diviene cosciente della presenza di un essere al suo atto, esso forma l’idea di presente, che prima vive in actu exercito e poi astrae formando l’idea di relazione di simultaneità. Il presente può essere considerato, quindi, sotto un duplice aspetto: in quanto assolve a una funzione unificatrice e in quanto ne assolve una discriminatrice: sotto questo secondo aspetto esso appare come una cosa essenzialmente fugace e transitoria, costituendo nella sua indivisibile unità il termine del passato e l’inizio dell’avvenire[13].
In questo modo di può distinguere – ancorché non realmente, ma solo concettualmente – il presente che dice unità e permanenza, e che ha un corrispettivo obbiettivo-ontologico nell’esistenza di un essere in movimento, dal presente come limite di una dualità di passato e futuro, il quale non ha un corrispondente obbiettivo, ossia non è un elemento concreto intromesso tra il passato e il futuro. Ne consegue che l’istante (to\ nu=n, nunc), il presente, è l’elemento di massima intelligibilità del tempo in quanto in esso si opera la sintesi tra i fattori obbiettivi e quelli soggettivi che costituiscono la realtà complessa del tempo. Si può, pertanto, affermare che l’istante assolve a una molteplice funzione[14] e, al di là della mente umana numerante, esso non ha altra realtà che l’attualità esistenziale dell’essere in movimento: l’essere del tempo, il suo ei(=nai, è il tempo attualmente numerato, cioè l’anteriore posteriore attualmente uniti e totalizzati dall’intelletto[15].
Dinnanzi alla divisione aristotelica che si è utilizzata nei confronti del tempo, rimane ancora aperto, tuttavia, l’interrogativo se il tempo considerato come ente numerabile (numerus numerans) non abbia in se stesso alcun valore di realtà per rapporto a quello di ente numerato (numerus numeratus) dalla mente umana. Ora, va precisato che stabilire la stretta dipendenza tra la realtà dell’essere del tempo nella sua relazione diretta e non disgiunta dall’anima che lo misura, alla luce della filosofia aristotelico-tomista, non significa inferire anche che secondo Aristotele e Tommaso il tempo senza l’anima non abbia alcuna consistenza. Essi affermano, invece, che il tempo senza l’anima non può avere una realtà completa, ma solamente una realtà fondamentale o materiale, la quale sta all’atto dell’anima in analogia al classico rapporto di potenza[16] e atto. Si stabilisce così la seguente proporzione: 1) il tempo prescindendo dall’esistenza effettiva dell’anima è solo un numerabile, però come numerabile non si può concepire se non in rapporto alla possibilità di un soggetto numerante, l’a)riqmhto/n corrisponde a l’a)riqmhtiko/n. 2) Il tempo formalmente considerato è numero numerato, e un numero numerato non può esistere senza l’esistenza di un soggetto che attualmente numera; il numerato corrisponde a chi numera, l’h/riqmhme/non corrisponde a l’a)riqmou=n[17].
Il riferimento essenziale all’attività psicologica dell’anima comporta, in definitiva, che il tempo abbia nella sua consistente realtà una connotazione antropologica e quella dimensione di carattere spirituale che viene solitamente chiamata durata temporale, all’interno della quale le parti successive del tempo si riuniscono e si ricompongono mediante l’attività della memoria e della previsione[18]. Su questa deduzione conclusiva convergono sia la riflessione di Tommaso sia quella di Agostino[19], poiché si può adesso affermare che per entrambi il tempo riflette l’opera dello spirito a tal punto che il suo modo d’essere materiale esige, in ragione tutta propria, un complemento spirituale da parte dell’anima umana. Il tempo si esibisce, dunque, come un valore umano e personale, oltre che obbiettivo e storico, ed è proprio su questa piattaforma di base filosofica che si può parlare del tempo iniziando a pensare all’eternità. Infatti, più il grado di spiritualità è elevato, più il valore del tempo e della durata è esaurito intelligibilmente, mentre scendendo verso le cose materiali finiamo col confondere il sensibile con l’intelligibile, perdendo il senso stesso dell’essere successivo come tale. Ancora una volta, il numerabile e il numerato, ciò che è obbiettivo del tempo e l’attività intellettiva dell’anima umana, stanno tra loro come potenza e atto.
Ciò nonostante, non è per nulla irrilevante che permanga una cesura tra quello che nel tempo è obbiettivo e materiale e quello che, nell’intelligibilità dello stesso, si configura come un complemento antropologico-spirituale del tempo medesimo. Si tratta, ora, di circoscrivere ulteriormente non tanto la consistenza di tale cesura, bensì il senso metafisico della durata temporale esperita così dall’esistente umano, operazione di metodo che, sola, ci permette di pensare filosoficamente l’eternità.