Un punto è, forse, il più importante perché controlla esattamente la nostra fedeltà – o meno – all’intuizione originaria e individuata dal nostro Fondatore. Dicevamo che questa fedeltà è «guardata a vista» dai giovani che ci attorniano. È, infatti, sufficientemente perspicua la constatazione che se i francescani sono nati per osservare il Santo Vangelo alla lettera, nello spirito di «Madonna povertà», andando itineranti per il mondo a predicare la penitenza e la buona notizia, e oggi vivono asserragliati nel baluardo di sicurissimi Conventi residenziali dove non manca praticamente nulla, i giovani d’oggi traggano da soli le loro conseguenze. Guarda caso sono soprattutto i giovani europei a farlo, attrezzati dello spirito critico offerto loro dalla modernità.
I Cappuccini
Ancora: se i Cappuccini, per fare soltanto un altro esempio, sono fuoriusciti dall’Osservanza francescana per una vita eremitica e contemplativa di più rigida povertà, mentre oggi non si differenziano quasi in nulla dagli altri «fratelli» francescani, non è necessario ricorrere allo strutturalismo di Claude Levi-Strauss[2] per ipotizzare l’impossibilità a motivare un giovane per la scelta degli uni piuttosto che degli altri, se non per fortuite occasioni messe in essere da una organizzazione della pastorale vocazionale che, nella vita consacrata, mai come in questi anni ha conosciuto sforzi enormi di investimento economico, affettivo e in termini di personale, a fronte di risultati piuttosto scarsi. Ma l’osservazione vale anche per tutte quelle Congregazioni femminili accumunate dalla stessa predisposizione pastorale, per esempio, all’attività educativa. Dove sta, guardando alla «cosa» – direbbe Aristotele – la differenza che motiva la giovane a scegliere l’una rispetto a un’altra? Voglio dire a scegliere di essere una suora insegnate, piuttosto che un’insegnate «laica» e pure professionalmente strutturata nella carriera?
Tuttavia, dal punto di vista teologico il vero problema alberga ancora più in radice e può essere formulato con questo interrogativo che i giovani si pongono anche senza dircelo: «potrò fare anch’io quello che ha fatto il Fondatore, che ho scelto ,entrando nella sua famiglia religiosa?». Se la risposta è positiva, allora possiamo cominciare a creare dei ponti tra noi e i giovani; se la risposta è negativa, quelli che entrano da noi o siamo riusciti ad ammaliarli, oppure prima o poi chiederanno l’esclaustrazione, anche se non tutti, anche se non subito. Lo ripetiamo: se un Istituto religioso femminile o maschile – utilizziamo adesso questo esempio, dopo quello dei francescani – è nato per educare i poveri e gli orfani, mentre ora è tutto dedito a formare l’intelligentia borghese della polis, stanziando, forse, una o due borse di studio per i bimbi poveri, i giovani guardano a distanza il fenomeno, ma, appunto rimanendo, nella loro distanza di sicurezza e traggono le loro conseguenze. Anche se, come facciamo tutti, essi riconoscono l’eroismo di quelle suore o di quei religiosi insegnanti che, personalmente, operano gratuitamente per «amore di Dio».
È ancora possibile passare ai fatti
Siamo giunti alla conclusione, dove avevo preannunciato che avrei esibito delle ipotesi operative molto concrete al fine di «passare ai fatti» ed evitare l’irreparabile, consapevoli, comunque, che a guidare la nostra storia rimane sempre lui, Gesù Cristo il Signore della storia universale. Le delineeremo sulla base del precedente triplice registro – Europa, promozione sociale, fedeltà al carisma originario – posizionandoci, in ogni caso, su una prospettiva ottimistica, che è, poi, quella cristiana, la quale, superando l’analisi empirica, coglie nel bersaglio la promessa evangelica che Gesù Cristo, Signore unico della storia, conosce la ragione di quanto sta accadendo e, soprattutto, rimane l’unico a guidarla provvidenzialmente.
Data la situazione europea, gli Istituti di vita consacrata dovranno operare in un’azione simultanea, che, da una parte, accorpi le forze, e, dall’altra, testimoni – grazie all’accorpamento – quel clima di famiglia così bramato dai giovani e dalle giovani. Ciò che papa Francesco stigma come «via dell’attrazione»[3]. Anzi, a quegli Istituti di vita consacrata che ancora lo possono fare, urge l’incombenza di trasferire il massimo delle forze rimanenti al di fuori dell’Europa, esattamente come risposta al problema che essi hanno di entrare in contatto con i giovani e, così, di salvaguardare il carisma. Perché noi religiosi e religiose italiani ci accaniamo – quasi – a (con)vincere i giovani europei orientandoli al nostro carisma, mentre molti e molte sono quelli extra europei che attendono di conoscerlo? Non è, forse, perché abbiamo paura di uscire dall’Europa e, così, ci accasiamo con quelli europei l’ennesima edizione della strategia operativa per la pastorale vocazionale?[4].
La promozione sociale
In merito alla questione della cosiddetta «promozione sociale», che i giovani oppure le giovani sembrerebbero non poter più trovare tra le nostre fila, dal mio ristretto angolo visuale pare, invece, che oggi risultino inderogabili, a questo proposito, altri due obbiettivi ben più importanti, dal momento che essi agiscono in radice sulle cause che determinano questa impressione di non venire umanamente e professionalmente «promossi» nella vita consacrata. Con il primo si dovrebbe affinare ulteriormente, e ancor di più, il discernimento da farsi sulle Candidate e sui Candidati alla nostra vita, perché troppi sono coloro che oggi si rifugiano in Convento per uscire dalla «loro depressione» e pochi sono quelli che entrano per portare davvero una ventata di «salute/salvezza»[5]. In questo caso, papa Francesco è ancora più esplicito dello scrivente: «Il fantasma da combattere è l’immagine della vita religiosa intesa come rifugio e consolazione davanti a un mondo esterno difficile e complesso»[6]. Se un giovane entra in un Istituto per trovare rifugio dalla sua zona d’ombra che è la malinconia dovunque palpabile per la mancata realizzazione affettiva, egli deprime ancora di più quell’Istituto e, nell’Istituto, chi, invece, dovrebbe essere promosso al proprio voler portare aria nuova.
Il secondo obbiettivo è perfino complementare a questo primo e tocca il nodo cruciale – oggi si può anche dire che siamo, a questo proposito, arrivati letteralmente a un «bivio» – dell’esercizio dell’autorità da parte dei superiori. Deve essere definitivamente chiaro che continuando a esercitare il servizio dell’autorità con il metodo nietzschiano della «volontà di potenza» come fanno alcuni superiori/superiore a dispetto del Vangelo e dell’ultima Istruzione della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica «Faciem tuam, Domine, requiram», i giovani del secolo XXI non ci capiranno mai o, forse, mai più. Cresciuti in un’atmosfera dove il principio democratico di esibire liberamente la propria opinione, assieme a quello di ottenere motivazioni comprensibili a ciò che viene detto loro di fare, essendo come i due binari ferroviari sui quali scorre tutta la loro esistenza, i «nostri» giovani europei rincorrono quelle nuove tipologie di vita consacrata dove intravedono l’esistenza di un dialogo e la possibilità dell’espressione liberadi se stessi, mentre rifiutano, pressoché totalmente, quelle dove l’autorità si impone pensando di essere ancora ascoltata dai giovani catechizzati, quelli degli anni Ottanta del secolo scorso, che oramai non ci sono più. Ma io credo di poter affermare, assieme ai numeri 13 e 14 della citata Istruzione, che oggi i giovani scappano – dentro e fuori gli Istituti – perché constatano come l’autorità semplicemente non osservi queste due disposizioni rivolte ai superiori. Il primo è il seguente:
L’autorità è chiamata a promuovere la dignità della persona, prestando attenzione ad ogni membro della comunità e al suo cammino di crescita, facendo dono ad ognuno della propria stima e della propria considerazione positiva, nutrendo verso tutti sincero affetto, custodendo con riservatezza le confidenze ricevute […]. La guida comunitaria è come il buon pastore che dedica la sua vita per le pecore, anche perché nei momenti critici non si tira indietro, ma è presente, partecipa alle preoccupazioni e alle difficoltà delle persone affidate alle sue cure, lasciandosi coinvolgere in prima persona; e come il buon samaritano, sarà pronta a curare le eventuali ferite. Riconosce inoltre umilmente i propri limiti e il bisogno dell’aiuto degli altri, sapendo far tesoro anche dei propri insuccessi e delle proprie sconfitte[7].
Il primo obbediente
Il punto seguente fonda teologicamente e, quindi, giuridicamente lo sprone all’atteggiamento pastorale richiesto al numero 13:
Movendo dalla caratteristica natura di munus dell’autorità ecclesiale il Codice ricorda al superiore religioso che egli è innanzitutto chiamato ad essere il primo obbediente. In forza dell’ufficio assunto, egli deve obbedienza alla legge di Dio, dal quale viene la sua autorità e al quale dovrà rendere conto in coscienza, alla legge della Chiesa e al Romano Pontefice, al diritto proprio dell’Istituto[8].
Quanti religiose e religiosi, invece, vivono da decenni impietriti dalla paura del superiore oppure della superiora, senza che nessuno possa rendere loro quella consolazione che trovano, forse e soltanto, nella confessione sacramentale!Se questa sofferenza acuta permane, perché, allora, meravigliarsi ancora se i giovani ci stanno ben alla larga e se i nostri Istituti invecchiano verso il loro inesorabile tramonto?
Il terzo obbiettivo, quello attinente alla fedeltà effettiva ed effettuale al proprio carisma implica, a mio modo di vedere, un’opera di revisionismo totale, il quale non potrebbe, però, avvenire se non in missione, appunto fuori dall’Europa. Perché in Europa tutto sembra (dover restare) fermo nella vita religiosa. Eppure bisognerebbe, e costruttivamente, passare ai fatti. Ricordo – per portare solo un’altra metafora a modo di esempio – come durante il Primo Forum dei Ricercatori e Studiosi Cappuccini che si tenne nel 2005 a Venezia un Relatore, assai stimato in Italia, avesse chiesto al suo Ordine di ripristinare la fedeltà al proprio carisma rivedendo, almeno, la «presenza a ragnatela»[9]dei Conventi, ossia passando a quella tipologia di presenza che risponde con freschezza «alle attese di spiritualità degli uomini di un determinato tempo e luogo» essendo che «la concezione moderna dello spazio è inclusiva e non esclusiva»[10]. Dopo quasi un decennio, nulla è cambiato, se non che le ragnatele presenti nei Conventi semivuoti rubricano, giorno dopo giorno, una presenza che si vuole trattenere a ragnatela, assieme alla «polvere della storia»: appunto, letteralmente polvere e ragnatele in Conventi semideserti.
Oltre la fine della storia
Eppure,nonostante tutto, fuori e dentro l’Europa rimane un’ultima opportunità che ci permetta di guardare oltre la fine della storia[11]. Essa consiste nel rimettersi in gioco sulla grande opportunità che abbiamo di essere per davvero «poveri in spirito» e «spiriti poveri», ossia coloro soltanto che, secondo Karl Rahner, sono gli unici artefici della storia (1904-1984). Proprio trenta anni fa, come fosse in questi giorni, il grande Teologo gesuita in una famosa conferenza dettata pochi mesi prima di morire ammise che:
Il risultato e il senso definitivo della storia salvata presso Dio non sono identici a quelli messi in luce dai grandi eroi della storia e della cultura. Secondo la fede cristiana, che su questo punto è antielitaria in maniera radicale, i benedetti del Padre, che possederanno il regno, sono i poveri e i piccoli, la «massa» grigia che gli storiografi hanno trovato interessante quasi solo come humus su cui hanno visto crescere le grandi azioni, le uniche per loro degne di essere prese in considerazione dalla storiografia. […] Pure questo problema non trova però in fondo la sua soluzione in una giusta gerarchia nella definitività del risultato della storia, bensì in quell’amore atemporale, in cui il risultato disinteressatamente amato della storia complessiva di tutti appartiene a ognuno[12].
In questo modo, Rahner rimaneva convinto che la maniera cristiana di leggere la storia fosse ancora una volta oggetto di fede, verificabile forse verso la fine della microstoria personale di ciascuno, se non addirittura rimandabile all’imperscrutabilità dell’eternità di Dio, come lo sarà anche il nostro profondo desiderio di fraternità e unità nella vita consacrata. E, infatti, sempre nello stesso scritto, apparso nel 1983, così concludeva: «pure all’interno del mondo le aurore vengono sempre pagate con tramonti»[13].