Questa settimana la liturgia ci ha posto dinanzi qualcosa a cui nessun uomo può sottrarsi e a cui, tuttavia, l’uomo contemporaneo pare avere particolarmente interesse a (tentare di) sottrarsi. È il dolore, che ci viene incontro nelle feste dell’Esaltazione della Santa Croce e della Vergine Addolorata. Già solo i nomi appaiono, forse, intrisi di un pietismo popolare che sfocia in una mistica del dolore, che, talvolta rischia di giungere ad un fraintendimento del senso veramente cristiano del dolore.
Destinatari di un corpo glorioso
Innanzitutto, è doveroso ricordare che il nostro Dio è un Crocifisso Risorto. Non è solo Crocifisso, ma anche Risorto. Però non è solo Risorto. Che significa? Che c’è un grande spoiler nel cristianesimo: nella Resurrezione di Cristo, sappiamo quale sia la fine dell’uomo, secondo il progetto di Dio, cioè come Cristo, “la primizia”, anche noi saremo destinatari di un corpo glorioso, con cui essere in comunione eterna con Dio.
L’anima è incarnata in un corpo
Non siamo angeli, né “anime luminose”: la nostra anima è incarnata in un corpo; l’anima gli dà forma, ma, a sua volta, è condizionata dal corpo a disposizione (basti pensare che qualunque azione, anche la più spirituale che possiamo pensare, risente ed è condizionata dal corpo, dal nostro corpo, tanto da poterla realizzare in modo diverso gli uni dagli altri). Al contempo, la Resurrezione necessita della morte: è un passaggio che è necessario attraversare, per poter raggiungere uno stadio nuovo, tanto è vero che i discepoli stessi faticano a riconoscere il Signore, nelle sue varie apparizioni, seguite alla Passione e alla Morte.
La presenza della croce
Anche in questo aspetto, la fede cattolica si pone come conciliazione tra opposti:
« di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio» (Eb 12, 2).
È rilevante la presenza della Croce, ma è indispensabile ricordarci dove punta lo sguardo. Non si ferma alla Croce. La oltrepassa. È un mezzo, non un fine. È alla gioia che si rivolge lo sguardo.
Il quasi-ossimoro
È per questo che san Paolo dirà ancora, parlando dei cristiani “quasi tristes, semper autem gaudentes” (2Cor 6,10), in un quasi-ossimoro che dice dello sguardo di Dio, che sfugge il momento presente, perché proviene dal Suo eterno presente.
Il grido di Cristo, sulla Croce, non è quello di uno sconfitto, come appare agli occhi del mondo. Un centurione, nella penna di un poeta americano, lo vede come un grido di vittoria, quello di chi, combattuto il proprio agone, attesta la sconfitta del proprio, temibile, avversario, con un grido che trapassa il silenzio più cupo.
«Non ho mai visto una morte come questa,
e ne ho perso il conto.
Né ne ho viste come questa.
I moribondi, si sa, si aggrappano alla vita,
anche quando sono appesi ad una croce.
[…]
La sua battaglia non era con la morte,
la morte era sua serva.
[…]
Ha combattuto una battaglia dalla croce
Ma non con la morte.
[…]
Sulla croce,
il suo conflitto era contro qualcosa di molto più grande
delle lingue pungenti dei farisei;
[…]
No, combatteva un’altra battaglia
Ed io colsi qualcosa di essa.
Potei sentirla.
Potei quasi sentirne la fragranza.
E quando gridò,
qualcosa in ebraico credo,
come se fosse stato ferito,
io strinsi la mia spada.
Avrei combattuto,
se avessi visto il nemico.
Ma lui si riprese e,
in seguito, diede un grido di vittoria.
Loro erano sconcertati,
ma io conosco le battaglie e i combattenti.
Riconosco un grido di vittoria,
dovunque»
(F. Topping, trad. mia)
[Maddalena]