A Lampedusa continuano ad arrivare i barconi dalla Libia, carichi di profughi e continuano anche gli appelli al soccorso da parte di profughi su barchini in avaria, ma l’invito fatto lo scorso anno sul sito dell’Azione Cattolica Italiana nello scorso anno dalla ricercatrice nei Diritti umani dell’università di Palermo Martina Sardo, membro dell’equipe nazionale per il settore giovani di Azione Cattolica Italiana, non cambia in quanto è un invito a non dimenticare: “C’è una frase di Emily Dickinson ad accogliere chiunque capiti al cimitero di Lampedusa: ‘Per uno sconosciuto, gli sconosciuti non piangono’.
In un grassetto che salta all’occhio, fa da incipit a una stele che il Forum Lampedusa Solidale ((un’assemblea pubblica sorta nel 2015 per affermare la dignità di chi è accolto e di chi accoglie) ha voluto apporre per ricordare che in quel posto ‘hanno trovato sepoltura un numero imprecisato di donne e uomini morti nel tentativo di raggiungere l’Europa attraversando il Mar Mediterraneo’. La memoria contro l’indifferenza…
Del resto, è difficile piangere per qualcuno di cui neppure si conosce il nome, di cui non è possibile ricostruire una storia, il cui corpo (al netto di violenza e torture) poco o nulla riesce a raccontare, una volta restituito dal mare”.
Per questo è sottolineata la necessità di ricordare: “Dietro ai numeri sempre impressionanti di morti e dispersi, ai quali ci siamo evidentemente abituati, ci sono le storie di padri, madri, figli, fratelli e sorelle, amici, che non torneranno più a casa, senza neppure la certezza di una tomba e di un nome”.
Quindi a distanza di 11 anni le abbiamo chiesto di raccontarci cosa resta nella memoria degli italiani di quel naufragio del 3 ottobre 2013: “Il naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa ha rivelato, nella maniera più drammatica possibile (la morte di 368 persone, tra uomini, donne e bambini, ‘colpevoli’ di aver sperato in un futuro migliore) tutte le e sfide che la migrazione nel mar Mediterraneo porta con sé. A restare impressa nella memoria è la distesa di bare davanti al Molo Favaloro, a Lampedusa, che riporta inevitabilmente alla sofferenza di chi fugge da guerre, povertà e persecuzioni ma anche alle responsabilità di chi, invece, dovrebbe provvedere a garantire soccorso in mare oltre che percorsi sicuri di migrazione. Nella memoria degli italiani resta sicuramente l’immagine di un mare che, come ha detto papa Francesco, ‘è diventato un cimitero’, un luogo di dolore e ingiustizia”.
Allora, per quale motivo è fondamentale ricordare ed in quale modo si può vincere l’indifferenza?
“Ricordare il naufragio del 3 ottobre è essenziale anzitutto per evitare che eventi simili si ripetano. Il rischio, sempre dietro l’angolo, è di abituarsi ai numeri, altissimi, dei morti in mare, senza pensare alle storie, alle vite, ai sogni che ci sono dietro. La memoria non deve essere un arido esercizio di ‘commemorazione’, ma un grande atto di responsabilità e consapevolezza verso le attuali sfide umanitarie.
Ricordare significa impegnarsi a non diventare prede dell’indifferenza. Per vincerla, è necessario coltivare l’empatia e la cura verso chi soffre. Per sconfiggerla, dovremmo riscoprire la capacità di ‘piangere’ per chi è vulnerabile, anche se non lo conosciamo. Il primo passo, in questo senso, dovrebbe essere quello di esercitarsi a guardarci, a ‘guardare’ l’altro per davvero, nel profondo: a interessarsi alla sua storia, a preoccuparsi della sua vita; a lottare per la sua dignità e i suoi diritti”.
Però ancora continuano gli sbarchi a Lampedusa: quale accoglienza?
“Per quanto, ultimamente, sembrino non essere più al centro della cronaca, gli sbarchi a Lampedusa continuano. Così come continuano ad avvenire naufragi a largo della coste siciliane. Ogni nuovo arrivo di migranti pone domande sulla capacità di accoglienza dell’Italia e dell’Europa. L’accoglienza non può ridursi a una mera gestione emergenziale. Se davvero, come ha sottolineato papa Francesco, ‘l’accoglienza è il primo passo verso la pace’, allora deve basarsi sul riconoscimento della dignità intrinseca di ogni persona, superando paure e pregiudizi, e soprattutto garantendo percorsi di migrazione regolari e sicuri, e serie possibilità di integrazione.
Da dove nasce il suo interesse per i diritti umani?
“Penso che ci siano sfide, come quella migratoria o ambientale, ma anche (soprattutto) le guerre cui stiamo assistendo, o le violenze cui donne e bambini sono continuamente sottoposti che ci chiamano inevitabilmente a interrogarci su cosa significa essere nati ‘liberi e uguali in libertà e diritti’ (Dichiarazione universale dei diritti umani) ed ad impegnarci perché sia effettivamente così.
La difesa dei diritti umani è un pilastro del vivere civile, che ci impone di guardare oltre i confini geografici e politici per abbracciare l’umanità intera. E anche quando questo sembra impossibile, a fronte delle ingiustizie che vi sono nel mondo, penso valga ancora la pena ribadirselo, che siamo uguali e che abbiamo gli stessi diritti, impegnandosi perché, anche nel piccolo, nei contesti quotidiani, si pratichi il rispetto, l’ascolto, la solidarietà”.
In quale modo l’Azione Cattolica educa al rispetto dell’altro?
“L’Azione Cattolica Italiana, che è palestra di sinodalità, cioè di cammino condiviso, può svolgere (e svolge già) un ruolo cruciale nell’educare all’accoglienza e al rispetto dell’altro, anzitutto attraverso i cammini di gruppo dell’Azione Cattolica dei Ragazzi, dei Giovani e degli dulti, in cui la proposta formativa dell’Azione Cattolica si estrinseca. All’interno dei gruppi, sin da bambini, impariamo ad abitare la pluralità e a pensare alla diversità come ad una ricchezza e non come ad una barriera.
Crescendo insieme, riconosciamo l’altro come un amico e un fratello, senza egoismo e diffidenza, vivendo e praticando, ogni settimana, ai campi parrocchiali e diocesani, agli incontri nazionali, la ‘cultura dell’incontro’. Quella dell’apertura all’altro diventa quindi la ‘postura’ con cui siamo chiamati a stare all’interno dei nostri luoghi quotidiani, delle comunità, dei territori, delle alleanze con le quali camminiamo. Così che l’accoglienza dell’altro non risulti un’impresa, un gesto straordinario, ma un’espressione naturale e concreta della nostra fede”. (ACI Stampa).