E’ uscito martedì da HarperCollins «Il Dio dei nostri padri», nuovo viaggio di Aldo Cazzullo alle radici dell’identità occidentale. Di seguito trovare il prologo e la conclusione.
Prologo
Ho ricominciato a leggere la Bibbia al capezzale di mio padre. Il 24 ottobre 2023 ero a Madrid sul palco di un teatro, quando ho sentito una premonizione fortissima: era accaduto qualcosa a papà. Finito lo spettacolo ho riacceso il telefonino: c’erano i messaggi di mio fratello che mi chiedeva di rientrare subito. Sono rientrato — i medici mi avevano parlato di poche ore di vita — e ho trovato papà seduto sul letto che conversava con gli infermieri. Pensai a uno scherzo di cattivo gusto, ma un po’ tutti mi assicurarono: non capiamo neppure noi, è inspiegabile.
Mio padre ha guadagnato solo due mesi. Molto utili però, a lui e a noi, per dirci addio. Tra le tante cose che ci siamo detti — fino alla vigilia di Natale, quando si è spento —, ce n’è una che può servire a entrare nello spirito di queste pagine.
A tutte le persone che intervisto chiedo sempre se credono nell’aldilà, e come lo immaginano. Mio padre ci teneva a darmi anche la sua risposta: «Aldo, l’aldilà esiste». Sei sicuro, papà? «Sicuro, no. Però ne sono convinto». In quella notte del 24 ottobre in cui è stato in punto di morte, papà aveva sentito accanto a sé suo padre. Non l’aveva soltanto visto; aveva proprio avvertito la sua presenza. Nonno Lorenzo — ragazzo del ’99, cavaliere di Vittorio Veneto: cose un tempo considerate importanti — era un contadino; e vestito da contadino l’aveva visto papà. Molto magro, la canottiera bianca, i pantaloni da lavoro chiusi in vita da una corda penzolante. Gli aveva parlato in piemontese: «Sei il mio Giannino, non ti lascio solo, devi goderti ancora un poco i tuoi nipoti». E poi aveva interceduto per lui presso san Pietro, che giudicava le anime.
È ovviamente una visione condizionata dall’immaginario cattolico. Ma è proprio questo il punto. Mio padre era cattolico praticante, non ha mai perso una messa la domenica, anche se per lui la religione non era così importante come lo è per mia madre. I nonni, poi, appartenevano a una generazione per cui i dubbi che i miei genitori hanno coltivato non esistevano. I nonni erano certi dell’esistenza di Dio e dell’aldilà come del fatto che il sole sorge e tramonta.
Quelle dei nostri nonni e dei nostri genitori sono state le ultime generazioni convinte di vivere sotto l’occhio di Dio. E di dover rispondere a Dio delle proprie azioni.
La nostra, di noi cinquantenni, è stata la prima generazione di agnostici, che sapeva di non sapere. Poi sono venute generazioni che non hanno coltivato neppure i dubbi; non si sono proprio poste il problema. Al tempo della Rete, del resto, passato e futuro non esistono: chiedersi da dove veniamo e dove andiamo non usa più.
Anche per questo oggi non si legge più la Bibbia. Io stesso ne avevo una memoria lontana, legata alle letture d’infanzia e alla passione per la pittura; perché la Bibbia ha ispirato i più grandi artisti che l’umanità abbia mai avuto, dai mosaicisti di San Marco a Guttuso, da Giotto a Chagall, sino a raggiungere le vette di Raffaello e di Michelangelo.
Nei giorni e nelle notti passate a vegliare mio padre (anche se il peso maggiore è ricaduto sul mio splendido fratello), la Bibbia è stata una compagna ideale. Ricordo un sabato sera — di sabato sera gli ospedali sono come gli alberghi delle settimane bianche: si svuotano, chi non sta proprio malissimo viene mandato a casa, per far posto ai nuovi arrivati — in cui lessi una pagina poco conosciuta, il rito dell’alleanza tra Abramo e Dio. Abramo prepara gli animali per il sacrificio, poi viene colto da un misterioso torpore — negli ospedali il riposo dei ricoverati e dei parenti somiglia più al torpore che al sonno; non si dorme mai del tutto — ed è visitato da Dio, che passa nell’oscurità della notte sotto forma di fuoco… Una pagina evocativa, di una potenza straordinaria, che inquieta e insieme rasserena. Non soltanto ci si trova di fronte al mistero; si sente quasi di avere la forza di affrontarlo.
Per quanto oggi abbia meno paura della morte, poiché ho capito che fa parte della vita, mentirei se dicessi che la lettura della Bibbia mi ha riavvicinato alla fede. Certo, sono consapevole della sua importanza spirituale, della sua valenza religiosa; eppure la Bibbia mi è apparsa innanzitutto un capolavoro letterario, una grande storia, un formidabile romanzo. Con un solo, vero, grande protagonista: Dio. È sempre Dio che crea, decide, parla, agisce. Gli uomini, anche i più grandi, anche Abramo, Noè, Mosè, Davide, ruotano attorno a lui, esistono perché esiste lui. Se lo seguono, prosperano; se lo ignorano, muoiono.
La Bibbia è l’autobiografia di Dio. Per questo, molti hanno pensato (e qualcuno ancora pensa) che sia stata scritta, o almeno ispirata, da lui.
Sulla Bibbia sono stati pubblicati migliaia di libri. Come per ogni grande opera, esiste una «questione biblica»: chi l’ha scritta e quando, chi l’ha tradotta, quale interpretazione darne… Ma non sono un biblista, e non è di questo che voglio parlarvi. Come ogni grande opera, anche la Bibbia muta, con il succedersi dei secoli, delle traduzioni, dei lettori. Alla nostra sensibilità, alcuni passi suonano datati, fuori tempo, talora terribili: schiavitù, poligamia, massacri.
Ma c’è una cosa che rimane sempre uguale: la trama. Il sugo di tutta la storia. Il romanzo della Bibbia. La grande vicenda degli uomini vissuti sotto lo sguardo di Dio, da Adamo fino ai nostri padri.
Non è solo la vicenda del popolo ebraico; è l’infanzia dell’uomo. Il tempo in cui il mondo era giovane, in cui Dio ci parlava, e chi voleva poteva ascoltarlo. E quando Dio si manifesta, spesso si presenta così: «Io sono il Dio dei tuoi padri». Anche per noi, che viviamo o crediamo di vivere in un mondo senza Dio, il Libro suona familiare. Come un rimpianto, come un richiamo, come una voce paterna, che viene da lontano e lontano va. Perché la Bibbia, al pari di ogni grande opera, parla di noi. E leggerla, o ripercorrerne le vicende come stiamo per fare, non è solo un’avventura spirituale. È un godimento dell’anima e della mente.
Certo, la Bibbia è un libro sacro. Fondativo di due religioni. «Bibbia» — che in greco significa «libri» — è un termine introdotto dai cristiani, che comprende sia l’Antico sia il Nuovo Testamento; è quindi il libro fondativo del cristianesimo. Ma prima ancora quello che i cristiani chiamano Antico Testamento è ovviamente la base della religione ebraica. Ed è importante anche per l’Islam, in quanto fonte indiretta, per citazioni e riprese, del suo unico libro sacro, il Corano. Ma la Bibbia non è fatta solo di norme e di regole. È soprattutto fatta di parole e di storie. Con la parola Dio crea il mondo. E con le storie ci racconta com’è fatto. Come funziona l’animo umano, di quanti vizi e quanto valore siamo capaci, quale sarà il nostro destino. Ci racconta cos’hanno sognato i nostri padri, il luogo in cui i nostri padri sono adesso, e cosa attende noi.
Le pagine della Bibbia non sono soltanto le fondamenta della nostra fede; sono l’origine della nostra cultura. Chi volesse risalire alle radici dell’identità italiana, cristiana, occidentale, prima o poi arriva alla Bibbia. E da qui deve cominciare. Dal diluvio con cui Dio tentò invano di sradicare il male. Dalla Torre di Babele che gli uomini invano vollero costruire. Da Giacobbe che lottò con l’angelo, da Giuseppe che sapeva indovinare i sogni, da Mosè che liberò il suo popolo dall’Egitto, passò il Mar Rosso e ricevette i dieci comandamenti dal dito di Dio. Da Sansone che uccise se stesso insieme con i Filistei, da Davide che sconfisse il gigante Golia. E poi dalle grandi donne, come Giuditta, Giaele, Ester, che uccidendo o facendo uccidere un uomo malvagio salvarono milioni di giusti; mentre Susanna, in una vicenda che suona incredibilmente moderna, fece condannare i suoi molestatori. E poi l’inno all’amore del Cantico dei Cantici, l’angelo che scaccia il demone e salva Tobia, il grido di dolore di Giobbe, e la grande speranza della resurrezione. «Dio non ha creato la morte» scrive la Bibbia: «La giustizia infatti è immortale». Prima ancora di Gesù, è il Dio dell’Antico Testamento a promettere la vita eterna: «Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete… L’ho detto e lo farò».
Possiamo dunque cominciare insieme un viaggio alla scoperta, o alla riscoperta, della Bibbia. Però non dobbiamo cominciare dalla fine, bensì dal principio. Da quando non esisteva il mondo, ma il caos; su cui aleggiava lo spirito di Dio.
Tutto sta nascendo. Dio sta per parlare. Ascoltiamolo.
Conclusione
La Bibbia, o almeno l’Antico Testamento, racconta moltissimo sulla storia e sull’animo dell’uomo; ma non ci dice quasi nulla dell’aldilà.
L’aldilà esiste; ma è un luogo privo di interesse. Un abisso. Un regno di tenebra e nebbia, dove il defunto è inattivo, passivo. Né sofferente, né felice. Né castighi, né premi. Né inferni, né paradisi; al più, un eterno purgatorio. Una sopravvivenza quasi spettrale, in un luogo sotterraneo chiamato Sheol.
Per questo la Bibbia ci fornisce di continuo genealogie: Abramo generò Isacco che generò Giacobbe… La vera vita eterna è affidata ai figli, ai nipoti, alla discendenza. Nella cultura ebraica soltanto con il tempo, non molto prima della nascita di Gesù, si affaccia l’idea di una giustizia ultraterrena: una punizione per i malvagi, una ricompensa per i giusti. E la ricompensa a volte viene concepita come l’immortalità dell’anima.
C’è un passo del libro della Sapienza, citato molto spesso da chi cerca disperatamente una spiegazione, un senso, un contrappasso al terribile sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo. «Il giusto, anche se muore prematuramente, si troverà in un luogo di riposo». «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà». «In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé; li ha saggiati come oro nel crogiuolo, e li ha graditi come l’offerta di un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno, correranno qua e là nella stoppia come scintille».
Non cenere; scintille (…)
Nessuna tra le tante persone, illustri o sconosciute, cui ho chiesto come immaginano l’aldilà mi ha dato la stessa risposta. Pochi sono quelli che non ci credono, pochi quelli che ne sono certi. La maggioranza spera. Mio padre, prima di morire, si era convinto che l’aldilà esistesse davvero; e per quanto sia rimasto attaccato alla vita fino a quando è stato cosciente, credo che sia morto più sereno per questo. Mi ha detto un grande medico, Umberto Veronesi, uno che ha assistito migliaia di persone sino alla fine, sino sull’orlo dello spavento supremo, che nessuno gli ha mai chiesto di morire; tutti gli hanno chiesto sempre di vivere, di guarire, pur sapendo che era ormai impossibile. Affidarsi a Dio richiede una forza morale, una serenità, un coraggio tali che soltanto in quel momento sapremo se davvero possediamo queste virtù. Quanto alle esperienze pre-morte, la luce, il tunnel, il calore, l’intera vita che ti passa davanti, chi le ha raccontate non è morto; e quindi non sa cosa ci sia davvero dall’altra parte.
Non sarà con la ragione che troveremo conforto alle nostre paure.
La speranza dell’aldilà non può prescindere dalla fede nell’esistenza di Dio. E non di un Dio generico; di un Dio misericordioso, che si chini sul solco delle nostre piccole vite, si prenda cura delle sue creature, non le abbandoni mai. La fede ci promette che alla fine torneremo all’Uno, restando noi stessi.
Com’è scritto nel libro della Sapienza, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, a immagine e somiglianza non solo del suo volto, ma della sua natura.
Dio non ha creato la morte.
La morte è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo. Ma «le anime dei giusti sono nelle mani di Dio». Il vero regno dei morti è sulla terra. «La giustizia, infatti, è immortale».