«Memoria e profondità sono la stessa cosa, o meglio, l’uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria». Le parole di Hannah Arendt, richiamate da Andrea Riccardi, potrebbero essere l’esergo del libro Le parole della pace (Edb), nel quale lo storico e fondatore della comunità di Sant’Egidio ha raccolto i suoi interventi in trentacinque anni di incontri interreligiosi «nello spirito di Assisi».
C’è la memoria, anzitutto, di un percorso iniziato quando Giovanni Paolo II, nel 1986, ebbe l’intuizione di invitare le religioni mondiali nella città di san Francesco «a pregare le une accanto alle altre e non più le une contro le altre», come scrive nella prefazione il Pontefice che del santo di Assisi ha scelto il nome: «Questa è una consapevolezza acquisita nel cammino di dialogo, amicizia e preghiera: che la pace è santa e il nome di Dio non può essere utilizzato per combattere o terrorizzare», scrive papa Francesco. Ma non si tratta solo di questo, esiste un’altra memoria da custodire.
Gli incontri di Sant’Egidio sono cominciati al crepuscolo della guerra fredda e di lì a pochi anni, con la caduta del Muro, si poteva sperare che l’umanità avesse compreso la lezione del «Secolo breve». Proprio nel 1989 l’incontro interreligioso venne organizzato a Varsavia, il titolo di quell’anno era una citazione delle parole pronunciate da Paolo VI all’Onu nel 1965: «Mai più la guerra!». Erano passati cinquant’anni dall’invasione nazista della Polonia, nel suo intervento Andrea Riccardi ricordava la «valle buia» attraversata da un’intera generazione durante la Seconda guerra mondiale, 55 milioni di morti, 35 milioni di feriti, tre milioni di dispersi. E già allora avvertiva: «Non si può e non si deve dimenticare l’orrore di quella guerra. L’oblio fa il gioco di chi ripone la propria fiducia nelle armi e di chi crede nell’uso della violenza che calpesta ogni diritto e giustizia».
La globalizzazione poteva essere l’occasione di lasciarsi alle spalle gli orrori del passato. Non è andata così, la «belle époque globale» non ha realizzato le speranze del Novecento. Nel frattempo «è scomparsa la generazione della Seconda guerra mondiale e della Shoah in un mondo facile all’oblio». Soprattutto, nel corso degli ultimi anni, «è cresciuta l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia». Come se non bastasse, nel mondo globale «la pluralità di attori e la potenza degli armamenti favorisce che le guerre si eternizzino senza finire», scrive Andrea Riccardi. C’è il caso esemplare della Siria, e anche la situazione in Ucraina dopo l’invasione russa non promette nulla di buono.
E allora? Gli incontri per la pace sono parole al vento di anime belle che non hanno capito come funziona il mondo? Nel corso degli interventi che scandiscono il libro, l’autore rovescia la prospettiva: «Utopia? Sogno? L’immaginazione è una visione offerta a tutti. Nella memoria troviamo elementi ed energie per una visione di pace. Una politica realista ha bisogno di una visione più ampia alla luce della quale muoversi».
Del resto, non è che il cosiddetto «realismo» abbia dato grande prova di sé. Mentre dallo spirito di Assisi sono nati percorsi di pace che in Mozambico, con la mediazione di Sant’Egidio, hanno posto fine nel 1992 a una guerra civile costata un milione di morti. O il documento sulla fratellanza umana firmato nel 2019 ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar, Al Tayyib.
L’illusione che la globalizzazione potesse regolarsi da sé, il dogma logoro della mano invisibile, ha mostrato la corda. Proprio le fedi, che il teologo Miroslav Volf ha definito «globalizzatrici originarie», possono giocare un ruolo essenziale per darle un’anima, portare credenti e non a «liberarsi dell’indifferenza» ed essere «artigiani di pace», riassume Riccardi: «Le religioni non sono fossili che la modernità e il pensare scientifico alla fine seppelliranno, come ha pure creduto buona parte del pensiero pubblico occidentale. Sono organismi vivi: raccolgono gli aneliti di comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone. Restano in genere sulla terra e tra le case: la sinagoga, la chiesa, la moschea, il tempio. Ho visto la preghiera dei disperati in luoghi disumani o nei viaggi terribili dei profughi». (Sant’Egidio).
L’illusione che la globalizzazione potesse regolarsi da sé, il dogma logoro della mano invisibile, ha mostrato la corda. Proprio le fedi, che il teologo Miroslav Volf ha definito «globalizzatrici originarie», possono giocare un ruolo essenziale per darle un’anima, portare credenti e non a «liberarsi dell’indifferenza» ed essere «artigiani di pace», riassume Riccardi: «Le religioni non sono fossili che la modernità e il pensare scientifico alla fine seppelliranno, come ha pure creduto buona parte del pensiero pubblico occidentale. Sono organismi vivi: raccolgono gli aneliti di comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone. Restano in genere sulla terra e tra le case: la sinagoga, la chiesa, la moschea, il tempio. Ho visto la preghiera dei disperati in luoghi disumani o nei viaggi terribili dei profughi». (Sant’Egidio).