Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Antonio Sanfrancesco per Famiglia Cristiana
La paura. Il noi. Dio. Nel 1994 si chiedeva A che ora è la fine del mondo? Adesso prova a dare qualche risposta. Con meno durezza (e più indulgenza). Alla sua maniera. Ridendo, per esempio, come canta nell’ultimo brano che chiude Dedicato a noi, il quattordicesimo album della sua carriera ultra-trentennale: «E crolla il muro / su cui sbattevi / e hai visto cos’era? / soltanto un pensiero».
Quando non è sul palcoscenico, Luciano Ligabue è un antistar. Gli piace raccontare, spiegare, confidarsi. Quando ha rischiato di morire prima di nascere. Dell’infanzia tutta don Camillo e Peppone a Correggio. Di una madre indomita e un padre realista (che un giorno lo sorprese con un regalo inaspettato). Della crisi del 1999 (poi scopriremo perché proprio quell’anno). Della sua fede onesta e tormentata.
Nel tour che comincia il 9 ottobre all’Arena di Verona e lo porterà per tutto l’autunno in giro nei Palasport italiani, c’è al suo fianco anche il figlio Lorenzo Lenny, batterista, avuto nel 1998 dalla prima moglie Donatella Messori.
Pubblicare un album non è demodé? Oggi la musica è tutta mordi e fuggi.
«Nella musica è cambiato tutto. Il modo di scriverla, di produrla, di farla circolare, di ascoltarla. Ogni giorno escono circa centomila canzoni. Anch’io, da ascoltatore, sono disorientato davanti alle piattaforme. Non è cambiato, però, il mio bisogno di fare musica in un certo modo. Un album è un percorso, come scrivere un libro. Solo così riesco a dire qualcosa che non riesco a tenere per me in un certo periodo della vita». (…)
Nel 1990, agli esordi della carriera, cantava “Non è tempo per noi / e forse non lo sarà mai”. Adesso il suo ultimo album s’intitola Dedicato a noi. Si è intenerito con l’età?
«Credo di sì (ride, ndr). All’epoca mi sentivo dalla parte di chi si sentiva fuori moda e fuori posto da un conformismo dettato da chissà chi. In questo album riconosco che quei noi di molti anni fa meritano una piccola ricompensa, magari, semplicemente, il riconoscersi reciprocamente, lo stare insieme, il condividere un pezzo di strada».
Nel brano Niente piano B canti che «è sempre una questione di prendere o lasciare / e di sapere ancora bene / da che parte stare». Quale?
«Quella degli ultimi. La mia educazione è un miscuglio di comunismo e cristianesimo. Camillo e don Peppone. Negli anni Settanta eravamo persuasi che certi valori, come quella di ridurre il divario tra ricchi e poveri, sarebbero stati perseguiti. Oggi non gliene frega niente a nessuno. Anziché ridursi, il divario s’è ampliato. E nel futuro si amplierà sempre di più. Nessuno avrà la possibilità di cavarsela da solo. Non è solo questione di equità. Oggi manca anche la pietas».
“Chissà se Dio si sente solo, se gli bastiamo, se gli manchiamo”, si chiede in un altro brano significativo dell’album.
«È una domanda che rilancio a chi, come me, ha voglia di farsela. Se Dio è nei cieli e ci sta guardando sarà atterrito dallo spettacolo non troppo edificante che stiamo offrendo. Se si sente solo è perché lo stiamo abbandonando. Non è una questione di fede ma di etica, di comportamento. Poi c’è un’altra possibilità: rassegnarsi. La canzone l’ho scritta anche dopo l’esperienza della pandemia».