Il deserto ha – insieme – qualcosa di affascinante e spaventoso. È – a suo modo – una forma di sublime. Eppure, solo oltrepassandolo, avvicinandosi all’Oreb, mentre pascolava il gregge, Mosè ha l’opportunità di un incontro – insolito e inatteso – che cambia la sua prospettiva. Il deserto è luogo inospitale, aspro, impervio. Verrebbe da dire ch’è da evitare. Ma è solo accettando di attraversarlo, che Mosè è giunto fino al prodigio di quel roveto che arde e non si consuma, che lo ha spinto a fermarsi, ad interrogarsi, a cercare di comprendere meglio di che razza di evento stesse avvenendo di fronte ai suoi occhi.
Uno spettacolo e l’ardore del conoscere
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (Es 3,3)
Il cuore dell’uomo non cambia: la scintilla della curiosità si accende di fronte ad uno spettacolo dal sapore misterioso, che intriga l’animo e lo spinge ad indagarne cause e principi. È questo, in fondo, che nei secoli e nei millenni, ha acceso il desiderio ardente della conoscenza. Da Ippocrate a Tolomeo, da Galileo a Stephen Hawkins: è il fascino di vedere il tutto in un frammento, di trovare motivo di stupore nel creato che ci circonda e – forse – percepire il palpito di un amore che ci precede, in quell’intessere di vita incessante, anche negli angoli più reconditi dell’universo.
Un sacro, di famiglia
A quell’istintivo avvicinarsi di Mosè, Dio risponde con un perentorio divieto di avanzare oltre, che è, al contempo, la certificazione di una sacralità, che esige rispetto e separazione da ciò che è la ferialità dell’umano. Al contempo, però, non è un sacro inconoscibile e irraggiungibile. Si tratta di un sacro che parla la stessa lingua, che condivide ricordi di famiglia, che passa attraverso capostipiti noti, che narrano la storia di un popolo, attraverso le gesta dei propri antenati: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6).
L’identità in un nome altrui
In questo incontro, Mosè riceve una missione, un compito. L’uomo che si domandava chi fosse veramente, in questa sua identità promiscua di bimbo salvato dalle acque, di ebreo cresciuto tra gli egiziani, affidato con amore e ricevuto con amore. Tenuto in vita da tre donne: sua madre, sua sorella, la figlia del faraone. Vissuto accanto ai confratelli israeliti, percependo il dolore della schiavitù da una posizione privilegiata. La richiesta è quella di tornare, da loro, in nome di Dio. Ma quale dio? E Mosè, ancora alle prese con la propria identità, scopre che è in un altro la radice del proprio sé. Che non può incaponirsi in una ricerca solitaria delle proprie origini. Perché al principio non c’è la solitudine, ma una relazione, perché noi stessi siamo comprensibili a noi stessi sempre e solo se inseriti in una relazione: è la relazione con gli altri che ci consente di comprenderci come persone. Non esistiamo come atolli del Pacifico. Siamo singolarità che si rispecchiano nell’altro, come arcipelaghi. Perfettamente indipendenti, ma anche strettamente interconnessi.
Colui che c’è
«Io sono colui che sono» (Es 3,14). Forse l’affermazione più filosofica dell’intero Antico Testamento. Un nome che sembra un indovinello, persino una presa in giro. E invece contiene una rivelazione imprescindibile: la caratteristica principale di Dio è quella di esserci. Che non significa solo presenza. Significa, anzitutto, quella fedeltà che è affidabilità. È un’alleanza credibile, perché stretta con il “testimone fedele”. Incapace di tradire, persino di fronte al tradimento più lancinante.
Rif. Prima lettura ambrosiana, nella VI domenica dopo Pentecoste, anno B (Es 3,1-15)
Testo: Sulla strada di Emmaus
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