Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per Repubblica
Padre Spadaro, ma davvero si può morire per le critiche social? «Purtroppo sì. Abbiamo dato grande importanza alla stima. Solo che una volta la reputazione si costruiva faticosamente nel tempo, oggi invece giudizi trainati dall’opinione di chi non ci conosce neanche sono in grado di travolgere nell’immediato la stima di una persona. E poco hanno a che fare gli eventi, i fatti, la cornice reale. Se si è fragili è facile perdere la lucidità ed essere travolti da una disistima che non si riesce a tollerare. È un meccanismo che, sappiamo, colpisce soprattutto i giovani, ma come purtroppo dimostra la tragica vicenda di Sant’Angelo, non solo i giovani. Ed è terribile».
L’intervista a Padre Spadaro
Padre Antonio Spadaro — per dodici anni direttore della rivista Civiltà Cattolica e dall’1 gennaio nominato da Papa Francesco sottosegretario del Dicastero per la cultura e l’educazione — del mondo digitale e della sua rapidissima evoluzione e dell’impatto sulla società dà una lettura con più chiaro che scuro.
Il suicidio di Giovanna Pedretti dopo le feroci critiche sui social scatenate dai dubbi sollevati da Selvaggia Lucarelli impone qualche riflessione, non crede?
«Certamente, è un processo a cui dobbiamo abituarci. Dobbiamo assolutamente trovare un sistema per educare i cittadini digitali ma voglio dirlo subito: non possiamo pensare di tornare indietro. Il mondo digitale ha grandi vantaggi, ci consente di conoscere, di informarsi, di comunicare al di là del tempo e dello spazio. Il problema che dobbiamo porci è casomai: come si comunica? E stare attenti a non fare passare un messaggio che può isultare molto pericoloso».
Quale messaggio?
«Per tanto tempo abbiamo detto ai nostri giovani che il digitale è fake, che tutto quello che passa sui social è solo virtuale. E questo è tremendo da un punto di vista educativo perché non restituisce il valore etico che invece dovrebbe essere irrinunciabile. Faccio un esempio: insultare dal vivo è più difficile, in rete invece non si avverte il peso delle parole, la responsabilità dell’azione che ha delle refluenze estremamente reali, come purtroppo spesso ci accorgiamo».
Non sarà pure che altrettanto spesso a governare queste opinioni sono persone che magari non hanno i requisiti giusti?
«La questione è che chi si propone come influencer va alla ricerca della popolarità. È il mondo dell’apparire che non si basa su dati oggettivi, sulla fisicità, e nel quale si sale improvvisamente ma si può scendere precipitosamente». (…)
Appunto, è la domanda delle domande. Della maggior parte degli influencer i follower non sanno proprio nulla.
«È un fenomeno che si autogenera. Non sappiamo chi sono, da dove nascono, ma conosciamo ogni minuto della loro vita. Si ostentano e costruiscono stili di vita. La dinamica dell’apparizione, tipica della religione, ha permeato questa realtà. Ci si fida religiosamente, l’esercizio critico è abbandonato».
E che succede quando anche gli influencer vengono travolti da questo meccanismo?
«Chi fa l’influencer rischia di essere vittima della sua stessa popolarità, fagocitato dal marchio che l’assorbe. Il suo mestiere è apparire, muoversi sull’indice di popolarità, non promuove valori. Il problema è che ci stiamo dimenticando della bellezza della relazione fisica». (…)
Forse ci vorrebbe anche maggiore senso di responsabilità? «Oggi la figura dell’influencer ha una connotazione negativa, ma ci sono anche modelli che veicolano stili di vita positivi. La grande sfida del presente è la costruzione della cittadinanza digitale, senza dimenticare il dovere sociale ed etico di costruire un mondo migliore. Si devono trovare anticorpi sociali, recuperare il senso di autorevolezza e affidabilità, capire come discernere chi seguire. È un compito educativo».
Ma chi è in grado di svolgerlo?
«La scuola, la famiglia, i media. È un processo lento e complesso per il quale non ci sono ricette. Dialogare e porsi domande. Ai ragazzi, piuttosto che negare l’utilizzo dei social, è meglio chiedere: perché ti fidi di questa persona? Il più delle volte non c’è risposta. Prima valeva l’autorevolezza della fonte, ora comanda il passaparola, i like e i followers, un meccanismo che si autogenera in modo incrementale. Nulla da criminalizzare ma dobbiamo tener presente che siamo esseri umani in carne e ossa».