Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Questo, se mai, lo esponeva al rischio opposto: quello di apparire favorevole alle idee del Giansenismo, avendo messo in rilievo la necessità della Grazia per giungere a Dio, benché se ne distaccasse nettamente attraverso proprio questa «scala» che egli dichiara accessibile a tutti e, quindi, rigettando implicitamente ogni sospetto di predestinazione. Dio, infatti, parlando attraverso Fra Tommaso, non può essere più esplicito.
Ma vuoi vedere quanto stimo l’amore dell’uomo verso di me? Io dissi che chi darà ad uno delli miei minimi un bicchiero d’acqua fresca, che io gli darò cento per uno e anco la vita eterna [cfr Mt 10,42]. (Scala, 332)
È un concetto così forte, che sarà ripreso anche nella sunnah islamica: «Un uomo camminava per la sua strada molto assetato. Raggiunse un pozzo, vi si calò, bevve a sazietà e risalì. Quindi vide un cane con la lingua a penzoloni che tentava di leccare la melma per placare la sua sete. L’uomo disse: Questo cane soffre la mia stessa sete. Così ritornò nel pozzo, riempì una scarpa e diede da bere al cane. Dio lo ringraziò e dimenticò i suoi peccati. Al profeta fu chiesto: Messaggero di Dio, saremo ricompensati per la gentilezza verso gli animali? Egli disse: Esiste una ricompensa per la gentilezza verso ogni forma di vita, animale o umana»[1].
Vediamo in quali termini perentori Fra Tommaso sosteneva la necessità della penitenza.
E le opere che fanno prima rimirano in me, vedendo se operano per piacere a me o per piacere a se stessi: e, vedendo il suo interesse, lo rinonciano, volendo operare per piacere a me. E in questo piacere a me vive l’anima, e per accrescer questa vita vigila sopra se stessa, stando alla custodia de’ sentimenti tanto interni come esterni, tagliando, sradicando da sé quelle cose che dispiacciono a me, volendo dipendere da me non solo con l’intenzione virtuale, ma molto più con l’attuale, la quale in ogni tempo cerca me, nuda, spoliata, umiliata, perseguitata, infamata, derelitta, abbandonata, percossa, mortificata, e anco morta: e in questa bassezza trova me, somma grandezza. E chi potrà, figliolo mio, intendere questa sì alta teologia, la quale io ti faccio scrivere? (Scala, 306)
Il Maligno
Ulteriormente specifica, in modo che sia impossibile l’instaurarsi di un errore sempre possibile quando il Maligno è in agguato per strappare anime a Dio.
E non pensar già mai di salire tant’alto se prima non ti lontani da tutte le cose terrene; e quello che sarà involto in queste cose non s’inalzerà mai. Ma chi vorrà ascendere sopra questa scalla bisogna prima imparare a pianger tutte le cose create, opprimerle, esterminarle, odiarle, perseguitarle, calpestrarle e fars’obediente a tutte le cose prendendo se non quelle cose che li sarà necessarie per il sostenimento della natura e il vito umano, prendendo anco questo con dispiacere per non poter far di meno, perché così Dio vuole che viviamo, per servirlo e amarlo; e per adempire la sua volontà dobbiamo dare al corpo il suo nutrimento per compiacer a Dio e servirsi di queste cose per meglio unirsi a Dio e per gloria d’esso Dio. Fuori di questo mottivo dobbiamo rinunciare ogn’altra cosa che sia sotto Dio, e da tutte le cose dobbiamo cavar bene ed augmento di virtù; e tutte le cose debbono servirci per maggiormente unirsi con Dio, perché questo Dio è un bene tanto grande che, se il cielo con quella gloria e tutte le ricchezze e tesori del mondo fussero a nostro beneplacito, bisogneria dar il tutto per questo Dio, ancorché sapessimo di star in continue croci, affanni e dolori per unirsi a Dio: perché maggior gloria stimaria di star con Dio su la croce che di star in gloria senza Dio. (Scala, 236-237)
È Dio stesso, sempre attraverso le parole di Fra Tommaso, che dice quanto segue.
Oh quanti sariano miei amici se attendessero ad una vita interna! La qual vita insegna a mortificar le proprie passioni, le male inclinazioni, li affetti sregolati, insegna l’obedienza allo spirito, insegna la via della virtù, il dispreggio del mondo, l’odio di se stesso, insegna il retto amor mio, l’umiltà pura, la pazienza invincibile. […] E tanto aborriscono il vizio e amano la virtù solo per piacer a me e per mio amore, guardando, caminando, operando, tanto con l’interno come con l’esterno; e in tutte le cose vedono me, suo Dio, ed esse anime vengono a me e io vado ad esse e in esse abito per grazia, dandogli l’osculo di pace: e l’opere loro sono fatte con pace e requie. E avendo le lampade accese dell’amor mio, mi diletto d’abitar con esse, ed essendo care colombe, volano a me vestite di veste nupziale tutte innamorate di me. E quando dissi: delitiae meae esse cum filiis hominum [ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo (Prv 8,31)], io intendevo di quest’anime così di me inamorate, e io di esse. E non mi amano solo virtualmente, ma mi amano attualmente in ogni loco, in ogni tempo; anzi, che io molte volte gli levo gli oggetti alti, sublimi, di me, perché l’amore è tanto veemente che, s’io non gli levassi tali viste, il corpo debile, fragile, non potria durare in vita, sì come si vede chiaro in molti miei amici, che dalla veemenza dell’amore e de’ alti lumi che veggono in me, morono di morte estatica, perdendo anco il motto e senso corporale. (Scala, 314)
Un amore che travalica
Un amore, dunque, che travalica, a volte, le stesse forze umane e che si mantiene inalterato, qualsiasi siano le prove volute da Dio, anche le più estreme.
E, per dir il vero, non è sotto Dio strada né via la più ampia, la più degna, la più nobile, la più cara a Dio quant’è la mortificazione, il dispreggio di tutte le cose create che non sono in Dio e per Dio, e che totalmente sia morto al mondo, a tutte le creature ed a se stesso, e che totalmente sia patron e che domini le proprie passioni, e che le sensualità ed affetti vani, transitori siano del tutto distrutti ed annichilati; e che viva ed operi non per se stesso, ma per Dio, volendo per Dio tutte le cose, sentendo virtualmente ed anco attualmente che Dio lo muova e spinga il tutto fare per il solo compiacimento di Dio, non volendo in questa vita né nell’altra se non quello che puramente e simplicemente sarà il beneplacito, la gloria, l’onore, il compiacimento di Dio, non rimirando né a premio né a castigo, ma solo rimirarà nell’intimo del cuor di Dio, ancorché sapesse d’andar all’Inferno a patir quelle pene non già per li tuoi peccati ma per gloria di Dio. E se bene questo non può esser, che tu, amando Dio, t’abbi da mandar all’Inferno, tutta volta Dio si compiace d’aver servi così bene preparati ch’abbino atti di tanta virtù. (Scala, 127)
Cioè, l’inferno stesso, benché improbabile per un «innamorato di Dio», sarebbe accettato come manifestazione della sua volontà e, quindi, come atto di pura giustizia e, dall’uomo, di pura sottomissione. Concetto ribadito con limpida chiarezza più avanti.
Protesto ancor a voi Iddio mio, a voi Madre di pietà, ed al cielo ed alla terra, ed all’Inferno insieme, che, se ben mi mandaste ad arder perpetuamente in quelle fiamme infernali per miei peccati, io confesso liberamente che appresso di me saresti quel Dio così buono e giusto qual sempre sete stato, sete e sarete con la vostra eternità. Dico che ricceverei così prontamente quelle penne come se mi deste la più alta gloria del cielo. E sì come i dannati non sanno far altro che biastemmare ed odiar la maiestà vostra, concipendoli odio e malevolenza, così io all’incontro vi protesto che, se io andassi in quell’ardenti fiamme, in vece di biasternarvi, di maledirvi e di odiarvi, vorrei che tali bestemmie, odio e maledizioni fussero delle benedizioni e rendimenti di grazia, restando sempre la maiestà vostra presso di me quel Dio buono, santo, caro, misericordioso, giusto ed immaculato sì come sete, restando io nella mia bassezza e viltà. (Scala, 267)