Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare e, se queste pagine possono suggerire al lettore il desiderio di conoscere per intero l’opera del beato Tommaso, egli troverà altre manifestazioni di condanna dell’amor proprio alle pagine 170, 171, 179, 305, 349 di Scala di perfezione, così come, nella stessa opera, il lettore potrebbe trovare «che cosa sii passione e del modo di superarla» (Scala, 95), insieme all’ammonimento: «Aiuta assai star del continuo come se sempre l’avesse a venire qualche contrario» (Scala, 96).
L’indicazione è senza compromessi
Passione è la colera, il sdegno, il rancore, odio, ramarico, inquietudine, diffidenza, rispetti, suspetti, allegrezza, tristezza, malinconia ed altre cose simili. E queste si chiamano passioni disordinate, perché sono fuori di Dio, e sono viziose, dannose, massime quando l’uomo si lascia dominar d’esse; e per questo Dio ha dato all’uomo la parte superiore, acciò che con la raggione queste passioni siano tenute in freno: perché lasciando dominar alle passioni sarebbe come a punto un servo che volesse dominar il suo patrone. E molto meglio saria bene che il servo dominasse il suo patrone che le passioni dominassero lo spirito. (Scala, 98)
Paragone ardito, stante che il testo di Fra Tommaso avrebbe circolato negli ambienti di corte, ma anche tra la nobiltà e l’alta borghesia, mentre forse non si era ancora spenta l’eco della grande sollevazione dei contadini tirolesi del 1525, quando l’arciduca Ferdinando aveva dovuto (temporaneamente) concedere, tra l’altro, l’abolizione dei privilegi della nobiltà, l’elezione dei parroci, l’eguaglianza davanti alla Legge, il controllo sull’uso delle decime.
Certo, quelli che Michael Gaismair, il capo della rivolta, aveva con sé non erano servi ma contadini relativamente liberi, ma, anche a distanza di un secolo e nonostante la damnatio memoriae, la cancellazione della memoria del Gaismair stesso a opera degli Asburgo (oltre che del suo assassinio a Padova, in terra allora veneziana), riferimenti a seppure metaforici capovolgimenti sociali possono soltanto testimoniare la libertà di espressione ritagliatasi da Fra Tommaso, grazie alla sua fama di santità e alla sua provata fedeltà agli Asburgo stessi.
Per ritornare ai testi, la miglior condotta suggerita da Fra Tommaso, contro il pericolo dell’amor proprio e delle passioni, è sempre il guardare soltanto a Dio.
Dei considerare la nobiltà, la bellezza della virtù e quanto ch’a Dio piace, e che senza virtù l’uomo già mai potrà piacere a Dio; e questa virtù è tanto cara a Dio che Dio giura di non voler esser amico dell’uomo se non sarà vestito di virtù. […] Vedendo il tuo Dio tant’amico della virtù e nemico del vizio, dei voler la virtù perché Dio da te la ricerca per adoperarla solo per il compiacimento di Dio, scordato del tuo proprio interesse, ed odiar il vizio e peccato perché Dio l’odia e aborisce, lasciando questo peccato non per timore della pena, non per gola della gloria, ma odiarlo perché dispiace a Dio, cercando in ogni luogo e tempo di compiacere a Dio. (Scala, 86)
A parte l’infelice espressione di Dio che «giura», in verità alquanto paradossale, emerge con grande evidenza tutta la forza che Fra Tommaso mette, non tanto nella sua prosa, quanto nel sentimento che la anima: un sentimento costante, carico di partecipazione, indirizzato con incrollabile certezza su binari di fede che egli cerca in ogni modo, forzando quasi i suoi limiti lessicali, di trasmettere al lettore.
Il suo ammonimento è diretto, preciso, ineludibile
Dei rimirar nella sola pupilla degl’occhi di Cristo, facendo ed operando tutte le cose per il solo amor di Dio, scordato del tuo proprio interesse aver l’occhio aperto al solo compiacimento di Dio, avendo l’occhio della retta intenzion aperto, non guardando a commodi né al proprio interesse, né meno rimirare a quella celeste patria con amor disordinato: né ti dei muovere ad operare né per Paradiso, né per gusti, né per commodi, né dei guardar alla destra né alla sinistra, né in cielo né in terra, ma dei aver l’occhio al solo Dio. (Scala, 90)
Qui è impossibile essere più chiari, espliciti, anche perentori, se ciò è utile a evitare quella devozione interessata che è forse quanto di più Fra Tommaso aborrisce.
Come ottenere tutto ciò o, meglio, come mettersi nelle condizioni di poterlo ottenere è indicato in un rapido passo che già è stato citato: «Per questo Dio ha dato all’uomo la parte superiore, acciò che con la raggione queste passioni siano tenute in freno». (Scala, 98)
È inevitabile volgere il pensiero a san Bonaventura da cui, senza alcun dubbio e come già detto, Fra Tommaso ha attinto molte delle sue più ferme certezze, a partire dalla sua stessa dichiarazione di aver attinto le proprie parole «dalle piaghe vive di Cristo». Scriveva già San Bonaventura, ad esempio: «Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini, ma da Cristo»[1].
Ma, venendo più propriamente alla questione postasi nel nostro percorso, occorre osservare come, secondo san Bonaventura, «l’animo umano si determina in sei potenze che permettono il cammino di ascesa e che sono indicate con i nomi di: senso, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza, apice della mente o sinderesi. Per conseguenza di queste facoltà, […] l’uomo può percorrere i gradi dell’ascesa mistica e conoscere Dio fino a vivere di lui. […] Il terzo gradodell’ascesa è invece segnato dal passaggio all’interiorità dell’uomo, dove la ragione coglie la presenza di Dio non più nel cosmo, ma nell’animo umano: la memoria, l’intelletto e la volontà»[2].
Il che diventa così nella prosa più bonaria di Fra Tommaso
O beati, o ben aventurati quelli che daranno principio a questa divina scola d’amore, che non faranno un passo, che non daranno un sguardo, che non termineranno un pensiero se prima non consulteranno con la raggione, tenendo sempre le passioni ribelle soggette allo spirito, soggette a Dio, vegliando entro e fuori di se stesse, acciò tutta la vitta sia indrizzata a Dio, volendo Dio in tutte le cose in modo tale che anco quelle cose che la natura non può far di meno, le vogli quasi per forza, non volendo altro gusto in esse se non quel tanto che è il voler di Dio: ove mangiando, bevendo, dormendo e vestendo dobbiamo volerle perché Dio le vuole, prendendo quel gusto non per noi, ma per adempire la volontà di Dio, volendo in esse quel gusto solo per gloria di Dio, gustando in esse con sentimento d’amore il suo Signore. (Scala, 177)
Questo perché, come il beato Tommaso titola un suo capitolo, «la ragione è il giardiniero de l’orto de l’anima per sradicar li cattivi germogli» (Scala, 91) e nessuna metafora è di troppo, se si tratta di cercare la via per raggiungere la sensibilità e, appunto, la ragione del lettore, tanto che è tutto un rutilare di paragoni variati, in modo che almeno uno si agganci all’esperienza diretta di quanti abbiano il testo davanti agli occhi oppure lo sentano leggere ad alta voce.
E per far cosa grata a Dio dei star alla custodia del cuore, stando su l’aviso vedendo i germoli della corrotta natura, la quale, essendo inmortificata e sensuale, non sa produr se non triboli e spine; e però bisogna far l’officio di buon giardiniero, il qual sta vigilante acciò non produca spine, e, vedendone alcune, come prudente taglia, cava, non lasciando produr erbe cattive. E non solo taglia le cattive erbe di sopra la terra, ma sradica cavando la radice: ove la diligenza e custodia del buon giardiniero è ragione che redurà il giardino vago e bello ed adorno de’ frutti e d’odoriferi fiori, in modo tale che il patrone e signor del giardino, molto invaghito in veder il giardino suo così bene accommodato, si rallegra, si gode in veder tante varie sorti di frutti e d’odoriferi fiori, ove mangia, odora li fiori gustando li dolci frutti, accarezza ed ama sì diligente giardiniero. (Scala, 91).