Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
La preoccupazione di Maria
Presenza discreta, si è detto, che può farsi necessaria durante la fuga in Egitto, certo, ma può anche defilarsi fino a sparire, come accade nella descrizione della preoccupazione di Maria nel momento in cui perde il suo figliuolo, in realtà occupato a dibattere con i dottori nel tempio di Gerusalemme.
A questo modo arrivò Maria in Gerusalemme, stanca e afflitta; e quanto patisse Maria per la perdita del suo figliolo, solo Iddio lo può capire: questo fu un di gran dolori che ebbe Maria in questa vita. Andò Maria al tempio sperando di trovare il suo amato figlio; ove intrando nel tempio, adorò l’eterno Padre, e rimirando vide una moltitudine di gente che udiva la disputa che facevano li satrapi e li dottori della legge. Si avicinò Maria per vedere si ivi fosse quello che lei amava, e viste l’unigenito suo figliolo che se ne stava in mezo de’ dottori che restavano admirati e stupiti de tanta sapienza; e fu rimirato da ognuno, dicendo intra de essi: «Oh che aspetto venerando! Questa è sapienza che viene dal cielo: de chi è lui figliolo e de che patria?». Alcuni de essi se godevano in sentire così ben parlare questo figliolo, altri invidiandolo si vergognorno disputar con un fanciullo de età così tenerella, e chi diceva una cosa, chi diceva un’altra. Maria lassiò finire la disputa, e poi, andando alla volta del figliolo, lo abbraciò e, tutta adolorata e allegra insieme per la trovata del suo caro figlio, bagnata di lacrime, avendo il figliolo nella bracia, disse: «Che avette fatto, o figliolo mio caro, che io e il padre vostro dolentemente vi andiamo cercando?», dicendo il caro figlio: «E perché me cercate? Non sapeve che bisognava che io facesse la voluntà del Padre mio?» [Lc 2,48-49].
L’incontro
Ma fermati, o anima fidele, e contempla questo incontro de Gesù e de Maria: oh quanta allegrezza sentì Maria quando vide il suo figliolo! Oh che parole doveva dire Maria, oh che risposta dava il figliolo alla sua afflitta Madre! Non si poteva saziare Maria di rimirare il suo amato figliolo: lo basciava, lo accarezzava, e il figlio consolava la sua amata Madre di sante risposte, dicendo la Madre: «O figlio, quanto è stato grande il dolore che ho io sentito per la vostra partenza! O Iddio mio, non vedeve voi li mei dolori? E perché non mi avisasti quando vi partisti? Ho io forsi fatto qualche cosa a dispiacer vostro? O figliolo mio, non fatte più così, perché morirò di dolore». Il caro figlio consolava la sua cara Madre, rimirava in faccia a Maria; e la Madre, vedendo il figliolo palido perché aveva patito fame, sete e stracheza e forsi aveva patito anche dormendo al sereno, non avendo in Gerusalemme parenti, andava mendicando come povero, pativa ogni disagio come fanno li poverelli. (Selva, 185-186)
Si desume la presenza di Giuseppe da un accenno di Maria («Io e il padre vostro dolentemente vi andiamo cercando»), mentre tutto, dalla narrazione ai dialoghi, è al singolare, come se il «padre adottivo» non esistesse.
Egli, infatti, ricompare appena, al momento «alto», si sostituisce la normalità della vita quotidiana, quella a cui il santo è deputato.
Il Santo Gioseffo compassionando con la sua cara sposa il putino, lo presero per mane, lo menorno a l’osteria, overo comprando del pane con altri poveri cibi, reficiorno il suo caro figlio. Oh chi avesse sentito Maria a far animo al figliolo aciò mangiasse! Lo mirava, lo contemplava, si stupiva in vederlo come Dio in tanta povertà e bassezza. (Selva, 186).
Il santo Gioseffo
Scena di dolcissima unione familiare, condotta come sotto il mantello protettivo di Giuseppe, vero «santo patriarca e sposo di Maria». Con questa stessa umile discrezione, il santo Gioseffo sparirà, poi, dalla narrazione, senza che ne venga comunicato da Fra Tommaso il momento della morte, ma ritrovandolo, in seguito, tra coloro che, al limbo, si rallegrano per il trionfo di Cristo sulla morte e sul male. Maria Maddalena potrebbe quasi apparire l’altra faccia della fede: tanto Giuseppe è discreto, concreto ma capace di non apparire, tanto è clamoroso il gestire, l’operare stesso di Maddalena, secondo un motivo ricorrente, che avrà fortuna nella pittura controriformista e barocca. Vale forse la pena, prima di immergerci nell’immagine che ne dà Fra Tommaso, rendere brevemente conto dell’evoluzione di questo personaggio nell’iconografia degli anni che precedettero, furono contemporanei e seguirono la stesura dei due testi che stiamo qui esaminando. Non si renderà conto qui dell’interpretazione gnostica data alla simbologia che questa «donna peccatrice» (Selva, 195) finì per rappresentare secondo quella scuola. Piuttosto, detto che il suo nome divenne patrimonio europeo con la Legenda aurea di Jacopo da Varazze, è più interessante, ai nostri fini, comprendere come il suo «ruolo» divenne esemplare dopo la Controriforma.
Una donna ordinata
Il Rinascimento ne aveva dato (salvo un’eccezione di cui parleremo) una figura composta, quasi davvero «matronale»: si veda la Maria Maddalena di Bernardino Luini (1525), ritratto di una donna ordinata, dal viso vagamente leonardesco e recante un piccolo contenitore di unguenti di squisita fattura. Una Maddalena, dunque, «alto borghese». Come risposta alla Riforma, l’immagine della Maddalena muta completamente: proprio attingendo alla Legenda aurea, si privilegia la conversione e soprattutto la penitenza che Jacopo da Varazze assicura essere stata condotta per trent’anni dalla donna nei boschi deserti della Provenza, a nord di Marsiglia. Ecco fiorire l’immagine quasi obbligata di una donna vestita dei soli capelli (nella Maria Maddalena penitente, 1533, di Tiziano, i seni sono ben visibili ma il viso estatico e il gesto pudico di cercare di coprirli con le braccia negano ogni implicazione peccaminosa, e il piccolo vaso dell’unguento è relegato nell’angolo inferiore sinistro), mentre il Veronese, che ne dà diverse versioni, aggiunge pudichi teli che ne schermano, almeno in gran parte, il corpo nudo, mentre però, sulla tela, inizia a comparire quel teschio che è il memento mori, cioè il «ricordati che devi morire», convenzionalmente accostato all’eremita. Lo stesso Veronese che, nel 1548, aveva dato una Conversione di Maria Maddalena nella quale la donna è ancora vestita dei panni del suo «mestiere» ma è a terra, quasi tramortita davanti allo sguardo colmo di tenerezza del Cristo. Già manieristica è un’altra Maddalena penitente di Tiziano (siamo ormai al 1565) in cui, in un paesaggio buio e quasi minaccioso, la donna è più vestita ma soprattutto il viso ha assunto, negli occhi, nella bocca, nello spazio tra questa e il naso, quella leggera tumefazione che è frutto del pianto.