Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, saggezza umana e sapienza divina” a cura di Clemente Fillarini, Messaggero di Sant’Antonio Editrice.
La riflessione di oggi
La rettitudine di cuore e di volontà nasce dalla presenza di Dio in noi, che serve per maestra, guida e norma nell’operare tutto per Dio (cf. II 358).
La regola per agire bene nella nostra vita e, di conseguenza, sentirci sereni, in pace con noi e con gli altri, non sta nello scegliere quello che piace al momento, nel compiacimento di noi stessi o nel sentirci superiori agli altri. Questo ha breve durata e non soddisfa appieno il nostro cuore: lo vediamo in tanti “personaggi”, che i mezzi di comunicazione ci propinano ogni giorno, e magari noi li crediamo felici perché hanno successo, potere e ricchezza. Al contrario, è operando il bene che si ha la vera gioia interiore, come avviene per gli “amanti di Dio”, che vivono sempre alla sua presenza, e nulla fanno che a lui dispiaccia.
«Avendo la presenza mia [di Dio] non hanno anima, né cuore, né lingua, né occhi, né odorato, né udito, né mani, né piedi, né mente, né memoria, né volontà, né sentimenti tanto interni come esterni, perché il tutto è a me sottoposto, operano se non quanto ch’io voglio. Ma acciò meglio intendi quest’alta teologia, sono appunto come un nobilissimo organo, fornito di basso, di tenore, di soprano, di contralto, e sono uno all’altro molto contrari; nondimeno il pratico organista senza suo disturbo con toccar i tasti dà virtù a tutti di far una vaga armonia» (II 358). «Se lodato per un’opera buona ti diletterai, questo piacere che ti va dilettando il cuore ti uccide, facendoti perdere la mercede eterna, perché la fai per interesse mondano, che, se non fosse, ti dispiacerebbe l’esser mai veduto compierla. Il che ti sia per norma e regola per conoscere se nel far buone opere sei mosso dall’amor proprio» (cf. II 433).
«Non sai che tutte le cose dimostrano aver avuto regola da un imperante, da un capo? Ora, se vuoi la libertà della coscienza, di voler fare a tuo modo e soddisfare ai tuoi disordinati appetiti, è un non volerti sottoporre a regola alcuna. Non sai che, dopo esser stata corrotta la natura dal peccato e fatta proclive al male, ha bisogno d’esser regolata? O t’inganni per certo se credi salvarti vivendo a questo modo: il senso da se stesso è cieco al ben operare» (III 129). «Non v’è mezzo più potente a far cadere nei vizi quanto il lasciar la carne in libertà […], perché, non avendo alcun freno dalla ragione né dallo spirito regola alcuna, non solo corre a un fonte, ma si sommerge in tutti i fonti dei vizi» (III 160).