Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Le riflessioni
Citazione certo molto lunga ma che contiene l’apologia finale di quel Paolo V Borghese, forse non il miglior esempio di transigenza politica, ma certamente quell’esempio di papato forte che serviva all’assunto di Fra Tommaso.
Egli passa perciò con naturalezza ad esporre i meriti della Chiesa, «Sposa di Dio» e, perciò, invincibile dai suoi nemici (e i luterani lo sappiano).
Santa Chiesa oferisce a Dio l’unigenito suo figliuolo con il suo prezioso sangue sparso per l’anime nostre nel sacrificio della messa. E vedendo Dio tant’opere fatte da’ fedeli e che quest’opere, quantumque siano grate a Dio per esser fatte da’ fideli suoi, non sono sufficienti da liberar, da suffragar quelli prigioni, per esser Iddio infinitamente offeso da’ suoi peccati, tutta volta la nostra santa madre Chiesa insta, prega con frequent’orazioni, dicendo in fin d’ogni orazion e dimanda Per Iesum Christum filium tuum. […] Né mai è stato ancora figlio rubelle a questa madre Chiesa, così nominata da Salamone, ch’abbi voluto contrastar con lei per gran poter e forze, ch’abbi avuto, che abbi potuto sottometter questa gran sposa di Cristo: perché, avendo da far con essa, ha da far con l’istesso Dio, essendo che quello che vuole la sposa in terra lo vuole lo sposo in cielo, e Dio gl’ha dato auttorità sopra ogni scetro e ogni corona; e chi vorrà ascender a quell’eterne nozze bisogna suo malgrado che inchini le ginocchia e che ponghi li scetri e le corone a’ piedi della sedia pontificia romana, catolica ed apostolica, regnando Paulo quinto, vicario vero di Cristo e capo di questa gran madre Chiesa e signora nostra santa Chiesa militante qui in terra, dalla qual siamo ammaestrati, illuminati ed incaminati per la via regia del cielo, insegnandoci a far il bene e lasciar il male, non cessando già mai di far bene a’ figli suoi in questa vita, ed anco nell’altra di liberare i suoi figli che sono nelle pene del Purgatorio, non cessando giamai sino che non ne ha condotti nell’eterno riposso del cielo e commemorati fra ’l numero de’ santi. (Scala, 279-280)
Riflesso degli attriti in corso tra Paolo V, da una parte, e la Repubblica di Venezia, il Regno di Francia, quello d’Inghilterra, i Savoia, i duchi di Parma, le Repubbliche di Genova e di Lucca, dall’altra, tutti accusati, per motivi diversi, di non aver riconosciuto l’autorità suprema del papato.
l’identità d’intenti tra Dio e la sua vera Chiesa
Ma ciò che conta veramente per Fra Tommaso, in questa circostanza, è l’identità d’intenti tra Dio e la sua vera Chiesa, quella di Roma.
Questa beata e felice sposa è così amata ed accarezzata da Dio che li concede quanto dimanda, perché sono d’un istesso voler: quello che vuol la sposa, anco lo sposo lo vuole, e questa sposa è tanto conforme al voler di Dio che per alcun modo non può errare; e questo è articulo di fede, né si dee dubitar, perché quel Dio che non può errare ed è l’istessa sapienza, è più presto perir il cielo, la terra che perisca la parola di Dio. E però questa nostra madre santa chiesa è governata, retta, custodita dall’istesso Dio, e chi pressumerà di toccar lei, toccherà la pupilla degl’occhi di Dio, sì come s’ha veduto di tanti regi e principi, e si vede ancora, che non sono stati obedienti a questa santa chiesa romana, che Dio gl’ha esterminati, confusi, sì come si vede in tanti regni e province. Né mai è stato potentato, né regno, né imperio «così potente a destruggerla» con tutto che questa povera chiesa abbi sempre avuto persecutori ch’abbino cercato d’estinguer non solo essa madre, ma l’istessa sedia ove rissiede la sua ampia auttorità; ma sempre è rimasta più gloriosa, esaltata in modo tale che si può dir che, doppo il dominio di Pietro apostolo, mai è stata così favorita, esaltata e sublimata quanto ora si ritrova, a gloria del fondatore che la fondò, che la creò, che è l’istesso Dio: il qual, a confusion de’ suoi nemici, la diffenderà, protegerà sino che durerà il mondo, e doppo anco coronarà gl’obedienti figliuoli, dandoli a goder quella chiesa trionfante e celeste, castigando, esterminando e condannando a gl’eterni supplizi li contumaci e disobedienti figliuoli di questa chiesa militante, la qual circondata e ripiena dello Spirito Santo si ritrova. (Scala, 280-281)
Questa è un’eco, certo, soltanto più eco delle feroci polemiche con Enrico VIII, un tempo, e poi con scritti di carattere polemico d’ambo le parti, con tanto di caricature deformanti, scambiati durante la fase più virulenta della crisi luterana.
Occorre tenere presente che Fra Tommaso non è certo solo, in questa difesa d’ufficio della Chiesa romana e nella più o meno sfumata polemica anti-protestante. Come ci ricorda Alberto Sana nell’introduzione a Selva di contemplazione, «l’ultimo degli scritti pubblicato nella princeps da padre Giovenale è un trattato per riconvertire luterani e calvinisti a Roma, i Concetti morali contra li eretici, del 1620 (compreso anch’esso nel terzo volume della presente edizione): si tratta di un testo che risente della pratica predicatoria e affronta con stile semplice e affettivo questioni dibattute circa la predestinazione, i miracoli, l’autorità papale, i sacramenti, la Vergine»[1].
Vogliamo però chiudere questo lungo capitolo sul primato di Roma, allontanandoci da qualunque fonte di polemica o ricordo di malevolenza, e riportando invece la poetica visione della Chiesa, quale Fra Tommaso attribuisce a Cristo, mentre sta soffrendo nell’orto di Getsemani e, pure, ha davanti a sé un’immagine radiosa.
Andai nel giardino di Getsemani, ove frequentemente soleva andare ritirandomi; e ivi consideravo il bello e vago giardino che dovevo edificare, e in esso molto mi godevo de sì vago giardino, avendo già fatto capo di esso il mio apostolo Pietro, avendo in esso mio giardino piantato arbori fruttiferi di meravigliosa bellezza, che furno li miei apostoli; piantai cedri, naranci, pomari, perari, fontane, peschiere, statue, pitture, che furno apostoli, discepoli, evangelisti, dottori, confessori, vergini, con numero infinito de verdeggianti arbori fruttuosi d’inestimabile valore e sapore, che con li loro aromati saporosissimi rendevano a me delizie. E io me ne stava all’ombra de si vaghi fruttari, e da me erano caramente posseduti, ove potevo dire con raggione: deliciae meae esse cum filiis hominum [ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo (Prv 8,31)]. Io piantai con le mie proprie mani questo giardino della mia chiesa e in esso piantai fiori odoriferi, suavi, aromatici, che rendevano stupore al mondo. Questi fiori furno li martiri e martire di numero infinito, quali per mio amore a mia imitazione davano la loro vita a’ tormenti atroci. Furno similmente anacoretti, religiosi uomini e donne, con tanti santi prelati, quali furno molto diligenti operari che lavororno la mia vigna e giardino. E furno institutori d’altri giardini, ma però obedienti al mio vicario, quali con santa dottrina, predicazione, essempi di virtù e perfezione adacquorno questo mio giardino e lo mantenevano morbido, fresco, e germogliavano in ogni tempo frutti di sante virtù, odori di perfezione; e tanto crebbe in santità che mi dilettavo, godevo in vedere e odorare tali aromati e in gustare sì preziosi frutti prodotti da sì care piante. E in questo giardino così bello avevo posto le mie delizie quando mirava numero innumerabile di fruttari, carichi di frutti di varie e infinite sorti, e vedevo fiori d’ogni sorte con odori aromatici, quali odoravo con sommo mio diletto. Vedevo questo vago e verdeggiante mio giardino circondato di siepe, con molte torri, cioè prelati, quali con diligenza l’hanno difeso, coltivato, ingrassato con santa dottrina, con essempi di perfezione, virtù e santità, e hanno fatto resistenza a tutto il mondo, e sempre sono restati con vittoria: mercé che, avendo posto le mie delizie in questo giardino della mia santa chiesa, me ne sto in essa per presenza, per essenza e per potenza, per soccorrere queste mie piante e fiori. E si bene io ero nell’orto di Getsemani tutto addolorato, insanguinato, vedevo però il mio caro giardino con mio sommo diletto, vedendo eserciti innumerabili de’ miei servi, fedeli operari. (Scala, 316-317)
[1] A. Sana, Un altro idiot savant, in Tommaso da Olera, Scritti, I, Selva di contemplazione, Brescia, Morcelliana, 2005, p. 15.