Don Giulio Dellavite ci conduce nella catechesi. La catechesi, cioè l’insegnamento a voce dei principi della religione cristiana, non è sapere qualcosa in più, ma conoscere meglio Qualcuno. Oggi ci occupiamo del libro del Qoelet.
Dal Libro del Qoelet (1, 1-11)
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Guarda, questa è una novità”? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto.
Per riflettere
Il Qoelet è un libro della Bibbia, poco conosciuto anche perché di non facile interpretazione. È conosciuto anche come “Ecclesiaste” (traduzione dell’ebraico Qoelet) che significa “colui che parla nell’assemblea” cioè “il predicatore”. Il testo affronta il problema del significato della vita umana. Incapace di scrutare a fondo i disegni di Dio, l’uomo si trova a combattere con la realtà d’ogni giorno, alla ricerca di una felicità che gli alleggerisca il peso di vivere. Si presenta sotto le vesti del saggio Re Salomone, ma è una finzione scenica per mostrarsi come “divino filosofo”. Ribelle solitario, pensatore eccentrico, cercatore del senso della vita, intellettuale critico che ha il coraggio mettere in discussione le tesi opposte alle sue. L’autore appare pessimista e scettico, ma in realtà è uno spirito profondamente religioso e, affermando l’illusione della felicità che si sbriciola tra le mani, orienta le aspirazioni dell’uomo verso una felicità più alta e sicura. È una combattuta ricerca di senso, un arcobaleno che ha bisogno del temporale forte e del cielo grigio per uscire vincitore.
La provocazione
La provocazione dell’uomo delle mille domande, Qoelet, è di metterci di fronte al triangolo sapienziale Dio-uomo-mondo. Se si spegne il dialogo tra Dio e uomo, tra uomo e uomo e tra uomo e mondo, la realtà della vita diventa estranea, muta, avversaria, nemica, deludente, paurosa. Quando invece la sintonia è profonda allora si crea quell’equilibrio sapienziale per cui Qoelet dice (9,7-9): “Va’, mangia felice il tuo pane, bevi con cuore lieto il tuo vino perché questo è quanto Dio vuole che tu faccia. Bianca sia in ogni tempo la tua veste, il profumo mai manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami in tutti i giorni di questa vita vuota che ti sono concessi sotto il sole, in tutti questi giorni vuoti”.
Proviamo a entrare dentro questo discorso facendo un esercizio: pensiamo a ciò che nella vita non si può comprare: puoi comprare un letto, ma non il sonno, puoi comprare libri, ma non l’intelligenza, puoi comprare il cibo, ma non l’appetito, puoi comprare gioielli, ma non la bellezza, puoi comprare una casa, ma non una relazione, puoi comprare medicine, ma non la salute, puoi comprare divertimenti, ma non la felicità, puoi comprare una madonna o una croce, ma non la fede. Ti rendi subito conto che c’è una realtà bella, preziosa, che puoi comprare ma che è vuota, rispetto al valore, al “di più” che essa contiene (letto/sonno – divertimento/felicità). Dio è “il di più”. Per questo per qualcuno “il di più” avanza. Se invece lo scegli quel “di più” diventa la qualità alta della vita.
La parola “godere”
La parola “godere” ricorre 17 volte nel libro, abbinata spesso al verbo tipico di Qoelet che è “vedere” ma nel suo significato più positivo: è un metter a fuoco per scoprire la realtà nella sua sostanziale positività nonostante le apparenze, le fatiche, le delusioni, così da imparare a gustare la vita (2,1). Quante volte noi “guardiamo” la realtà, ma non siamo capaci di “vedere”. Il “faticare e lavorare” è presente 34 volte in Qoelet ed ha valore come mezzo per la felicità.
Il libro si apre con la constatazione del vuoto di ogni azione e realtà (1,3-11) ma si chiude con un canto al godimento nei limiti del possibile (11,9-12,7): “meglio occhi che vedono piuttosto che vaghi desideri”, “la felicità del presente è dono che viene dalla mano divina”. Per Qoelet la gioia è l’imperativo categorico di Dio per l’uomo, ma non in senso anemico o spiritualistico bensì proprio come esperienza concreta, tangibile e corposa che si manifesta nel vivere bene la vita, nell’attività mentale, nella contemplazione della natura e nei piaceri dell’amore. La realtà è vuota, ma è preziosa e va goduta nella misura in cui non solo è dono di Dio, ma molto di più in quanto Dio ci entra dentro nella storia dell’uomo e la rende bella, preziosa e gustabile. Dice San Paolo “noi abbiamo un tesoro custodito in vasi di creta”, fragili e a volte crepati.
Questa adesione al progetto di Dio parte dal “timore” di lui (3,14) fonte della vera religiosità qoeletica. Di Dio non si deve aver paura, ma bisogna avere timore. Il santo timore di Dio, uno dei sette doni dello Spirito Santo. È il timore dell’innamorato che ha paura di inquinare con una parola sbagliata, è il timore della mamma se il bambino non sta bene, è il timore di sciupare qualcosa di delicato o di rovinare qualcosa di prezioso, è il timore delle vertigini davanti a qualcosa di stupendo.
L’insoddisfazione
Gli occhi di Qoelet si fissano su un mondo in cui l’insoddisfazione è il pane dell’esistenza e tutto è relativo, mediocre, scontato. “Tutto è hebel, vuoto, vanità”. Quanto è estremamente moderno. Si inoltra in un mondo impastato di vuoto, di assurdo, di apparenza, di mediocrità, di fatuità, di frustrazione, fatto di larve inconsistenti che riescono qua e là solo ad afferrare qualche piccolo godimento. Sembra che Qoelet più di 2000 anni fa avesse già in mano il telecomando della nostra televisione. “Quando il sole della cultura è basso, i nani hanno l’aspetto di giganti” (Karl Klaus). Al massimo si arriva alla constatazione del Dalai Lama: “Se una situazione non si può cambiare, non c’è motivo di preoccuparsi, così se si può cambiare, non c’è motivo di preoccuparsi”.
Dio si incarna nella storia e nelle storie dell’uomo, quindi anche nella sofferenza, ansia, persino nel dubbio. Anche nella crisi, nel silenzio di Dio, nella percezione della sua lontananza o assenza, nella sfida radicale del dolore si può nascondere la sua presenza. Lo viviamo nella nostra realtà: ti accorgi di quanto vuoi bene una persona o di quanto è importante per te più nel momento in cui non c’è e ti manca, che non quando ce l’hai accanto ogni giorno. Così la rivelazione passa anche attraverso le oscurità di un uomo come Qoelet in ricerca sconsolata, in crisi, sulla frontiera dello scoraggiamento.
Questa dimensione spirituale di sguardo sulla vita non è solo “personale” ma è anche “sociale”. La Lettera a Diogneto è un breve scritto in greco, che un ignoto cristiano dei padri apostolici nella prima metà del II° secolo rivolge a un amico per spiegare la “nuova” fede cristiana. “I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini per consuetudini di vita. Pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e per ammissione di tutti incredibile: abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri, ma come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Amano fare comunione fra loro. Vivono nel corpo, ma non secondo il corpo. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono superiori alle leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono poveri, ma arricchiscono molti. Mancano di ogni cosa, ma trovano tutto in sovrabbondanza. Trattati con disprezzo e ricambiano con l’onore. In una parola, i cristiani sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo. Sono sparsi nelle città del mondo, ma non sono del mondo”.
Per approfondire
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