Restò seppellito per trent’anni in una piccola famiglia ebrea, in un piccolo villaggio popolato da gente qualunque. Poi Gli bastò un breve starnuto di anni – tre anni, per la cronaca – per appiccicare il fuoco sulla terra, premettendo che in Figlio dell’Uomo era per questo ch’era nato al mondo: per incendiarlo. Cos’altro può desiderare, dunque, se non che arda il più possibile? Per trent’anni, però, si mise pacifico a fissare il mondo, a imparare come andasse il mondo che si era trovato ad abitare. Trent’anni di seppellimento a Nazareth, in una famiglia, nella più feriale delle stagioni, tra le burla degli amici, le raccomandazioni di nonna e le piccole beghe paesane. Furono anni di pazienza, furono gli anni della grande pazienza: «Quanta pazienza, prima di tale impazienza! Quale lentezza prima di tanta fretta! Quale immobilità prima della corsa sfrenata dal battesimo di Giovanni all’agonia, alla flagellazione, agli sputi, alla morte ignominiosa» (F. Mauriac). Marco, evangelista di poche parole, questi trent’anni e passa li salta alla grande nel suo racconto. Quasi a dirci: “Volete sapere com’è nata la storia di quest’Uomo? Andate a leggervi quello che hanno scritto Matteo, Luca: la sua genealogia carnale, l’episodio dell’annunciazione, la serie del censimento – nascita – adorazione, quant’altro”. Marco, il suo Gesù ce lo fa incontrare che ha compiuto i suoi trent’anni, ha chiuso bottega, salutato la Madre e si è messo in proprio. Lo becca nel momento della sua accelerazione massima: dal fiume alla croce, zigzagando tra cantonate, carezze e fraintendimenti vari.
La prima foto
La prima foto che lo ritrae è uno da scoop di copertina, come quando una persona famosa viene pizzicata mentre sta compiendo la cosa più feriale: “L’hai vista? Anche lei va al supermercato, a far la spesa!” Questo, quando s’è sparsa la voce, dev’essere stato il rinculo del pensiero fatto dai molti ai quali l’acqua del Giordano giungeva alle ginocchia: «Gesù – scrive l’evangelista Marco – venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni». Si immischiò alla folla che, quel giorno, era accorsa per farsi sciacquar il capo da quell’uomo che tutti additavano come strano, un po’ folle, naif per i gusto di chi andava alla sinanoga. Poi, all’improvviso, puff!: appare Lui. Lui che avrebbe tutto il diritto di esibire i titoli, decide di mettersi in fila indiana come tutti, invece che fare come i portoghesi (e gli italiani): invece che bruciare la fila, infoltisce la fila. Invece che mostrare la fascia del capitano, entra in campo assieme a quelli che sederanno in panchina. È così anonimo, il Cristo dentro il Giordano, che la gente appresso lo urta senza vederlo, ci passa accanto senza riconoscerlo, ci sgomita come un uomo qualisasi. Trent’anni prima, eravamo a Betlemme, il Verbo si fece carne e i giornalisti del tempo non ne hanno saputo nulla. Nel Giordano, dopo trent’anni, va in onda la replica di quella disattenzione: la spaventosa semplicità di Dio non permette all’uomo di riconoscere come Dio quell’Uomo ch’è in fila accanto a lui.
La distanza di sicurezza
L’Uomo venuto al mondo per salvare il mondo intero, entra in scena senza avvalersi della “distanza di sicurezza” che spetta agli onorevoli. Rifiutandola, è chiara la sua convinzione in materia: “Invoca la distanza di sicurezza solamente chi è insicuro di sé. La loro, dunque, è la distanza d’insicurezza”. Lui, invece, si mette gomito a gomito coi luridi, confonde il fiato con quello dei bevitori, mette i piedi nella stessa acqua di porcogiuda. Insomma: se voleva salvare il mondo, la sola possibilità che avesse era quella di sbloccare il mondo. Per sbloccarlo, però, doveva andarci dentro fino al collo, introdurre il più grande disordine mai visto prima per mettere le fondamenta al più grande ordine mai visto. Quando lo vide abbassarsi così in basso, al Padre non restò che complimentarsi: «Tu sei il mio figlio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». Non possiamo sapere nulla delle vite altrui finchè non mettiamo un piede dentro. Rischiando la faccia. (Sulla strada di Emmaus).