Non c’è nulla di sbagliato nelle persone che possiedono ricchezze: ci sono amici del Cristo, nei Vangeli, che a guardare la loro dichiarazione dei redditi non si può che restare a bocca aperta: Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo su tutti. Lo sbaglio – sul quale Cristo tenta di mettere sull’attenti – è quando le ricchezze si impossessano delle persone. Ancor di più: quando le persone si impossessano delle persone: «Sei mio: nessuno ti tocchi! Sei mia: che nessuno osi anche solo avvicinarti con lo sguardo!» Il mondo, questo sentimento, si ostina a chiamarlo amore, confondendo l’appartenersi con il possedersi.
Per Cristo, invece, amare è sapere d’appartenersi: appartenersi talmente a fondo da non nutrire il minimo istinto di possesso perchè non ce bisogno: “Inutile essere possessivi in amore – pare dire Cristo all’uditorio -, «quando Giuda fu uscito dal cenacolo» -: il cuore dell’altro lo avremo sempre, solo in prestito.
Lì, nel cenacolo, proprio nell’attimo in cui Giuda si ustionò giocando coi fili ad altissima tensione dell’amore del suo Amico, Cristo ne approfittò per stilare – usando come notaio la disposizione del cuore di quegli Undici amici disorientati – il suo testamento. Poche parole, nette e definitive: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri». Poi, perchè nessuno osasse chiedere: “Praticamente? Potresti farci un esempio sul come amarci?”, il Cristo appena tradito abbozzò anche le misure di quell’amore: «Come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri». Non c’è nulla, nella vita di una persona, di più poetico di un testamento abbozzato quand’è ancora in vita.
Ha usato ogni spazio dei Vangeli, compresi i silenzi, il Cristo per chiarire agli amici che si può dare senza amare, ma non si può amare senza dare: che se ti aspetti sempre qualcosa in cambio, quello non è un gesto d’amore ma una operazione di baratto.
Mentre stilava l’eredità, manteneva forse l’occhio verso la porta dalla quale uscì Giuda. Glielo si leggeva nei suoi occhi di padre ciò che avrebbe voluto rivelare agli amici, ma lo tacque perchè lo capisse solamente chi era pronto a provare disgusto oltremisura: “Non c’è esperienza più consolante nella vita, amici, di ritrovarsi un giorno ad amare chi avremmo giurato di non riuscire ad amare più”.
L’altro amore, quello mondano, è insidioso per il Cristo: ingannevole come può essere, a volte, la gentilezza di una commessa al centro commerciale. Menzognero al punto, una volta che l’amore s’è impossessato del cuore, da scolparsi: «L’ho uccisa perchè l’amavo». E il mondo, per scrollarsi di dosso la responsabilità d’aver aiutato nel confondere l’amore con il possesso, lo derubrica il prima possibile: “Delitto passionale”.
Cristo non ci sta a ragionare così, ad amare così: l’amore non insisterà mai, non tirerà la giacca, non tratterrà controvoglia. Quello che avrà da dire, lo dirà senza fare rumore, senza chiudere la porta a chiave. Cose semplici: piedi da lavare, pianti da asciugare, ferite alle quali legarsi come segno d’appartenenza. Cose semplici, così semplici che son cose che continuano a fare battere il cuore, quando le si saprà riconoscere.
L’amore, nei Vangeli, è l’ultima chiesa aperta di giorno e di notte. Il volto di chi ama è una chiesetta aperta in piena campagna: la riconosci da quella lucina che, nel buio del podere, diventa una sorta di ostello per il camminatore stanco. Questo, per il Gesù appena tradito, potranno diventare gli amici suoi, seppure con il rischio d’avere cuori bucati come stracci: punti panoramici sul Paradiso. Detto con le sue parole: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Se, in caso di emergenza come sul Calvario, saremo capaci di offrire la nostra vita al posto di altri: come Massimiliano Kolbe, Gianna Beretta Molla, Maria Cristina Mocellin. Come Lui, d’altronde che, tra tutti, rimase il più certo che l’amore donato sopravviverà a chi lo provoca. Da questo ci riconosceranno come suoi. Anche il contrario: senza questo, non ci riconosceranno come suoi.