È interessante notare, innanzitutto, come San Francesco d’Assisi, se considerato «fondatore» di una famiglia religiosa, rispetto alla brevità della sua esistenza terrena e all’intensità del suo apostolato, in maniera inversamente proporzionale ci abbia lasciato una quantità significativa di Scritti, indirizzati ai destinatari tra i più disparati. Non di meno, balza subito agli occhi la convinzione che, per Francesco, sia stato Dio stesso ad aver voluto la comunità dei frati minori, come risulta dalla sincera ammissione «il Signore mi dette dei fratelli»[1]. È oramai un dato assodato nella storiografia francescana che, se da una parte il Poverello di Assisi ha desiderato fino ai limiti del consentito di vivere il Vangelo alla lettera nellaChiesa, per raggiungere questo scopo non ha mai pensato di ricorrere alla fondazione di un gruppo intraecclesiale, attuando – per così dire – una leadership accesa da un’intuizione propria[2]. Al contrario, come accennato, il Poverello si è trovato «a far fronte» alle richieste di altri giovani uomini – e com’è risaputo – donne, che gli chiesero di poter vivere con lo stesso stile di vita. Con altrettanta precisione storica, si deve sottolineare, poi, che due tra i primi «tre compagni» di Francesco, Bernardo da Quintavalle († 1241) e Pietro Cattani (1180-1221), erano già presbiteri con funzioni di responsabilità nelle loro chiese, ai quali si aggiunse anche il semplice Egidio, non sacerdote. Pertanto – e a scanso di equivoci – deve essere fin da queste prime battute chiaro il fatto che dall’inizio i primi seguaci di Francesco d’Assisi erano sia sacerdoti sia semplici laici battezzati e che Francesco volle chiamare e considerare indistintamente «frati». Questo è esattamente il DNA epigenetico dell’Ordine dei Frati Minori.
Le discussioni all’interno del mondo francescano
Le successive, attuali o future discussioni, all’interno e al di fuori del mondo francescano, che volessero attribuire al figlio di Pietro di Bernardone, San Francesco, la volontà di aver voluto fondare un Ordine di «fratelli laici» oppure un «Ordine misto», se formulate con questa pre–fissata nomenclatura vanno valutate e ponderate con molta cautela, perché, chi lo fa, rischia di collocarsi sull’orlo di un duplice precipizio: o si interpreta la mens di Francesco con lo sviluppo storico ulteriore e successivo occorso all’Ordine dei Frati Minori, che pure ha avuto una certa clericalizzazione, attribuendo al Poverello eziologie motivazionali alle quali, egli, forse non ha mai pensato – ma questo sarebbe un indebito processo di retroproiezione –, o si cancella con un colpo di spugna tutto il tessuto di storia e santità fiorito dall’albero francescano con un presunto ritorno alle origini di una storia che è stata e che va riconosciuta, operazione che non si potrebbe nemmeno pensare di attuare, per esempio, con la storia della Chiesa, cancellando duemila anni di cristianesimo. Impostata così, ovviamente, la questione del sacerdozio francescano è viziata di un errore metodologico – o «di forma», che potrebbe risultare anche pregiudiziale, portando addirittura a dei fraintendimenti sulla collocazione della vita consacrata all’interno della Chiesa[3] e, quindi, sul suo ruolo essenziale per la vita e la santità della Sposa di Cristo.
Sembra, invece, che il modo più consono e rispettoso per affrontare questa situazione sia quello di attuare una sorta di analisi storica e fenomenologica delle origini a partire – come abbiamo detto – dagli Scritti stessi di Francesco, accorgendosi fin da subito come ai frati «donati» dal Signore, il Poverello avesse indicato l’unico criterio valido che rendere credibile – anche oggi – il francescanesimo in quanto tale, ossia la fraternitas minoritica. Sacerdoti o non sacerdoti, i membri del nuovo gruppo ecclesiale dovevano «sentirsi tra loro fratelli». Tutto il resto, sarebbe stata una conseguenza, per così dire, «a grappolo» di questa primigenia rivelazione da parte di Dio.
La Regola: tutti i frati s(ia)ono tra loro uguali
Abbiamo, dunque, inteso che a tutti i sacerdoti che entravano nella fraternitas Francesco chiedesse di accettare l’uguaglianza con gli altri frati, rivestendosi, come tutti, dell’umiltà di Cristo. La minorità era una pratica quotidiana per dei sacerdoti della primitiva fraternità. Entrare nell’Ordine significava anzitutto rinunciare alle chiese e alle prebende annesse al servizio liturgico. Poiché i frati che non svolgevano una forma qualificata di artigianato dovevano andare alla questua o prestare servizi nelle case dei privati o nei campi dei contadini o nei lebbrosari, è legittimo pensare che i sacerdoti – almeno all’inizio – dal punto di vista del lavoro rientrassero nella seconda categoria. E, infatti, guardando alla loro biografia, morirono piuttosto giovani rispetto agli altri «frati». In una fase successiva, la Regola non bollata presenta Francesco che si rivolge a tutti i suoi frati: «Per cui scongiuro, nella carità che è Dio, tutti i miei frati occupati nella predicazione, nell’orazione, nel lavoro, sia chierici che laici, che cerchino di umiliarsi in tutte le cose»[4]. Emergono così tre gruppi di frati, specificati per l’occupazione (predicazione, orazione, lavoro), ma aperti a tutti, senza distinzione dovuta all’ordine sacro.
La fraternità è, insomma, la novità dell’esperienza francescana. Francesco gusta il sapore di ricevere in dono dei fratelli e così nel suo Testamento rievoca il momento fondativo: «E dopo che il Signore mi dette dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò»[5]. La fraternità è il luogo in cui vivere il Vangelo nell’assoluta uguaglianza dei figli di Dio, poiché, senza differenze, esprime con evidenza luminosa l’amore del Padre verso ognuno dei suoi figli. Non a caso, la fraternitas è una visione che Francesco estende a tutte le creature, come documenta il Cantico di Frate Sole, in cui il termine fratello e sorella è applicato ai quattro elementi costitutivi del cosmo – terra, aria, acqua, fuoco – e alla stessa morte.
Quanto alla minorità, nella Regola non bollata, al capitolo VII, trova origine l’espressione minores et subditi:
tutti i fratelli, in qualunque luogo si trovino a servire o a lavorare presso altri, non siano tesorieri né cancellieri, né siano a capo nelle case in cui servono, né accettino alcun altro ufficio che crei scandalo o arrechi danno alla loro anima, ma siano minori e sudditi di tutti quelli che sono in quella stessa casa[6].
Ciò che il termine «minores» poteva lasciare ancora incerto, viene decisamente chiarito con l’aggiunta del termine «subditi»: i frati dovevano sottomettersi a tutti, non appartenendo a nessuna «classe» se non a quella della fraternità, come a loro primo e precipuo gheriglio di uguaglianza.
[1] Francesco d’Assisi, Testamento, n. 14, FF 116.
[2] Cfr. G. Pasquale, San Francesco d’Assisi. Un principio senza fine, (Mane Nobiscum 16), Lateran University Press, Città del Vaticano 2009, pp. 128-139.
[3] Cfr. G. Pasquale, I religiosi e la Chiesa locale. Tra esenzione e giusta autonomia, (Vita Consacrata 12), Àncora, Milano 2015, pp. 98-119.
[4] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVII, n. 5, FF 47.
[5] Francesco d’Assisi, Testamento, n. 14, FF 116.
[6] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, cap. VII, nn. 1-2, FF 24.