Un fenomeno in cui siamo immersi non è affatto nuovo. Il vero problema è esattamente il rapporto tra il cristianesimo e la storia, nella quale si rivela il Gesù storico che è il Cristo della fede[1]. Quella sola storia, peraltro che noi possiamo indagare. Infatti, per la teologia – che è la scienza della fede – i problemi sollevati da opere quali il Codice da Vinci o Inchiesta su Gesù non sono affatto nuovi, anzi[2]. E sono tutti risolvibili in questo assunto: il cristianesimo ha una pretesa estrema che, superando ogni alchimia storica e ogni confessione religiosa, dice che Dio non soltanto si è reso palpabile nella storia, ma è diventato carne in un essere esistente nella storia, perfettamente circoscrivibile e misurabile in quell’uomo di trentatré anni che è (stato) Gesù di Nazareth detto il Cristo. Espresso in termini ancora più sintetici: tutto ruota attorno al verbo «è»; soltanto che si tratta di scegliere se partire da «Gesù è il Cristo» (Mt 16,16), oppure «è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato (1Tm 6,13). Da questa prospettiva, dicevamo che la questione non è affatto nuova. Vediamone brevemente i vari passaggi procedendo con ordine attorno al binomio di “storia e fede”[3].
La storia
Già nel 1563 usciva postumo a Salamanca il celeberrimo De loci theologicis[4] di Melchior Cano (1509-1560). Il perspicuo teologo spagnolo si accorse che, per non far entrare in rotta di collisione storia e fede, che sulla storia si appoggia, la storia doveva essere collocata tra i luoghi alieni[5] atti a creare teologia, anche se con “alieno” il teologo salamanticense intendeva, appunto, alienum, alterum, ciò che oggi si potrebbe tradurre con l’“altro per me”, l’interlocutore privilegiato appunto: quindi l’esatto contrario di alieno. Quasi due secoli dopo, G.E. Lessing (1729-1781) nella famosa lettera del 1777 scritta al teologo di Hannover J.D. Schumann poneva a se stesso e al suo interlocutore la famosa domanda di come fosse possibile che verità storiche casuali potessero assurgere a diventare prova per verità razionali e necessarie[6]. In altre parole Lessing scavava il famoso e profondo “fossato” tra la particolarità storica di Gesù – per esempio il fatto che fosse ebreo – e la sua pretesa assoluta di essere il salvatore di tutte le etnie in ogni secolo. I due, però, che hanno messo compiutamente a fuoco la problematica sono stati Ernst Troeltsch (1865-1923) e Mircea Eliade (1907-1986)[7]. Il primo, in particolare, si era sufficientemente accorto che abbinare alla fede una metodologia di indagine storica non appropriata – quali potrebbero essere certe inchieste – avrebbe «relativizzato tutto e tutti»[8]. L’assunzione acritica di un qualsiasi metodo storico applicato alla fede corrisponderebbe – afferma Troeltsch – a «mettere del lievito che tutto trasforma»[9] all’interno della fede stessa, evidentemente senza più il controllo della traditio Ecclesiae. Sarebbe sufficiente solo questa ricostruzione per ribattere sia al Codice da Vinci che all’Inchiesta su Gesù attraverso la mera constatazione che nulla di nuovo si muove sotto il sole. Ma arriviamo – come abbiamo anticipato – a Joseph Ratzinger.
La tesi di Ratzinger
Fin dalla famosa tesi per il dottorato in teologia, nel 1955[10], il ventottenne teologo bavarese si accorse che per la riflessione cattolica non è sempre risultato indolore il confronto con le figure artificiose ricavate dalla ricostruzione storica sul Gesù storico ex-post, quella che accade in un secondo tempo rispetto alla fede della Chiesa nel Cristo pasquale. Probabilmente anche a Ratzinger era giunta l’eco di quella famosa conferenza che Schillebeeckx (1904-2009) tenne a Bruxelles due anni prima (1953) proprio sulle “ferite” inferte dalla storia alla teologia, eco che trovò terreno fertile nella dettagliata ricerca sulla visione della storia in San Bonaventura (1217-1274), come è stato detto recentemente pubblicata per intero. Ratzinger, senza dubbio, era convinto che la storia risultasse mediatrice verso l’essenziale contenuto della fede e, pertanto, necessaria. Tuttavia, essendo pericoloso il metodo con il quale ci si poteva servire di essa, rimaneva aperto il problema dell’«è» presente nel Credo, che, infatti, permane ancorato sui concretissimi dati storici. Arriviamo, così, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso dove ritroviamo un Ratzinger, per così dire, ancora “indeciso”: se è vero che vale nella teologia il prae dell’agire divino, che la fede in una actio Dei precorre ogni altra enunciazione, allora è messo in evidenza il primato della storia sulla metafisica. […] Ciò dimostra ancora una volta che Dio ha potere sul tempo, e che il suo essere non ci diviene accessibile che attraverso il suo agire. […] Di questo si deve innanzitutto parlare, prima che dell’uomo, del suo peccato e della sua ricerca del Dio di grazia[11].
Il primo articolo di fede
Ciò nonostante, qualche pagina dopo correggeva il tiro dicendo che: io oggi insisterei più di quanto s’è fatto qui, di fronte all’importanza fondamentale dell’«è», sull’insostituibilità e la posizione primaria dell’ontologico e quindi della metafisica come fondamento di qualsiasi storia. […] Il fatto che il primo articolo di fede costituisca il fondamento di tutta la fede cristiana, implica teologicamente il carattere fondamentale delle affermazioni ontologiche e l’impossibilità di rinunciare all’elemento metafisico, cioè al Dio creatore che precede ogni divenire[12]. Questa puntualizzazione risulta fondamentale perché costituisce il segnavia del nostro intervento. Nella sua poderosa ricerca su san Bonaventura, Ratzinger aveva dimostrato che il Dottore serafico, nella progressiva interpretazione della sacra scrittura come rivelazione, avesse fatto notare a Gioacchino da Fiore (1130-1202) che l’“essere Gesù” non era fuori dalla storia, ma dentro la storia, precisamente quella della Chiesa. Ma lo sappiamo anche noi: proprio perché l’essere si dice in molti modi, non esiste l’umanità, bensì questo uomo e questa donna. Rimanendo sullo stesso registro, lo «è» risorto dai morti contiene e salvaguarda il «passus est» sotto Ponzio Pilato. Non si deve ricorrere a Hans Georg Gadamer (1900-2002)[13] per ribadire che, solo nella misura in cui lo si tramanda, un fatto evita di implodere nella sua consistenza storica e, quindi, di polverizzarsi nel nulla. Lo diciamo in altri termini: l’«è» della risurrezione dà consistenza agli «e» della storia o, espresso in termini più teologici, nella nostra biografia vi sono soltanto «e» congiuntivi, mentre solamente Dio, invece, «è». Qui i filosofi, a ragione, parlano della differenza inaudita che esiste tra il sabato mattina e il sabato pomeriggio, preludio dell’ottavo giorno della settimana[14]. Ecco, i tre thrillers di Dan Brown e altre biografie di questo genere sono un insieme giustapposto di «e» come la nostra povera esistenza – se considerata dal mero orizzonte del suo incessante transitare. E tali biografie sono come il continuo oscillare di un pendolo tra Gesù e il Cristo, dimentiche, però, che non esiste l’uno (Gesù) senza l’altro (Cristo) e che, in realtà, Gesù sussiste («è») soltanto come il Cristo e il Cristo in nessun (null’) altro fuorché in Gesù. Rimane chiaro che se il pendolo, nel suo oscillare, indugia a sostare soltanto sotto il versante “storia di Gesù”, si rischia di riempire la figura di Gesù di artificiosi particolari degni di essere, poi e soltanto, sceneggiati nelle sale cinematografiche. Queste biografie, in realtà, hanno compresso in Gesù tutti gli «e» congiuntivi che si potevano inserire, dimenticando, però, che l’«è» vero di quel Gesù è dall’altra parte del movimento pendolare, ossia nella sezione illuminata dalla Chiesa, la sola che lo ho perfettamente fotografato come il vivente quando lo confessò: «è risorto» (Lc 24,6). In realtà – e questo deve essere detto – il continuo ricorso di questi romanzi a Codici segreti conservati nelle “stanze” della Chiesa, spezza paradossalmente una lancia a favore della nostra dimostrazione, perché denuncia in essi la presenza di uno stigma ecclesiale, comunque mai venuto meno. Dettaglio interessante che riprenderemo alla fine.
Immagini di Gesù e modelli cristologici
È forse superfluo far notare, di passaggio, che il fil rouge del nostro problema, ovvero se il cristianesimo abbia o meno tradito Gesù, sia intessuto dal e sul fantasma bultmanniano[15]. Per questo, osservare come la questione che ci sta a cuore non sia soltanto nuova, ma abbia trovato soluzione in alcuni modelli cristologici pregressi e attuali ci aiuta, ancor di più, ad avviarci verso una proposta risolutiva finale. Essendo impossibile – in ogni caso – passarli tutti in rassegna, mi limiterò a riprendere quelli che fanno al caso nostro, tentando altresì di estrapolare alcuni elementi di novità che sporgono proprio perché provenienti da una rilettura attuata nel secolo XXI, appunto quello del neo “romanticismo cristiano”. E tra tutti, vorrei già anticipare il primo, che è questo: un modello cristologico è adeguato a offrirci un’immagine di Gesù, che non sia neoromantica, quando tiene tra loro uniti e assieme passato, presente e futuro della storia della salvezza. Iniziamo con Tommaso d’Aquino: Come sappiamo, il modello cristologico del Dottore Angelico è fortemente ancorato all’Antico Testamento, deponendo, quindi, a favore di un legame ad eventi storici assai più certi di una qualsiasi fonte documentaria: Gesù Cristo, infatti, non può essere interpretato come l’Uomo-Dio prodotto necessariamente da un meccanismo della storia la cui operatività si sarebbe sbloccata grazie all’influenza e al senso dominante degli avvenimenti a lui precedenti; d’altro canto, secondo l’Aquinate non si può nemmeno interpretare l’individualità storica e il carattere unico del Gesù come l’irruzione di qualche cosa di completamente nuovo senza alcun rapporto con nulla. Il legame tra Gesù e l’Antico Testamento è, in questo senso, emblematico poiché egli non ha soltanto interpretato l’alleanza antica, ma si è auto-interpretato egli stesso mediante il riferimento alla storia che essa narrava[16]. Sembra, qui, di risentire quanto Benedetto XVI scrisse nel suo penultimo Gesù di Nazaret: «Tutte le […] espressioni di Gesù dimostrano il suo profondo radicamento nella parola di Dio, la Bibbia di Israele, l’Antico Testamento. Tutte queste espressioni, comunque, ricevono il loro significato pieno solo in Lui; hanno, per così dire, atteso lui»[17]. Contemporaneo e collega del teologo domenicano all’Università di Parigi è il francescano san Bonaventura. Nella teologia cattolica egli inserisce definitivamente la risposta scotista che vede già nell’incarnazione del Logos divino la suprema auto-partecipazione di Dio, storica e irrevocabile, alla realtà divina da lui creata. Come Tommaso, Bonaventura concorda che il momento decisivo, l’autentico Rubicone dell’incarnazione, viene in primo luogo varcato dal passaggio dall’animale al “lógos”, dalla mera vita allo spirito, cosa che avviene, appunto, con la creazione dell’uomo e della donna. Dato questo presupposto, la teologia dovrà sempre e comunque rifarsi, anche nei secoli a venire, sia al Dottore Angelico che a quello Serafico. Sennonché quest’ultimo è convinto che la perfetta incarnazione dell’uomo presuppone l’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo; unicamente in essa, infatti, il Rubicone che divide l’elemento “animale” da quello “logico” risulta definitivamente superato[18]. Un teologo francescano, infatti, insegnerà sempre ai suoi alunni che quando nasce un qualsiasi bambino, in lui Dio Padre contempla l’iride degli occhi dell’uomo storico Gesù – indipendentemente dai tempi e dai luoghi, come ratifica peraltro Gaudium et Spes 22[19].
Il secondo scenario
[1] Prima di addentrarmi in questo secondo scenario assai affascinante, mi sia consentito un breve cenno biografico che darà ragione di quanto verrò a dire. Nel 1998 mi trovavo a Roma e dovevo portare a termine un impegnativo lavoro sulla teologia della storia in San Bonaventura, come Assistente nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana (1999-2001). Da tre anni avevo studiato, fin nei minimi particolari, la tesi di abilitazione per l’insegnamento della teologia di Joseph Ratzinger (*1927), sapendo, però, che buona parte gli era stata cassata dal Moderatore il Prof. Michael Schmaus (1897-1993), facendo dire a Ratzinger «tutto un mondo minacciava di crollarmi addosso» (cf nota n. 31). Desideravo, quindi, prendere visione del manoscritto per avere una visione globale di quanto mi interessava. Grazie all’amico Mons. Georg Gänswein (*1956) – allora “soltanto” officiale presso l’ex Sant’Uffizio – venni a conoscenza del fatto che il Cardinale Ratzinger conservava quei fogli nel cassetto del comodino, tanto fu grande lo smacco di quarant’anni prima, e che aveva ancora in serbo l’intento di pubblicarli. Evidentemente, l’elezione del 2005 fece svanire le mie speranze. Sennonché una mia recensione (G. Pasquale, La salvezza si appoggia alla storia. Una lettura teologica del libro di J. Ratzinger, San Bonaventura, «Il Santo» 48 (2008) pp. 499-519) alla nuova edizione italiana di quella dissertazione di due anni fa (Cf J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, a cura di Mauro Letterio, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG) 2008) cadde nelle mani della Prof.ssa Marianne Schlosser (*1960) di Vienna, la quale assieme al vescovo Ludwig Gerhard Müller (*1947), com’è risaputo, sta pubblicando, per i tipi della Herder, l’intera Opera Omnia di Benedetto XVI (J. Ratzinger, Teologia della liturgia: la fondazione sacramentale dell‘esistenza cristiana, (Opera Omnia 1), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010). Proprio all’inizio di Luglio del 2010 mi raggiunse un invito, del tutto inaspettato, della Professoressa Schlosser a riprendere le mie ricerche, ricevendo io in pegno, e in anteprima, il II volume dell’Opera Omnia, adesso con quel manoscritto pubblicato, unitamente alla sorpresa, però, che dovevo cimentarmi con le 912 pagine in tedesco (J. Ratzinger, Offenbarungsveständnis und Geschitstheologie Bonaventuras. Habilitationsschrift und Bonaventura-Studien, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2009), rispetto alle 253 in italiano, lavoro che ha occupato l’intera estate del 2010. Ciò che segue è, in buona parte frutto di questa ricerca, frutto che sta in perfetta equazione con il nostro tema.
[2] Vi è, infatti, un’altra letteratura esegetica molto seria e documentata che istanzia la tesi classica sulla storicità di Gesù, come l’ottimo studio di M.-L. Rigato, I.N.R.I. Il titolo della Croce, Edizioni Dehoniane, Bologna 2010.
[3] Cf J.B. Metz, La fede, nella storia e nella società. Studi per una teologia fondamentale pratica, Queriniana, Brescia 1978, pp. 216-219.
[4] Cf B. Körner, Melchior Cano. De locis theologicis: ein Beitrag zur Theologischen Erkenntnislehre, Styria, Graz 1994.
[5] Cf Melchior Cano, De historiae humanae auctoritate quae postremo loco est posita, in Melchioris Cani opera, II, Romae 1890, pp. 171-272.
[6] Cf G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, in R. Gosche, ed., Lessing’s sämmtliche Werke, VII, Grote, Belin 1882, p. 273.
[7] Cf M. Eliade, Ewige Bilder und Sinnbilder: vom unvergänglichen menschlichen Seelenraum, Übertragen von Theodor Sapper, Walter-Verlag, Freiburg im Breisgau 1958, pp. 181-190; Id., Das Heilige und das Profane. Vom Wesen des Religiösen, Rowohl, Hamburg 1957, pp. 132-141.
[8] E. Troeltsch, Zur religiösen Lage. Religionsphilosophie und Ethik, in Id., Gesammelte Scriften, II, Mohr, Tübingen 1922, pp. 730.735.
[9] E. Troeltsch, Zur religiösen Lage, p. 738.
[10] Si tratta dell’ultima parte della Habilitationsschrift (J. Ratzinger, Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura, Schnell & Steiner, München 1959) respinta da Michael Schmaus (1897-1994), come ci ricorda lo stesso J. Raztinger, La mia vita. Ricordi (1927-1977), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997, pp. 70-71: «A quel tempo nessuno di noi immaginava quali nubi temporalesche si addensassero su di me. Gottlieb Söhngen aveva letto subito con entusiasmo la mia tesi di abilitazione, citandola più volte anche a lezione. Il professor Schmaus, che era il mio correlatore, a causa dei suoi numerosi impegni la lasciò da parte per un paio di mesi. […] Nel corso del convegno di Königstein Schmaus mi chiamò per un breve colloquio, in cui in maniera piuttosto fredda e senza alcuna emozione mi dichiarò che doveva ricusare il mio lavoro di abilitazione, perché non rispondeva ai criteri di rigore scientifico richiesti per opere di quel genere. Aggiunse che i particolari mi sarebbero stati resi noti dopo la decisione del consiglio di facoltà. Era come se mi avesse colpito un fulmine a ciel sereno. Tutto un mondo minacciava di crollarmi addosso».
[11] J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, Morcelliana, Brescia 1986, pp. 137-138.
[12] J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, p. 143.
[13] Cf H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 20012 pp. 364-369.
[14] Cf P. Coda, Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Città Nuova, Roma 2003, pp. 153-157.
[15] Cf C. Dotolo, Gesù di Nazaret: il problema storico e la fede cristiana, Edizioni Dehoniane, Bologna 1990, pp. 99-102.
[16] Utilizzo qui l’analisi dei testi dell’Aquinate di Max Seckler (*1927), il quale si pone dialetticamente a confronto sia con la posizione di K. Rahner, sia con la prospettiva di H.U. von Balthasar. Mentre con il primo si trova in sintonia per quanto riguarda l’analitica esistenziale sulla storicità di Gesù Cristo, pare, invece, non condividere appieno le affermazioni circa l’intuizione sul processo di ominizzazione. Quanto al secondo afferma che soltanto con grande cautela si può pensare all’Antico Testamento come a una «biografia di Gesù» raccontatagli solo successivamente, anche se con Balthasar le prese di distanza sono minime. Il problema, insomma, può essere illuminato mediante la seguente formulazione di Seckler: «Nachdem der Verheißene gekommen war und nachdem die Entscheidung gefallen war, konnte gesagt werden: mußte nicht alles so kommen? Aber ehe das universale concretum die Fronten geklärt hatte, konnte keiner sagen: so und so muß es kommen. Mit Recht widerspricht deshalb die alttestamentliche Forschung jeder Typologie, die mit historisch-kritischem Anspruch auftritt»; M. Seckler, Das Heil in der Geschichte. Geschichtstheologisches Denken bei Thomas von Aquin, Kösel, München 1964, p. 213. Cf anche H.U. von Balthasar, Teologia della storia. Abbozzo, Morcelliana, Brescia 1964, p. 42, e K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Edizioni Paoline, Alba (CN) 19905, pp. 121-124; Id., Der eine Mittler und die Vielfalt der Vermittlungen, in Id., Schriften zur Theologie, VIII, Benziger Verlag, Einsiedeln-Zürich-Köln 1967, pp. 218-235, qui pp. 231-232.
[17] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, edizione italiana a cura di Ingrid Stampa e Elio Guerriero, Rizzoli, Milano 2007, p. 404, con mie sottolineature.
[18] Cf J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 19714, p. 186.
[19] Cf G. Pasquale, Sull’unicità della persona di Gesù Cristo. Un saggio di grammatica teologica, «Carthaginensia» 24 (2008) n. 45, pp. 25-46.