Nella primavera del 2009, la prestigiosa Rivista dei Gesuiti di Monaco di Baviera «Stimmen der Zeit» pubblicava un intervento del Prof. Wolfgang Beinert (*1933), già Ordinario (1978-1989) di Teologia dogmatica presso l’Università statale di Regensburg in Germania, dal titolo emblematico: Dio concreto, dottrina astratta? Il significato della religiosità popolare per la fede della Chiesa. Agli addetti ai lavori, ai teologi, come pure agli studiosi di antropologia culturale, non sfuggì l’assunto esibito in quel famoso articolo, secondo il quale «la spiritualità è [di conseguenza] una componente importante per la sopravvivenza dell’autentica religiosità». Secondo il Prof. Beinert, «dal momento che il popolo è una parte stabile, essenziale e integrale, della religione viva e celebrata, ne segue che la religiosità popolare costituisce una parte essenziale e integrale del cristianesimo stesso». Con questa importante equazione, però, il Prof. di Regensburg ammetteva non soltanto che senza religiosità popolare non vi è cristianesimo – semplicemente perché non vi è il popolo che lo confessa –, ma attribuiva alla medesima religiosità popolare un’eminente finalità educativa per la civitas, che pure dal popolo è formata, tema quest’ultimo che dobbiamo ora sviluppare.
La religiosità popolare
Con questo esergo abbiamo, probabilmente, già chiarito che si deve parlare di religiosità (pietà) popolare e della sua finalità educativa in tempo di globalizzazione, non come se essa fosse una realtà appartenente al passato, oppure al solo presente, ma anche al futuro della fede cristiana. La religiosità popolare è un fenomeno misterioso e al tempo stesso delicato, difficile da definire e, in quanto autoattuazione dell’elemento credente nel singolo individuo, è inevitabilmente molto diverso da uno all’altro a seconda delle predisposizioni dell’età, della storia personale, dell’ambiente culturale e sociale, dell’unicità libera e mai adeguatamente circoscrivibile di ciascuno. Osservare il fenomeno, tutt’altro che tramontato, della religiosità popolare assieme al processo di globalizzazione, poi, significa ambire a perlustrare il senso di quanto accade nel presente e nel prossimo futuro della storia dell’uomo, che si rivolge a Dio, quale compito che trattiene in sé una traccia significativamente profetica per l’edificazione della comunità credente, per l’implemento della sua vocazione missionaria e, conseguentemente, per la testimonianza che essa può portare al villaggio globale. Soprattutto oggi, quando l’interpretazione del processo di globalizzazione propende a considerarlo un «segno dei tempi» ed esige che esso venga accolto come un dato di fatto imprescindibile che coinvolge l’uomo nella sua libertà e, al tempo stesso, nella sua religiosità.
Il nuovo contesto culturale
Questo nuovo contesto culturale – per i suoi dinamismi interiori – porta a esaltare il senso di responsabilità della libertà umana nel suo cammino storico e impone al credente cristiano una rinnovata testimonianza della fede, affinché il villaggio globale si realizzi quale «luogo di condivisione» e sia – per quanto povera e imperfetta – una prefigurazione del Regno di Cristo[7]. Fuori da una lettura deterministica, la globalizzazione non appare più come «destino fatale», ma piuttosto il frutto dell’azione dell’uomo e della sua responsabilità, quindi un processo piuttosto positivamente destinale. In quanto tale, la globalizzazione è, per l’oggi storico, una opportunità straordinaria per verificare la validità pratica del sensus fidei cristiano e, pertanto, della religiosità popolare, secondo almeno due fondamentali criteri, già evidenziati dal Nuovo Testamento: 1. «Chi ha il dono della profezia, lo eserciti secondo la misura della fede» (Rm 12,6); 2. «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7,16). Il contenuto di questo intervento mira, dunque, a prendere innanzitutto in esame le potenzialità – quelle specialmente adatte all’evangelizzazione – insite nella religiosità popolare per il futuro; in un secondo momento analizzeremo le coordinate terminologiche che distinguono esattamente la religiosità popolare dalla devozione e dalla pietà, soprattutto in base al dettato del nuovo Direttorio su pietà popolare e liturgia; infine, valuteremo la finalità educativa con la quale la religiosità popolare edifica la comunità cristiana attorno alla virtù della speranza, nell’attimo perdurante della globalizzazione. Quanto risultasse preziosa l’analisi della «religione del popolo» per la missione della Chiesa, lo aveva già chiaramente espresso Karl Rahner (1904-1984) alla fine degli anni Settanta del secolo scorso in almeno due celebri interventi, il primo dei quali merita ora la nostra attenzione.
Forma futura della religiosità popolare
In una prima conferenza, il 20 Gennaio 1977, il teologo della svolta antropologica intervenne alla Katholische Hochschulgemeinde di Münster, mettendo correttamente a fuoco il nucleo teoretico di quanto anche noi vogliamo dire. Dopo aver precisato che con «elementi della spiritualità» intendeva parlare proprio della pietà (Frömmigkeit)[2] e che «anche oggi Roma cerca di mantenere vive certe forme concrete di pietà» perché «sarebbe increscioso se tutto ciò scomparisse per lasciare posto a una spiritualità uniforme e grigia», Rahner arrivava a formulare il principio teologico della pietà popolare vista in prospettiva futura: la pietà del futuro […] si concentrerà sui dati essenziali della rivelazione cristiana: sull’esistenza di Dio, sulla possibilità di parlargli, sulla sua incomprensibilità ineffabile che costituisce in quanto tale il centro della nostra esistenza e della nostra spiritualità, sulla possibilità di vivere e morire con Gesù (e propriamente solo con lui in assoluta libertà da tutti i principati e potestà), sul fatto che sulla nostra vita è stata eretta la sua croce incomprensibile e che questo scandalo fornisce il senso vero, liberatore e beatificante alla nostra esistenza. Tutte queste cose non mancavano naturalmente neppure nella spiritualità del passato, però nel corso della incombente stagione invernale esse plasmeranno in maniera più chiara, rigorosa e quasi esclusiva la spiritualità futura. Chi conosce almeno un poco il teologo tedesco sa che quelli citati sono i grandi temi che alimentano la sua riflessione. Inclusa la «possibilità di parlare con Dio»: forse in altri tempi cosa ovvia, conseguente all’affermazione teorica della sua esistenza; ora, in tempo di globalizzazione, vero e proprio problema epocale. Per Rahner è strettissimo il legame tra il futuro della fede nel Dio personale e un ritrovato coraggio d’osare continuamente, da soli e insieme, l’esperienza della pietà autentica. Molti ricordano una sua espressione: «il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà»[4]. Espressione tanto ripetuta quanto passibile d’essere fraintesa, come se incoraggiasse una visione intimistica del cristianesimo o una sua declinazione nel segno della straordinarietà. Nelle intenzioni dell’autore rimanda, invece, al coraggio di rivolgersi al Dio sempre misterioso; rinvia alla decisione di credere anche in un contesto sfavorevole riconducendosi – ed è possibilità offerta a tutti per grazia – alla «genuina esperienza di Dio scaturente dal centro dell’esistenza», emergente dalla trama della storia personale e collettiva orientata al futuro assoluto che è Dio stesso. Il contributo di Rahner, insomma, fa vedere che l’essenza della pietà o religiosità popolare coincide con la capacità che ha l’uomo di rivolgersi a Dio. Possibilità che per l’uomo costituisce pure una necessità.
I documenti del Concilio
Evidentemente, Rahner si era accorto che la spinta a guardare con rinnovata attenzione alla religiosità popolare viene rivolta alla teologia dall’insegnamento contenuto nei documenti del Concilio e del magistero postconciliare, dal confronto con le scienze che si sono occupate di studiare la religiosità popolare e dal superamento della visione proposta dalla teologia dialettica e dalla teologia della secolarizzazione. Due anni dopo, come accennato, Rahner tornava nuovamente sulla questione, essendo convinto che la teologia, in quanto scienza della fede, è chiamata a riflettere sulla religiosità popolare molto più di quanto abitualmente abbia fatto o faccia, perché questa particolare espressione della fede cristiana ha qualcosa da dire alla teologia e, in modo del tutto particolare, all’ecclesiologia. L’illustre teologo cattolico propone una linea di riflessione all’interno della sua teoria del rapporto tra rivelazione originaria, di cui è destinatario l’uomo in quanto tale, e rivelazione storica. Per questo, egli distingue tra la Chiesa come popolo di Dio (Kirche als Volk Gottes) e il popolo nella Chiesa con la sua religione popolare (Volk in der Kirche mit seiner Volksreligion)[9]. In effetti, Rahner aveva proprio ragione: ogni popolo, nella sua concretezza storico culturale, vive nella Chiesa, attraverso la sua parte credente, come presenza di un orizzonte più ampio dentro il quale si colloca la Chiesa stessa con la sua missione. La religione risulta, così, parte costitutiva di questo orizzonte che solo «contro natura» potrebbe essere assorbito, perdendo la propria identità distinta, dentro la Chiesa.
Esperienza religiosa
Dello stesso avviso era – in quegli stessi anni in cui scriveva Rahner – un altro teologo a lui conterraneo: Johannes Baptist Metz (*1928). Nel contesto della sua «teologia politica» e, successivamente, del suo sviluppo nella «teologia narrativa», Metz ritiene che non ci sia «nulla di cui la teologia ha così urgente bisogno quanto dell’esperienza religiosa contenuta nei simboli e nei racconti popolari: ad essa deve riferirsi se non vuole morire di fame […]. Più che mai la teologia ha bisogno della religione, della mistica e dell’esperienza religiosa della gente semplice». La religiosità popolare, infatti, sollecita la teologia a tenere conto della dimensione narrativa e celebrativa della religione; contribuisce e porre nella giusta luce il rapporto tra storia della salvezza e storia particolare di quelli che partecipano al culto; stimola a non dimenticare che la celebrazione non consiste soltanto nello svolgimento di un’azione secondo determinate rubriche, ma è soprattutto un festeggiare, per mezzo di riti e simboli, una realtà già vissuta, una fede in atto. Abbiamo, insomma, acquisito in questo modo un primo dato fondamentale inerente la forma della religiosità popolare pronosticata al futuro, ovvero il fatto che per essa vi sarà una concentrazione sui dati essenziali della fede cristiana, costituente, in quanto tale, il centro di un’esistenza credente. E, ciò nonostante, proprio rileggendo Rahner è utile quest’altra precisazione. La religiosità popolare, nella sua diversità dalla confessio christianae fidei – diversità che resta tale anche quando essa è intrinsecamente mescolata a elementi specifici della fede cristiana medesima – va riconosciuta come espressione di una umanità non integrabile, oltre che di fatto non integrata, rispetto alla quale l’esperienza della fede ecclesiale si pone come ospite – nel senso di chi ospita – e compagna rispettosa e affettuosa. I salmi, per esempio, possono essere pregati non solo «cristianamente», annullando sovente nell’allegoria la lettera, e nemmeno spesso come comunione di preghiera con l’Israele secondo la carne, a cui essi appartengono indissolubilmente, ma anche «teologicamente» come pensieri di Dio, che accompagna con il suo sentire in grande la gioia e la sofferenza di ogni uomo, al di là degli orizzonti di Israele e delle Chiese. Da questa esatta prospettiva si impone, dunque, di illustrare adesso quella necessaria precisazione terminologica che distingue tra loro religiosità, devozione e pietà popolare. Per farlo non possiamo non ricorrere al dettato del già menzionato Direttorio su pietà popolare e liturgia.