Il primo significativo stigma ecclesiologico insinuato ancora prima che il Concilio venisse celebrato è chiaramente rintracciabile in un intervento di Karol Wojtyła sottoposto alla Commissione antepreparatoria. Con una sensibilità ecclesiale e pastorale dichiaratamente rivolte alla centralità del popolo di Dio – sensibilità a noi oggi talmente consona che sarebbe difficile pensare che prima non fosse stato proprio così – il giovane vescovo polacco affermava che l’azione evangelica dei sacerdoti e dei laici, nonché la testimonianza dell’umanesimo cristiano resa dalla Chiesa avrebbero tratto beneficio dall’introduzione nell’Eucarestia e nelle altre celebrazioni sacramentali delle lingue volgari[1]. È la stessa sensibilità che diversi anni prima emerge in un fatto apparentemente circostcritto ma significativo. Per la sua ordinazione episcopale, avvenuta il 28 Settembre 1958, Karol Wojtyła avrebbe voluto che il lungo e complesso rito fosse stato spiegato ai fedeli, durante il suo svolgimento, da un “commentatore” liturgico – cosa che avviene normalmente ai nostri giorni –, ma l’Arcivescovo ordinante Eugeniusz Baziak rifiutò questa concessione al rinnovamento della liturgia. Allora il trentottenne Wojtyła si procurò una traduzione del rito latino e reclutò una squadra di donne che si offrirono nel preparare a mano degli opuscoli da distribuire ai presenti[2].
Vi è, poi, un altro importante contributo scritto, che Wojtyła sottopose alla Commissione ante preparatoria il 30 Dicembre 1959, e che non possiamo tralasciare. Si tratta di una genuina analisi fatta sulla condizione interna della Chiesa, ovvero del suo consistere ad intra e, tuttavia, del suo esistere ad extra: detto contributo riflette una percezione soffusa di bontà che dovrebbe contraddistinguere questi due versanti con i quali la Chiesa presenta se stessa, una serena capacità di autocritica, una seria riforma pastorale avente come scopo la valorizzazione e l’educazione del laicato, l’uso delle lingue locali nella liturgia, la passione per l’ecumenismo e l’urgenza di una robusta formazione intellettuale e culturale per i sacerdoti prima dell’ordinazione[3]. Cose tutte che noi oggi percepiamo come scontate ma che, allora, non lo erano affatto. Detto in maniera alquanto sintetica e soprattutto leggendo con capillare attenzione gli Acta Antepreparatoria, non sembra azzardato affermare che il vescovo Karl Wojtyła propose alla Commissione antepreparatoria di organizzare l’intero progetto del Concilio Vaticano II attorno alla questione antropologica[4].
Al Concilio
Arriviamo finalmente al Concilio[5]. Cronologicamente ci troviamo, come abbiamo detto sopra, nel primo periodo – o prima intersessione (11 Ottobre – 8 Dicembre 1962) – caratterizzata dai tentativi iniziali di elaborazione dello schema De Ecclesia. Come tutti gli altri Padri, anche gli interventi di Mons. Wojtyła erano di indole verbale o scritta. Quelli verbali sono due e riguardano le fonti della Rivelazione, una maggiore responsabilità dei padrini e delle madrine di Battesimo nell’educazione religiosa del bambino[6], la posizione dei laici e il significato della Beata Vergine Maria. In tutte le questioni egli chiedeva un nuovo modo di vedere il mondo che tenesse conto dell’attuale sensibilità dei fedeli e della dignità della persona umana nonché del ruolo eccezionale di Maria come Madre del Figlio di Dio[7], motivo che lo indurrà a chiedere ripetutamente la trattazione della mariologia nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, come effettivamente avverrà con il Capitolo VIII «La beata Vergine Maria Madre di Dio nel mistero di Cristo e della Chiesa»[8]. Di questo primo periodo, tuttavia, a noi interessa l’intervento scritto del 7 Dicembre 1962, là dove Wojtyła fa esplicito riferimento alla definizione di Chiesa quale corpo mistico di Cristo[9] chiedendo espressamente, però, che si rendano espliciti tre nuclei cristologici sottesi alla definizione “corpo mistico”: innanzitutto, che si appartiene al corpo con la precisa finalità di essere salvati; quindi, che la persona umana è una cellula di quel corpo in quanto parte della Chiesa; infine che, quasi fosse una “leva di Archimede”, si deve valorizzare la responsabilità della persona nella Chiesa essendo proprio questa – la responsabilità – la coscienza con la quale l’uomo contemporaneo si rapporta al mondo[10].
Arriviamo, così, al secondo periodo – o sessione seconda con Paolo VI (29 Settembre – 4 Dicembre 1963) – caratterizzatasi per il serrato dibattito sulla collegialità episcopale e, più precisamente, sulla collocazione del Capitolo II nello schema De Ecclesia. Non spetta a questo intervento ricostruire tutto il percorso che portò, poi, all’attuale struttura della Costituzione dogmatica Lumen gentium, percorso peraltro arciconosciuto dagli addetti ai lavori. Ricordiamo, per inciso, che la discussione in aula – che soltanto per la sessione seconda occupò 8 congregazioni e vide salire a parlare 90 padri, ai cui discorsi si aggiunsero 33 interventi scritti – era nettamente divisa in due parti[11]. Si discuteva, infatti, intorno al capitolo sul popolo di Dio e i laici – pregiudicato, fra l’altro, dal consenso per l’anticipazione del De populo Dei al rango di capitolo II, sovraordinato rispetto a quelli sulla gerarchia e l’episcopato. Durante questa seconda sessione, Wojtyła interviene con il famoso discorso del 21 Ottobre 1963.
Il famoso intervento del 21 Ottobre 1963: popolo di Dio e sacerdozio comune dei fedeli
L’intervento del 21 Ottobre 1963 è, probabilmente, il primo discorso ecclesiologico determinate dell’Arcivescovo di Cracovia. Sono molte («plures») le ragioni – dice Wojtyła – per le quali risulta conveniente anticipare nello schema De Ecclesia il capitolo De populo Dei a quello De hierarchica Ecclesiae constitutione[12]. Tuttavia, ne elenca solo quattro: 1) perché al popolo di Dio appartengono tutti, compresi i ministri della Chiesa: questa motivazione è per Wojtyła «notio universalissima»; 2) perché così conviene alla natura della Chiesa e al proprio configurarsi come società alla pari degli altri consorzi umani; 3) perché in questa maniera riluce al meglio il fatto che la costituzione gerarchica della Chiesa è uno strumento finalizzato al bene comune di tutto il popolo di Dio («id est Ecclesia»); ciò è pertinente, afferma Wojtyła«sensui naturali regiminis in qualibet societate, sed praesertim sensui Evangeliorum, in quibus “praesse” convenit cum “ministrare”»[13]: questa terza motivazione squisitamente evangelica, suona, infatti, così: nei santi Vangeli colui che sta prima, che precede, è lì per servire, proprio come fa il pastore con le sue pecore, come fa colui che ha la stola per assumere, di conseguenza, anche il grembiule; 4) perché la suddivisione della comunità ecclesiale nei tre stati di chierici, laici e religiosi suppone un’unica previa costituzione di tutto il popolo di Dio, alla quale detti tre stati stanno come il genere alla sua natura[14].
In questa ultima motivazione, oltre all’interessante dichiarazione e affermazione dei tre stati – e non soltanto di due[15]– presenti nella Chiesa, sporge chiaramente la perspicua e robusta mens philosophica di tenore non solo personalista, ma anche metafisico tipica di Wojtyła[16], la quale, peraltro, dovrebbe soggiacere a qualsiasi rigoroso discorso teologico che sia effettivamente tale. Al di là di queste quattro motivazioni, secondo Wojtyła il vero movente che doveva convincere i Padri alla modifica era, comunque, di ordine sacramentale e cristologico. A sapere: poiché la Chiesa, rispetto alla città terrena, era al contempo trascendente e immanente perché «similitudinem facit mysterii Incarnationis», la nozione “popolo di Dio”, piuttosto che quella di “società perfetta”, risultava «in se optima ad elucidandam Ecclesiae naturam socialem», essendo ciò che la Chiesa è «in actu»[17]. Se espressa per converso, l’intuizione wojtyłiana diventa ancora più iridescente: infatti, se proprio si voleva parlare di Chiesa come società, ebbene stando alla Sacra Scrittura non poteva esserci nozione migliore che quella di “popolo di Dio”, essendo che la Chiesa diventa società perfetta quando raggiungerà quel fine soprannaturale cui è finalizzata[18].
Continuando nell’esegesi di questo celebre intervento si ha oggi ragione di supporre che fossero, piuttosto, le due conseguenze tratte da Wojtyła alla sua proposta di modifica a suscitare un certo scalpore, ovvero una positiva meraviglia, che non la modifica stessa. La prima conseguenza è inerente la questione del cosiddetto “sacerdozio comune” dei fedeli. Il ragionamento adotto dal giovane Arcivescovo polacco era, in sostanza, il seguente: partendo dal citato della Lettera agli Ebrei (5,1)[19] accettata la modifica allo schema, bisognava, conseguentemente, evitare la netta distinzione tra «sacerdotium universale a sacerdotio ministeriali», dove è importante sottolineare quella preposizione «a» (dal) altrimenti – disse icasticamente Wojtyła – «non videtur indoles populi Dei plene explicari». L’argomentazione biblica era chiara: «ogni sommo sacerdote è preso dagli uomini e per essi costituito». Agli occhi del Teologo, però, brilla la motivazione eminentemente teologica apposta dall’arguto Arcivescovo di Cracovia e cioè il fatto che tra sacerdozio comune e gerarchico vi era una «vitalem coniunctionem» e che, soprattutto, «haec coniunctio […] est aliquid populo Dei proprium eique specificum». Parafrasando Hegel[20], non ci poteva essere lingua – quella latina – e modalità più chiare e precise di quelle utilizzate da Wojtyła per esprime quell’“atomo” comunionale che, nella Chiesa, salda tra loro fedeli e pastori nell’unica immagine (battesimale) di Gesù Cristo citata dalla Lettera agli Ebrei[21].
La seconda conseguenza scaturiva dalla prima e riguardava l’apostolato dei laici. Senza tema di smentita, oso dire che l’intuizione ecclesiologica di Wojtyła rappresenta, a questo livello, un “unicum”. Egli, infatti, affermò che nella nozione di «apostolato» si doveva includere anche la coscienza personale della vocazione cristiana, la quale è diversa dal mero concetto di possesso passivo della fede («quae tandem differt a sola passiva possessione fidei»). Era, invece, vero il contrario, ossia che all’apostolato dei laici era connessa quell’attualizzazione della fede derivante dalla responsabilità che la persona umana in quanto tale apporta alla Chiesa come un bene soprannaturale. Tralasciando la tentazione – peraltro subitanea – di addentrarci ulteriormente nell’esegesi del testo, è qui sufficiente far notare come Wojtyła avesse già intravisto tutto il bene che l’attualizzazione della fede dei laici – l’“opus fidei” – appunto può apportare al cuore della Chiesa. Wojtyła voleva, insomma, dire che nella Chiesa la fede di un laico non solo si può vedere, ma che essa può spostare addirittura le montagne (Mc 11,23; Mt 17,20), proprio come diceva Gesù ai suoi discepoli.
È certamente questa la ragione per la quale nello stesso periodo (Ottobre 1963) Wojtyła si sbilanciò nel dire che tra le quattro cause generanti la Chiesa (efficiente, la missione del Figlio e dello Spirito Santo, formale, il corpo mistico e la gerarchia, materiale, il popolo di Dio), quella finale fosse ai suoi occhi poco perspicua perché, sempre a proposito dello schema De Ecclesia, secondo lui: «mihi videtur, quod bonum esset ad meliorem compositionem totius nostri schematis iam in primo eius capite tractare de sanctitate Ecclesiae tamquam indole eius pretiosissima et simul tamquam fine eiusdem intimo»[22]. E, in effetti, Wojtyła aveva visto bene: la santità è della Chiesa non semplicemente la «nota» più antica – noi ci chiamavamo “santi” prima che ci chiamassero “cristiani” – ma ne è il proprio fine, la propria causa finale perché ne costituisce l’indole più intima. Si addivenne, così, com’è risaputo all’inserimento di un Capitolo apposito sui “laici”, il IV, a loro dedicato proprio nella Lumen Gentium, essendo l’anticipazione del Capitolo V sulla «Universale vocazione alla santità nella Chiesa»[23] rispetto al VI dedicato a «I religiosi»; ma soprattutto si venne teologicamente a dire che la parte intima della Chiesa è un cuore pulsante che porta un nome e che ci dovrebbe tutti (de)nominare: la santità (1Cor 3,16-17).
[1] Cfr. K. Wojtyła, Acta et Documenta Concilio Oecumenico Vaticano II Apparando: Series I (Antepreparatoria), II: Consilia et Vota Episcoporum ac Praelatorum – Pars II: Europa, Typis Polyglottis Vaticanis, Romae 1961, 741-748.
[2] Cfr. G. Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo, (Le Scie), Mondadori, Milano 1999, 18.
[3] Cfr. G. Weigel, Rescuing «Gaudium et spes»: The New Humanism of John Paul II, in Z.J. Kijas – A. Dobrzyńsku, ed., Cristo, Chiesa, Uomo. Il Vaticano II nel pontificato di Giovanni Paolo II. Atti del Convegno Internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura-Seraphicum e dalla Fondazione Giovanni Paolo II Centro di Documentazione e Studio del Pontificato (Roma, 28-30 Ottobre 2008), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, 261-277, qui 270-271.
[4] È l’opinione di colui che è considerato il biografo per antonomasia di Karl Wojtyła: G. Weigel, Rescuing «Gaudium et spes»: The New Humanism of John Paul II, 271.
[5] È interessante la puntualizzazione del Cardinale Angelo Scola: «non sono numerosi i Padri che hanno preso la parola in Congregazione Generale colla frequenza del vescovo cracoviense»: A Scola, L’esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Giovanni Paolo II, Marietti, Genova-Milano 2003, 111; cfr. anche Id., Gli interventi di Karol Wojtyła al Concilio Ecumenico Vaticano II, in Colloquio Internazionale del Pensiero Cristiano, ed., Karol Wojtyła filosofo, teologo, poeta. Atti del I colloquio internazionale del pensiero cristiano organizzato da ISTRA – Istituto di Studi per la Transizione (Roma 23-25 Settembre 1983), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1984, 289-306.
[6] Cfr. K. Wojtyła, Sembra molto opportuno, in Acta Synodialia Sacrosanctum Concilii Oecumenici Vaticani II, I/II, n. 13, Congregationes Generales X-XVIII, 314-315 Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1970-1998 [d’ora in poi AS con la segnalazione della sessione e del periodo], con mia traduzione dal latino.
[7] Cfr. T. Pieroneck, Ricezione del Concilio Vaticano, 58.
[8] A più riprese i vescovi polacchi insistettero per l’inserimento del «capitolo mariano» nel De Ecclesia: cfr. De loco convenienti, ubi caput «De B. Maria Virgine Matre Ecclesiae» in schemate «De Ecclesia» inseratur, AS II/III, 856-857; AS III/III. Congregationes Generales LXXXIII-LXXXIV, 178-179. Circa la “spinosa” controversia sull’applicazione del titolo di «Mater Ecclesiae» a Maria cfr. G. Alberigo, Storia del concilio Vaticano II. III. Il concilio adulto. Il secondo periodo e la seconda intersessione (Settembre 1963-Settembre 1964), Il Mulino, Bologna 1998, 111.
[9] È a dir poco evidente il richiamo alla temperie ecclesiologica veicolata dalla famosa Lettera Enciclica Mystici Corporis (1943) di Pio XII (1876-1958), firmata, però, diciannove anni prima.
[10] Cfr. K. Wojtyła, AS I/IV. Congregationes Generales XXXI-XXXVI, 598-599, n. 82. Concordiamo appieno con l’acuta osservazione di Robert Skrzypczak (*1964), secondo il quale «Karol Wojtyła aveva preso parte al dibattito sul progetto primario del testo De Ecclesia il 7 Dicembre 1962, nell’ultimo giorno dedicato alla discussione; tuttavia per ragioni sconosciute, il testo del suo intervento fortemente strutturato a favore di coloro che pretendevano le modifiche nello schema, anziché essere letto, è stato trasmesso in forma scritta»: R. Skrzypczak, Karol Wojtyła al Concilio Vaticano II. La Storia e i Documenti, (Collana Storica 28), Fede & Cultura, Verona 2011, 207.
[11] Si veda anche G. Alberigo, ed., Storia del concilio Vaticano II. III, 97.
[12] Cfr. M.-E. Gervais, Jean-Paul II. L’homme et l’histoire du XX siècle, Cerf, Paris 1998, 133 [tr. it. Id., Giovanni Paolo II: l’uomo e il suo tempo, Fabbri, Milano 1998].
[13] AS II/III Congregationes Generales L-LVIII, 154-156, qui 155.
[14] Cfr. AS II/III Congregationes Generales L-LVIII, 154-156, qui 156.
[15] Sono tornato sull’argomento in varie occasioni: per una sintesi aggiornata mi permetto il rimando a G. Pasquale, La natura escatologica della vita consacrata, in Credere Oggi 28 (2009) n. 3, 77-91.
[16] Cfr. J. Merecki, Presenza della metafisica di San Tommaso nel pensiero filosofico di Karol Wojtyła, in G. Goisis – M. Ivaldo – G. Mura, ed., Metafisica, persona, cristianesimo. Scritti in onore di Vittorio Possenti, (Scaffale Aperto), Armando Editore, Roma 2010, 71-83, qui 74-79.
[17] AS II/III Congregationes Generales L-LVIII, 154-156, qui 155.
[18] Cfr. AS II/III Congregationes Generales L-LVIII, 154-156, qui 155.
[19] «Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Eb 5,1).
[20] «Per il pensiero speculativo invece fa piacere di trovare in una lingua parole che hanno in se stesse un significato speculativo; la lingua tedesca possiede molte di tali parole. Il doppio senso del latino tollere (divenuto famoso per la battuta ciceroniana: tollendum esse Octavium) non va tant’oltre; la determinazione affermativa va soltanto fino a portare in alto. Qualcosa è tolto solo in quanto è entrato nell’unità col suo opposto; in questa più precisa determinazione di un che di riflesso, esso può essere convenientemente chiamato momento: G.W.F. Hegel, La dialettica. Antologia sistematica, a cura di Cornelio Fabro, (Il Pensiero. Classici della Filosofia Commentati), La Scuola, Brescia 1960, 63-64. È chiaro, a questo proposito, il riferimento al termine della lingua tedesca «aufheben», il quale significa, al contempo, “sollevare” e, quindi, “togliere”: cfr. Id., Filosofia della storia. Antologia, a cura di Claudio Cesa, (Pensatori Antichi e Moderni 96), La Nuova Italia, Firenze 1975, 33-35.
[21] Sono consapevole che proprio su questo punto si innesta la problematica ecclesiologica dello «stato» dei religiosi all’interno della Chiesa. Per offrire soltanto un’idea di quanto essa sia “accesa” cfr. G. Canobbio, La vita consacrata nelle esortazioni apostoliche postsinodali. DallaChristifideles Laici ad oggi, in F. Volpi, ed., Chiesa locale, vita consacrata e territorio: un dialogo aperto, Editrice Il Calamo, Roma 2004, 43-60. Severino Dianich, addirittura, aveva parlato, un anno prima, di una «forzatura del dato dogmatico»: S. Dianich – S. Noceti, Trattato sulla Chiesa, (Nuovo Corso di Teologia Sistematica 5), Queriniana, Brescia 2002, 506. Si veda anche la risposta di P. Martinelli, Sull’essenzialità (o «necessità») della vita consacrata nella Chiesa per il mondo. Note per una ricerca che continua, in Religiosi in Italia 10 (2005) n. 1, 32-46, e la mia presa di posizione in G. Pasquale, Vita consacrata ed escatologia, in Credere Oggi 28 (2008) n. 3, 77-91.
[22] K. Wojtyła, AS II/IV. Congregationes Generales LIX-LXIV, 340-342, qui 340.
[23] Cfr. A. Maffeis, La communio sanctorum nel dialogo ecclesiologico tra le tradizioni cristiane, in C. Aiosa – G. Giorgio, ed., Credo la Chiesa cattolica, la comunione dei santi, (Biblioteca di Ricerche Teologiche 8), Edizioni Dehoniane, Bologna 2011, 193-237, qui 224-227.