In continuità con la teologia della Chiesa immediatamente precedente il Concilio Vaticano II, Karol Wojtyła utilizza la categoria di Chiesa «corpo mistico» di Gesù Cristo, rinnovandone, però, l’intuizione mediante l’utilizzo dello scenario – se così possiamo esprimerci – dell’antropologia culturale e del personalismo cristiano: la persona umana è una cellula del corpo mistico costituito dalla Chiesa nella misura in cui la Chiesa valorizza quel senso di responsabilità che la coscienza contemporanea postula all’uomo contemporaneo, non viceversa. Il giovane Arcivescovo di Cracovia – che tra una sessione e l’altra del Concilio oltre agli appunti per il De Ecclesia e le “Lettere dal Concilio” scrisse pure il famoso libro Persona e atto[1], nonché alcune poesie[2] – è convinto che la dignità intrinseca di ogni persona umana sia ontologicamente costituita dal suo essere una cellula del “corpo mistico” di Gesù Cristo.
la Chiesa annuncia la vocazione dell’uomo in Cristo
Ogni persona umana, pertanto, possiede un fine soprannaturale, ovvero una vocazione la cui possibilità di rinvenimento si rintraccia nella Chiesa. Questo fine soprannaturale non è affatto indifferente all’essere della persona perché coincide con la salvezza che ogni uomo e ogni donna sperano di ottenere per la propria vita da Dio come vita eterna, mediante la risurrezione della carne in Cristo Gesù. Nella Chiesa l’uomo sviluppa appieno la sua coscienza di “stare-al-mondo” come una creatura responsabile, sia perché ognuno di noi cresce attorno a quella Parola che lo chiama all’esistenza e lo mantiene in essa, sia perché la verità di ciò che noi effettivamente siamo non sta (soltanto) all’inizio, ma alla fine della nostra esistenza personale cui l’inizio prelude. Anzi, la nostra fine è già da noi decisa con le scelte poste in essere all’inizio[3].
Seconda tesi: la Chiesa è il popolo di Dio dal mistero dell’Incarnazione
Questo è, probabilmente, il guadagno più consistente apportato da Wojtyła al Vaticano II, assieme ad altri Padri conciliari. Esso non coincide direttamente con l’anticipazione del Capitolo II De populo Dei sul III De hierarchica Ecclesiae constitutione assimilato in Lumen gentium, ma coincide con la sottolineatura per cui la natura della Chiesa sta in equazione con il mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, il quale è venuto per servire («ministrare») e non per essere servito» (Mc 10,45), essendosi «sacrificato per il popolo, non per uno soltanto» (Eb 9,28). Da qui si capisce perché la nozione biblica più cristologicamente applicabile alla Chiesa fosse quella di “popolo di Dio”, la quale, a ben osservare, esibisce l’origine verticale – ossia soprannaturale – della Chiesa piuttosto che quella orizzontale, più inquilina a quella di «societas perfecta», contrariamente a quanto si pensi e, forse, ancora oggi si insegni. Ecco perché, secondo Wojtyła, tutti i membri del popolo godono di pari dignità e qualora vi fossero delle differenze, o esse provengono da Dio sotto forma di carismi, o ancora provengono da Dio attraverso la chiamata a servire in modo organico l’unico popolo attraverso quei pastori i quali, scelti dal popolo, lo possono, per questo, reggere nel servirlo.
Terza tesi: la Chiesa è tutta apostolica
Sappiamo che l’apostolicità è una caratteristica (nota) della Chiesa, appunto di tutta la Chiesa. Wojtyła annoda strettamente il compito apostolico al dono della fede che si riceve, innanzitutto, con il Santo Battesimo. Di conseguenza, in prima istanza l’apostolato cristiano sporge naturalmente dalla coscienza personale della propria vocazione cristiana perché non vi è mai un mero possesso passivo della fede, ma sempre una attualizzazione della fede per cui l’opera di ognuno e di ognuna gode di una peculiarità tale a tal punto che, se essa mancasse, la Chiesa avrebbe nelle sue mura – per così dire – un mattone in meno di cui tutti possono scorgere il foro lasciato vuoto. In seconda istanza, la Chiesa – sempre secondo Wojtyła – possiede, a differenza della società, una propensione connaturale a dialogare con i giovani, che essa continua incessantemente a generare alla fede. Anzi, il dialogo con i giovani evita alla Chiesa quel duro impatto tra le generazioni – oggi riscontrabile in molteplici settori del consorzio civile – e stimola la perdurante necessità di adattarsi e di rinnovarsi. Si può anche dire, mi pare senza forzare troppo l’esegesi, che l’apostolato ecclesiale verso i giovani anticipa, per Wojtyła, l’avvento definitivo del Regno di Dio annunciato dalla Chiesa.
Quarta tesi: la Chiesa mostra all’uomo la verità del suo essere tale
È questa una tesi che, al fine di essere correttamente declinata, impone al Teologo un certo equilibrio. Wojtyła è convinto che, a motivo dell’Incarnazione del Figlio di Dio in questo nostro mondo, l’uomo possa incontrare le scintille della Verità eterna a partire dal mondo stesso, magari attraverso il “metodo euristico” che muove dalla perspicuità della legge naturale e morale[4]. Detto in altri termini, tralasciare del tutto l’humanum sperando di poter incontrare Dio, dopo Gesù Cristo risulta per tutti impresa assai ardua. Tuttavia, proprio Gesù Cristo ha voluto dotare gli Apostoli di quello Spirito Santo con il quale li ha inviati precisamente all’uomo, Spirito Santo di cui adesso la Chiesa è, dopo Pentecoste, ripiena (Mt 28, 16-20). Ebbene gli uomini che nella Chiesa hanno lo Spirito della Chiesa mostrano – non dimostrano – all’uomo quanto meravigliosa è la dignità di un essere umano per via testimoniale, essendo la Chiesa impegnata «incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio» (Dei Verbum8). In breve, e qui emerge tutta la preparazione filosofica dell’Arcivescovo di Varsavia, la certezza della verità non può, come tale, imporsi per dimostrazione raziocinante, bensì per l’emergenza vitale di una comunità che la custodisce nella Sacra Scrittura e la fa brillare nelle relazioni d’amore, appunto quelle su cui si regge la Chiesa.
Quinta tesi: la Chiesa è una «comunione» e viceversa
Quest’ultima tesi wojtyłiana esibisce – a mio avviso – la singolarità del cristianesimo rispetto alle altre tradizioni religiose e a qualsiasi altra cultura perché – va precisato subito – la comunione della Chiesa è semplicemente trinitaria. Wojtyła aveva visto bene che soltanto laddove viene esercitata la Verità vi è possibilità di libertà, essendo talvolta da lui designata quale «tolleranza» ad extra. In questo modo, proprio Wojtyła che proveniva da un contesto politico e sociale allora completamente allogeno alle speranze del Vaticano II, arrivava a formulare il principio che tra tutte le fattispecie di società, soprattutto quelle civili, una in particolare garantisce all’individuo la possibilità di essere e sentirsi libero: la Chiesa cattolica. E questo perché nella comunione ecclesiale la libertà personale è intesa alla stregua di un poter “fare la verità” ascoltando il Signore Gesù Cristo, la cui viva voce risuona (Dei Verbum 4) forte e chiara ogni giorno – sì proprio giorno – nella Chiesa sua sposa.
[1] Cfr. K. Wojtyła, Persona e atto. Testo definitivo stabilito in collaborazione con l’autore da Anna-Teresa Tymieniecka. Introduzione all’edizione italiana di Armando Rigobello, (Teologia e Filosofia 3), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1982.
[2] Cfr. S. Oder, La Santità come misura di vita cristiana, 281-285.
[3] Cfr. W. Pannenberg, Grundzüge der Christologie, Gütersloher, Güterloh 1964, 49-66.
[4] Cfr. G. Pasquale, La legge morale naturale e il nomos dell’individualità storica di Gesù Cristo, in R. Gerardi, ed., La legge morale naturale. Problemi e prospettive, (Dibattito per il Millennio 9), Lateran University Press, Roma 2007, 101-112.
Mezzo secolo dopo: il “debito” contratto con lo Spirito Santo
Non rientrava tra i compiti di questo intervento analizzare altre due serie di Documenti che avrebbero potuto verificare il polso conciliare di Wojtyła: le già citate “Lettere dal Concilio” e il famoso “Sinodo di Cracovia” (1972-1979) che il giovane Arcivescovo celebrò per trasmigrare in diocesi lo “spirito” del Concilio, primo esempio di sinodo pastorale a carattere non giuridico[1]. A noi era stato chiesto di cimentarsi sui testi dei suoi interventi verbali e scritti con la lente d’ingrandimento teologica, forse la vera porta d’accesso al fine di capire il Concilio Vaticano II dopo mezzo secolo dal suo inizio. A questo proposito non posso sottacere il fatto che, nel rileggere quei discorsi di Karol Wojtyła al Concilio, per certi versi così avanguardisti e lungimiranti rispetto all’ala conservatrice dell’assise conciliare medesima, mi è sfuggito, più di qualche volta, quel sottile confine che esiste, anche per il Teologo, tra contributo umano e ispirazione divina. Dopo mesi di lavoro, contrassegnato dalla pedissequa esegesi dei testi conciliari, sono riuscito, però, a farmi questa idea: l’intraprendenza ecclesiologica di quel giovane Arcivescovo, filosofo e teologo, proveniente dalla fredda, ma cattolicissima, Cracovia chiaramente percepibile nella sua voce al Concilio non poteva essere semplicemente il portato della sua cultura e/o della propria esperienza pastorale: prima di parlare in aula, il Padre conciliare Wojtyła deve aver certamente pregato molto, e – come sappiamo – fatto pregare.
La sua beatificazione è per me, una ratifica internamente ecclesiale, alla meraviglia, che il lavoro di esegesi mi ha positivamente addossato. E, quindi, anche una consolazione a questa mia convinzione. A sapere: lo splendore assunto dalla Chiesa cattolica nel mondo intero sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II si radica, come abbiamo visto, a partire dai suoi interventi ecclesiologici al Concilio Vaticano II. Sono tuttavia convinto che, nell’ottica dell’“ermeneutica della riforma”, il colpo al remo dato dal Vaticano II sia soltanto ancora all’inizio, o, per usare un’espressione dell’Enciclica Redemptoris missio, nella sua aurora, che pure prelude – dice la traduzione italiana – alla primavera[2]. Dopo cinquant’anni, fossimo ancora a primavera, proprio per questo dobbiamo avere e mantenere molta fiducia nell’opera dello Spirito Santo[3]; perché, immagino, succederà come solitamente avviene in natura: ossia che ogni alba, ogni aurora appunto, raggiunge la propria pienezza soltanto al termine del giorno, il che significa verso il proprio tramonto.
[1] Cfr. T. Pieronek, Ricezione del Concilio Vaticano II, 63-64.
[2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris missio [7 Dicembre 1990], n. 86, Edizioni Dehoniane, Bologna 19953, 610-611. Interessante e plastico è il termine latino che sta alla base della traduzione italiana di «primavera», là dove l’originale parla, invece, di «aurora», semantema assai più eloquente di «primavera»
[3] L’espressione «abbiamo contratto un debito con lo Spirito Santo» è propria, come abbiamo osservato, del Beato Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, 172.