Scopo di questo intervento è quello di interrogarsi se esista ancora una filosofia della storia e se essa rientri anche oggi a pieno titolo nell’arena delle scienze. Possibilità che molti tra gli intellettuali contemporanei, compresi alcuni filosofi, mettono in dubbio. Così espresso, l’intento si presenta piuttosto ambizioso e al contempo impegnativo. Soprattutto se si tiene in debita considerazione il “dettaglio” che oggi – lo diciamo qualora non ce ne fossimo ancora accorti – non pensiamo più da moderni, né da post-moderni, bensì da “tardo moderni”.
La domanda preliminare
Sporge subito una prima domanda preliminare: perché la questione torna alla ribalta con panni teoretici completamente nuovi? Infatti, da una parte risuona in noi la veridicità di un’intuizione di W. Dilthey (1833-1911) secondo il quale «noi non traiamo nessun senso dal mondo (della natura) nella vita (dell’uomo), poiché noi siamo aperti alla possibilità che senso e significato abbiano origine solo nell’uomo e nella sua storia». Dall’altra, dopo Hegel (1770-1831), Blumenberg (1920-1996) e Deleuze (1925-1995), vi è chi nel cuore di ogni filosofia della storia scova un equivoco: che nel momento in cui la storia è raccontata alla luce del concetto, è il concetto a vincerla sulla storia o, per converso, che la storia, essendo un’apertura senza fine di esiti compossibili accetta una filosofia delle storie, mai della storia. Cosicché la filosofia della storia rimarrebbe solo come romanzo che non sa di esserlo. Resterebbe, comunque, senza i panni di una scienza, perché non sarebbe più la filosofia a dettare le sue regole alla storia. La storia semplicemente accade, come accade la verità.
La seconda domanda
A questa prima, noi vogliamo, però, giustapporre una seconda domanda sulla quale siamo ritornati, precedentemente, durante almeno tre occasioni nella nostra Alta Scuola. All’inizio del terzo millennio possiamo ancora credere di pensare secondo una temperie post-moderna o non ci troviamo, piuttosto, in un clima “tardo moderno”? Giacché, se così fosse, la questione se la filosofia della storia sia una scienza oppure no – se essa possa, insomma, essere ancora insegnata all’Università – verrebbe proiettata su un altro scenario e, forse, otterrebbe una soluzione diversa.
La temperie culturale attuale: l’età “tardo moderna” (“Spätmoderne”)
Trattandosi di filosofia della storia oggi più che mai è necessario riflettere, in un primo momentodi carattere metodologico, sul proposito con cui volgere lo sguardo a questo tema che può essere considerato il nodo teoretico della tensione globale tra “particolarismo” (storia) e “universalismo” (filosofia), tra finito e infinito. A questo proposito, in questo studio si utilizzerà più volte il termine “Spätmoderne” (nell’accezione di Anthony Giddens, Hans-Joachim Busch, Barbara FreyerStowasser) per evitare di disperdersi nella infinita querelle terminologica tra “post-modernità”, “seconda modernità”, “modernità riflessiva” o “età post-secolare”. In Italiano noi intenderemo “Spätmoderne” come “tardo modernità”. Al di là di questa “nuova oscurità» (“neue Unübersichtlichkeit”) in cui si è terminologicamente incorsi, il termine Spätmoderne non dichiara che l’età moderna è terminata – come affermano i post-moderni –, né la considera come “troppo poco” moderna, quasi dovesse ancora giungere alle sue “vere” conseguenze, e nemmeno identifica “modernità” e “secolarismo”, come fa Habermas, quando parla dell’“età post-secolare”. L’accezione di Spätmoderne ritiene tutte queste indicazioni utili, ma unilaterali e si limita alla constatazione che stiamo parlando di una modernità “irritata”, “scossa”, se non addirittura “frastornata”; in questo senso l’11 Settembre 2001 portava solo alla luce quello che si può ritenere la grande questione irrisolta dalla modernità: la conciliazione delle varie particolarità individuali e culturali con l’idea dell’universalità storica globale. Mentre proprio a cavallo degli anni Cinquanta del secolo scorso gli intellettuali occidentali si dividevano in merito ai natali della modernità rispetto alla storia precedente, la post-modernità ci rende consapevoli del fatto che, accanto al discorso sull’universalità storica, venne messa in ombra anche la corrispettiva trattazione delle particolarità storiche, in maniera, quasi, direttamente proporzionale. Ma, mentre la spinta anti-moderna della post-modernità dichiarò la “fine” delle grandi narrative, cioè delle concezioni razionali-universali, e tratta il discorso delle particolarità a scapito di ogni possibilità di raggiungere una razionalità universale, il discorso della Spätmoderne si astiene da questa conseguenza affrettata e non confonde subito “critica” con “rigetto”. Mediante questa accezione della Spätmoderne, questo studio non condivide la capitolazione della post-modernità dinnanzi a qualsiasi pretesa di un discorso razionale fatto su valori o ragioni “ultime”; viene riconosciuto, piuttosto, il bisogno di una radicalizzazione critica di questo discorso stesso.
La filosofia della storia
In questo modo, la rivalutazione della filosofia della storia nella Spätmoderne può rispondere alla sfida che della riflessione teoretica della storia sarebbe rimasto soltanto un romanzo, facendo leva sul suo compito di “giustificare” che «senso e significato abbiano origine solo nell’uomo e nella sua storia» come persona singularis. Visto che con la critica post-moderna il discorso sulle ragioni giustificanti una storia particolare può essere considerato nuovamente aperto perché tale critica ha spento ogni contatto tra storia finita e senso universale della stessa, la filosofia della storiasente il bisogno di autogiustificarsi su un duplice versante: in un primo momento, tenendo presentela sfida che deriva da Dilthey, vuole precisare l’universalità cui può assurgere una storia qualsiasi dinnanzi al pensare in quanto tale; in un secondo momento, offrendo una risposta nel contesto della Spätmoderne vuole tenere desta l’importanza della domanda sulla razionalità di quanto umanamente ci accade. Detto in altre parole, nella temperie della Spätmoderne si può rivelare un grave fraintendimento il ritenere preclusa una eventuale razionalità alla storia universale, pensando che vi siano solo romanzi singolari per ogni epoca, o biografie più o meno anonime.
Il “colpo di grazia” inferto alla filosofia della storia
Teniamo, per il momento, socchiuso questo spiraglio lasciatoci aperto dalla tardo modernità e torniamo al nostro problema. Partiamo, innanzitutto, dal versante della problematicità. Lì notiamo come siano ancora molti coloro che rintracciano in G.W.F. Hegel colui che avrebbe dato il colpo di grazia alla filosofia della storia in quanto tale. Sembrerebbe, infatti, che il filosofo di Jena si sia installato nella biblioteca che è la mente di Dio e che abbia letto, volendolo comprendere per intero, quel singolarissimo volume che è la storia universale. E che, per non fare un torto a Dio, ne abbia evinto la ragione, la ratio agendi e, una volta trovata, l’abbia affossata nello Spirito assoluto, sciogliendola come una zolletta di zucchero nel caffè. Tale progetto di ordine superiore, la ratio agendi, è l’oggetto della filosofia della storia, da ché ne indaga la razionalità. Ma nel momento in cui la storia è raccontata alla luce del concetto – asserisce l’ipotesi che qui, invece, si vuole smontare – è il concetto a vincerla sulla storia. La storia è imprigionata nella rete del concetto, catturata dalla necessità, infilzata allo spiedo dell’eterno. Propriamente, per Hegel, la storia non è se non quella che è stata – ed è stata da sempre. Insomma, il colpo di grazia che il filosofo di Jena avrebbe dato alla filosofia della storia coincide con l’averla soffocata dall’interno della sua necessità.
Certamente solo Hegel scorge come «il fatto che nella storia vi sia in generale razionalità, è cosa che dev’essere considerata come filosoficamente necessaria in sé e per sé». Dunque, è quella razionalità necessaria che la storia ha «in sé» la sola che può solidificare, se vedo giusto, lo statuto epistemologico della filosofia della storia, nel momento in cui lo si vorrebbe sbriciolare. Il paradosso sta nel fatto che il ricorso a Hegel funziona esattamente come un Giano bifronte: da una parte, l’osservare che la storia persegua uno scopo precipuo significa accettare che essa si renda perspicua all’osservatore, il quale, però la “spiritualizza” in un concetto; dall’altra, così operando, succede che, alquanto facilmente, si scivola a imbrigliare la storia in una a)na/gkh fattasi sistema, rischiando di far esplodere quel significato di storia ove si possa – e si voglia – racchiudere una qualsiasi libertà singolare.
Eleusi: un testo emblematico per la sintattica hegeliana
Sennonché, potrebbe succedere di imbattersi in un testo giovanile e originale di Hegel che potrebbe interessare la nostra modernità “irritata”, evitando che il filosofo di Jena – al quale sembra dobbiamo, comunque, ricorrere – sia rigettato un’altra volta, come avrebbe fatto fino a ieri la post-modernità. Si tratta dell’incompiuto poemetto Eleusi dedicato all’amico Hölderlin (1770-1843), datato 1796. Questo testo costituisce un punto di sutura fra il sistema hegeliano e la temperie romantica in cui venne elaborato.
La portata di Eleusi è spesso sottovalutata a motivo della sua datazione precoce rispetto alle opere tecnicamente speculative, ma soprattutto a motivo della forma poetica adottata. Si è, difatti, voluto leggervi un tentativo di Hegel – peraltro mal riuscito – di emulare l’amico poeta o, comunque, di assecondare un afflato mistico e visionario che la prosa non avrebbe potuto rendere altrettanto bene. Nel ricordare questo passaggio, vi è, infatti, chi afferma che «aldilà dell’artificio poetico, è indubbio che qui Hegel ci scopra qualcosa di profondo: quella struggente Sehnsucht dell’infinito – della totalità conciliata – che egli proprio in quegli anni stava cercando di raggiungere e afferrare anche razionalmente».
A parte l’attribuzione o meno ad Hegel del contemporaneo Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, che fornirebbe un sostrato teorico alla poesia Eleusi propugnando esso che la poesia torni a esercitare un ruolo di guida per l’umanità compenetrando la filosofia e la politica, vi è un altro testo collegabile ad Eleusi, e cioè il Frammento di sistema del 1800. Il nucleo di questo scritto, che vede già profilarsi il “principio della contrapposizione” e perciò la dialettica, è che l’elevazione del finito all’infinito si caratterizzi come l’elevazione della vita finita all’infinita, riservando la prima elevazione al pensiero e perciò alla filosofia, e la seconda – e più importante – alla vita, e perciò alla religione. Questo nesso fra Eleusi e il Frammento di sistema garantisce ad Eleusi un’autentica portata teoretica, costituendola quale vera prolessi di contenuti che, soltanto più tardi, Hegel avrebbe trattato. Ma veniamo, finalmente, ad un passo:
lo spirito si perde in questa contemplazione, quel che chiamavo «mio» si dissolve, io mi abbandono all’incommensurabile, io sono in lui, sono tutto, non son che lui. Il pensiero ritornato in sé trema dinnanzi all’infinito, e, pieno di stupore, non coglie la profondità di questa contemplazione. L’immaginazione mette l’eterno alla portata dello spirito, lo avvolge di forme. Siate, dunque, i benvenuti, spiriti sublimi, nobili ombre, dalle cui fronti s’irradia la perfezione! Ora lo spirito non si spaventa. Io lo sento: il solenne splendore che vi circonda è anche l’etere del mio paese natale .
Due sono i punti notevoli. Il primo è quello che tenta di suggerire il superamento del proprio limite da parte dell’autore attraverso l’identificazione con l’incommensurabile, con l’infinito: «io sono in lui, sono tutto, non son che lui». Questa relazione, anzitutto, viene trattata come una situazione di fatto, di uno status quo, una sorta di stato in luogo. Poi si connota come un’identificazione con l’assoluto, con la totalità. Soltanto alla fine diventa un’affermazione mediante duplice negazione, che fonde le due espressioni precedenti.
Sarebbe un errore non tenere in debita considerazione questo brano. Esso, infatti, aiuta a comprendere quella che potremmo chiamare la sintattica hegeliana. In questi versi Hegel non fornisce una definizione dell’infinito, tuttavia, certo aiutato dal linguaggio poetico di cui si avvale, ne fornisce un’immagine, una sorta di esemplificazione. Il precipitato, proprio come avviene nelle soluzioni chimiche, è che il poeta non è altro che l’infinito. Certo, a questo livello non è lecito stabilire se l’infinito si esaurisca nel poeta, o se necessariamente il poeta si esaurisca nell’infinito; ma questo, intanto, è un modo di definire sia il poeta sia, e soprattutto, l’infinito.
Il secondo punto notevole di questo passo poetico è il seguente: «l’immaginazione mette l’eterno alla portata dello spirito, / lo avvolge di forme». Il verso, benché manifesti in modo preponderante il ricorso a una suggestione poetica, permette, nondimeno, di riconoscere un ulteriore procedimento caro ad Hegel. Si tratta cioè dell’assunzione della forma – alienazione, incarnazione, storia – da parte dell’eterno, dell’assoluto. Il fatto che questo verso faccia risalire tale operazione alla fantasia – o “immaginazione”, termine tutt’altro che banale entro il contesto romantico –, significa anche che di questo processo è consapevole il pensiero, nulla avvenendo al di fuori di esso.
Tre sono le dramatis personae, e cioè l’immaginazione (Einbildungskraft), l’eterno e lo spirito. L’immaginazione certo appartiene al poeta, ma è quella che media fra l’eterno (infinito) che gli si presenta e lo spirito (infinito) che, se risiede nel poeta, lo fa, però, in maniera non esclusiva, poiché si differenzia dalla sua immaginazione; ed è quest’ultima a entrare in effettivo contatto con l’eterno. Il poeta, infatti, è l’incommensurabile, al punto da essere capace di riconoscere nell’eterno che ha preso forma, nel suo splendore, «l’etere del [suo] paese natale». Ma l’ulteriore elemento fondamentale contenuto in questo verso è il seguente: l’eterno diventa alla portata dello spirito solo e soltanto se l’eterno viene avvolto da una forma, che è di solito forma storica. Per quanto banale possa apparire tale affermazione, essa costituisce – se vedo giusto – l’assunto centrale del pensiero hegeliano. L’operazione dell’immaginazione, dunque, è un’operazione propria dell’eterno (infinito) stesso, della sua astuzia e genialità, volta all’assunzione della forma, che è finita.
Nella tardo modernità la razionalità si mostra, non si dimostra
Dove sta allora la “razionalità” della storia pensata alla Hegel – ovvero il fatto che la totalità infinita abbia una sua ratio – se non in quell’“immaginazione” che osserva essere la storia (finita) già decisa dall’“esito degli avvenimenti”, di modo che la conclusione – il suo giungere all’infinito – della storia dota della sua esatta realtà e contingenza ogni momento (forma) specifico della storia che la precede? Sembra che sia proprio ritornando allo Hegel di Eleusi che si possa ribaltare l’ipotesi secondo la quale il filosofo di Jena abbia fatto colare a picco la filosofia della storia nelle maglie necessitanti della sua razionalità. E questo perché è l’immaginazione che non permette al concetto di vincerla sulla storia. L’immaginazione “vede” la razionalità di ogni momento storico finito e, quindi, quella della storia universale dello Spirito. Insomma, la “filosofia della storia” gode certamente di un statuto epistemologico proprio, appunto perché esso sta sopra (epí–stéme) a quelle forze che vorrebbero, forse, scuoterne lo stante (√stha), ovvero l’incontrovertibile che il fine non è, più, la fine. Il compito della filosofia della storia è, infatti, quello di mostrare – non dimostrare – la “bontà” – che Hegel chiama “razionalità” – di ogni momento storico e la sua carica di senso, bontà e senso che, inevitabilmente si rivestono di conseguenze talora inaspettatamente universali. Ma questo “bonifico ermeneutico” ci è permesso solo oggi, nella tardo modernità, la quale non dichiara la fine delle grandi narrative, né tanto meno delle concezioni razionali e universali di ciò che ci accade dopo l’11 Settembre 2001.