Il tempo che segue la Pasqua è particolare. Sembra seguire, sornione, i racconti delle apparizioni, che si susseguono, tra Atti degli Apostoli e Vangeli della Resurrezione. La liturgia, lungimirante, dispone un tempo disteso per poter assaporare un mistero tanto grande quale quello di un Dio che, incarnatosi, dona la sua vita per amore e risorge. Nella scrittura, si susseguono volti, voci e nomi, in rapporto all’esperienza del Risorto.
Pasqua: la voce dell’amato
Maria di Magdala lo cerca: si reca al sepolcro, per prendersi cura del corpo del Signore; lui si fa trovare, sotto nuove forme. Irriconoscibile per la vista, ma non per le orecchie, più vicine al cuore e alla memoria che da lì proviene. Una voce rompe il silenzio. Una voce inconfondibile, come solo la voce dell’Amato alle orecchie dell’amata:
Una voce! Il mio diletto!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
Somiglia il mio diletto a un capriolo
o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra,
spia attraverso le inferriate.
Ora parla il mio diletto e mi dice:
«Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è leggiadro»[1].
Il volto, che gli occhi non riescono più a riconoscere, torna ad essere familiare, per il tramite della voce che raggiunge la donna, giunta nella tristezza al giardino, ma ritornatane con gli occhi asciutti.
Il cenacolo della vergogna
Dai discepoli, però, dovrà andare lui. I discepoli non si muovono. Troppa la paura o poco l’amore? Fatto sta che gambe, piedi e mani sembrano quasi paralizzate, immobili, incapaci di muovere un passo oltre il terreno sicuro e confortevole del Cenacolo.
Tommaso che manca, i racconti “per sentito dire” che paiono non bastare. Sembra tutto già visto e – forse, in parte – persino familiare con il nostro sentire. Tommaso lo sentiamo “fratello nostro” – “gemello”, persino – molto più di Giuda. Giuda non lo capiamo. Tommaso, invece sì. Tommaso è “uno di noi”.
Tommaso, uomo che cerca
A ben pensarci, tra tutti, era lui il più coraggioso. Perché, nonostante le minacce dei farisei e del sinedrio, nonostante i “fatti di Gerusalemme” che avevano scosso i discepoli di Emmaus[2], Tommaso è in giro. Non è con gli altri. Non è nel cenacolo, quando arriva Cristo.
Proprio questa sua assenza dice il suo coraggio. Gli altri, incapaci di un minimo di intraprendenza personale, sono rimasti dove li avevamo lasciati il giovedì Santo: passivi, inerti, appiccicati gli uni gli altri come pendolari all’ora di punta. Incapaci di una vera decisioni, in grado solamente della forza della disperazione di chi rimane, nonostante tutto, pur senza capire perché rimane.
La chiesa e la fede
Eppure, Tommaso ha bisogno della fragilità di questi compagni di fede, che sono incapaci di spiegargli l’incontro con Cristo. Non bastano le parole, non bastano i racconti. Eppure, per incontrare Cristo, Tommaso deve pur sempre rientrare nell’alveo di quell’agglomerato umano – non particolarmente pregiato né rilevante – che sono i discepoli.
«Abbiamo visto il Signore» (Gv 20, 25): questo lo stringato annuncio che i condiscepoli regalano all’assente. Essenziale, asciutto, quasi anaffettivo. Ma davvero? Piuttosto, l’impressione è che questi siano rimasti senza parole, non che non ne vogliano utilizzare. Storditi, istupiditi, frastornati dalla novità clamorosamente misteriosa della Risurrezione. Di un uomo morto, sconfitto, distrutto, annientato. Che, però, nonostante ogni apparenza, ha vinto. La morte, il peccato, l’inganno, l’avidità, la cupidigia. Nell’amore, tutto il resto è annegato. E, inaspettatamente, una novità inaudita riemerge dai gorghi di una storia che sembrava ormai segnata.
Le ferite di Cristo
Un corpo nuovo, ma con le ferite vecchie. Abbiamo tutti negli occhi il meraviglioso quadro del Caravaggio, con quel crudo realismo che mette a nudo il nostro perbenismo di fronte al corpo orrendamente piagato di Cristo, in quella passione sofferta per amore. Il Vangelo, se possibile, però, resta ancora più meravigliosamente sospeso nell’incertezza di chi non sa se Tommaso abbia davvero allungato il dito su quella carne piagata, oppure no. Nella consapevolezza che importante è che Cristo mostri ancora quelle ferite e ce le offra, come reliquie della sua passione, indelebilmente inscritte nella sua carne. Cristo risorge dalla morte, lascia il sepolcro e piega i lenzuoli, simbolo del suo ritorno.
Il suo corpo è glorificato, diverso da quello che i discepoli hanno conosciuto: può mangiare pesce, ma può anche attraversare le porte, viene anche da ipotizzare che non sia abitualmente visibile, dal momento che, ad esempio, i due discepoli sulla via di Emmaus[3] se lo trovano di fianco, ma non ne scorgono l’arrivo. Eppure, quel corpo ha spazio per le ferite della Passione. Non sono un ricordo ormai scomodo. Sono parte integrante dellasua Risurrezione. Non sono un’appendice rimovibile. Appartengono, in modo identitario all’avventura di Cristo. Attraverso di esse passa la nostra salvezza. E Cristo non se ne vergogna. Le indossa in scioltezza, le porta con sé ad ogni apparenza: non deve giustificarle. Sono loro che giustificano noi.
Le nostre ferite
Se Cristo è “primizia”[4] di coloro che risuscitano dai morti, non solo la sua risurrezione dice qualcosa della nostra. E, pur nell’inevitabile differenza, anche le sue ferite dicono qualcosa delle nostre ferite. Cristo non rinuncia alle proprie ferite, con la Resurrezione. Al contrario, le glorifica nel suo corpo risorto. Così dovremmo anche noi guardare alle nostre ferite, come al luogo privilegiato dove la grazia ha sostato, dove possiamo incontrare Dio. È giusto provare dispiacere per il peccato, ma, al contempo, ogni peccato è un’occasione propizia per incontrare Dio. Per questo, il nostro sguardo sul passato non deve diventare motivo di un senso di colpa di cui caricarci le spalle, ma, piuttosto dev’essere colmo di gratitudine perché strada su cui incrociare il Risorto! (Sulla strada di Emmaus).
Rif. II domenica di Pasqua, anno B: At 4, 8-24; Col 2, 8-15; Gv 20, 19-31
Fonte immagine: muchgrace
[1] Ct 2, 8-13
[2] Vd. Lc 24, 13-53
[3] Vedi nota 2
[4] Cfr. 1Cor 15,20