La quarta domenica, nel rito ambrosiano, è conosciuta per essere quella “del cieco nato”. Un Vangelo carico di simbologia legata alla luce e al senso della vista, da secoli riletto alla luce del Battesimo e della sua opportuna di vedere, “con gli occhi di Dio” il mondo e la realtà. Occasione, ancora oggi, per riscoprirne il fascino e la preziosità.
Il mistero del dolore
«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9, 1-2)
I primi versetti del brano evangelico ci catapultano in quelo che è – forse – il problema più grave – e, anche: urgente – per l’uomo di ogni tempo. Affrontare il male metafisico.
Il male etico – pur grave e velato dal mistero (se posso scegliere, posso sbagliare a scegliere, compiere il male e quindi provocarne… tuttavia, la realtà è: chi sceglie il male deliberatamente? Anche l’essere umano più lontano dalla sensibilità e dalla virtù proverà pure dei sentimenti buoni verso qualcuno e, verso di esso, manifesterà cura, premura, attenzione, anche qualora i mezzi non siano leciti od onorevoli) – è, tutto sommato accettabile e “digeribile”.
L’interrogativo, però, si fa più stringente se il pensiero va alla causa profonda di quel male che coinvolge il dolore innocente, la presenza di malattie di ogni tipo nel mondo, in modo, almeno apparentemente, del tutto casuale e senza alcun legame diretto con il peccato.
Giobbe e il dolore innocente
La risposta classica della teologia veterotestamentaria, che aveva elaborato la teoria di una giustizia retributiva, poteva essere comoda come un pret-à-porter, ma anche lasciare un po’ di amaro in bocca, per lo stesso motivo. Tutto ciò che è preconfezionato, può andare bene in generale, ma non quando è necessario avere a disposizione un taglio più “sartoriale” e “su misura”.
Come vediamo nel libro di Giobbe. I suoi amici insistono. Se sei oppresso da una malattia, devi aver peccato. Magari non tu. Magari la tua famiglia. Magari non te ne sei nemmeno accorto. Ma devi averlo fatto per forza. Altrimenti, non si spiega (e, sottinteso, noi vogliamo assolutamente spiegarlo!).
Tuttavia, un ragionamento così forzato ha un po’ il sapore della favola del lupo e dell’agnello 1. Ti ritrovi a “mangiare la foglia”, ma non sapere come ribattere in modo ulteriore.
La lettera ai Colossesi e il Corpo di Cristo
La traduzione CEI degli anni Settanta di un passo della lettera ai Colossesi, oltre che rischiare l’eresia (mettere in dubbio che il sacrificio di Cristo potesse essere – compiutamente – salvifico), rischiavano di alimentare una sorta di “sadismo spirituale” nei confronti del dolore, quasi ricercato a fin di bene.
Va segnato che, già dal XIII secolo, Tommaso d’Aquino aveva fugato ogni dubbio, con solerte precisione:
«Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (passio) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (passiones) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati, e non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,2)». 2
Va segnalato che la traduzione del 2008 (per una volta) riesce ad intervenire nel testo, apportando modifiche che ne aiutino la comprensione teologica, per cui la riporto di seguito:
«Ora, io sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo, che è la Chiesa»3
In definitiva, quindi, ciò che manca, evidentemente, manca ai cristiani e alle loro sofferenze, casomai, non a quelle di Cristo. In che senso? La sofferenza, in sé e per sé, non redime. Non è “automaticamente” strumento o ausilio di salvezza. Può diventarlo se la vivo “con gli stessi sentimenti di Cristo”, cioè non chiudendomi in me stesso, ma rimanendo amabile e diventando “luce” per chi mi incontri!
L’opera di Dio
L’evangelista si premura di spiegare con dovizia di dettagli la guarigione e il modo in cui avvenne, che affascinò anche tanti commentatori successivi. Ad esempio, il vescovo Agostino è colpito che sia evidenziato il nome della piscina, con il suo significato di “Inviato”, che può essere facilmente attribuito a Cristo stesso4. È l’avvento di Cristo ad essere non solo benefico e salutare, ma anche salvifico. È nel Battesimo che avviene questo ingresso in una possibilità di “vita nuova” che, tramite la grazia, è possibilità di vita in Cristo.
In fondo, è concezione abbastanza diffusa una sorta di sentimento di ingiustizia rispetto alla trasmissione del peccato originale. Ci pare quasi che sia una presa in giro, rispetto alla responsabilità personale. In realtà, proprio questa odierna tendenza culturale endemica all’autonomia, anche quando è logicamente inconcepibile, evidenzia come nel peccato di Adamo, siamo, in un certo senso, “presenti” tutti.
Presunzione d’innocenza
E, del resto, ricordo come nelle Confessioni agostiniane emergessero tanti, feriali esempi di come i bambini non fossero affatto “innocenti”: convinzione che, del resto, è corroborata dagli studi della pedagogia. Il mito del “buon selvaggio” (Rousseau) resta tale. Il bambino nasce egoista ed impara, poco alla volta, a condividere, collaborare, in altre parole: vedere l’altro da sé. Senza educazione e correzione, senza guida, il bambino tenderebbe a rimanere unicamente un individuo che miri alla propria, personale sopravvivenza, capace di collaborare solo per necessità, incapace di concepire (e vivere) la solidarietà o l’empatia. Nel Battesimo, comincia la vita di grazia. Nel Battesimo conosciamo, per la prima volta, l’azione della grazia. Che, però, ci accompagna lungo tutta la vita se accogliamo la realtà della nostra dipendenza ontologica, che si accompagna al desiderio di Dio di entrare in comunione con ciascuno di noi. A partire da adesso.
Contro ogni paura
I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. (Gv 9, 20-23)
Possiamo vedere come anche un grande beneficio, come la guarigione da un male dalla nascita, non lasci mai privi di responsabilità, nonché disagi, tanto è vero che – in modo quasi paradossale, pare che il giovane si ritrovi sempre più solo, proprio una volta avvenuta la guarigione. Quasi come se fosse più facile, per amici, parenti e correligionari lasciare una moneta o accettare l’idea di un giovane costretto a vivere dell’altrui elemosina, piuttosto che mettere in gioco le proprie certezze con un rabbi che non ha paura di toccare ciechi e lebbrosi e di offrire nuove opportunità anche a chi pareva ormai rassegnato a una vita larvata, in un bozzolo di rassegnazione.
Emblematico è il caso dei genitori. Mi ha sempre colpito la scelta delle parole con cui questi si premurano di assicurare, da un lato, l’effettiva cecità precedente, dall’altro l’assoluta estranei ai fatti accaduti di recente. Quasi come se a loro importasse più di avere un figlio cieco che un figlio guarito. Visto, poi, che il figlio guarito comportava, per loro, un aggravio, rispetto a prima, di responsabilità personale in cui spendersi, in rischi da correre in esclusione sociale per l’avversione delle autorità giudaiche al rabbi-guaritore.
La fede come amicizia
«Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33, 11)
L’ex cieco mostra davvero un esempio di fede che è valido ancora oggi, per noi. Tanto è vero che paiono risuonare per lui queste parole che descrivevano il rapporto – unico e inaudito – di Mosè con il Dio d’Israele. Vediamo infatti come, nel finale del brano, si ritrovi a parlare, finalmente, faccia a faccia, con l’autore del miracolo che gli ha ridonato la vista. È la prima volta che lo vede – prima, evidentemente, non poteva! –. Eppure, pare quasi che tutta la sua vita fosse in attesa di quell’incontro. Una voce, un volto, un proposta (“sono io”): tanto basta, al giovane, per lasciar scaturire la propria, sincera ed entusiasta adesione di fede a Cristo.
Un finale aperto
In vista della Pasqua, è inevitabile che affiori alle labbra ulteriori domande: che è avvenuto dopo? Lo avrà seguito lungo il suo itinerario di predicazione? che fine avrà fatto, in quelle ore terribili, di angoscia e dolore, quando il Figlio dell’Uomo è stato innalzato?
In realtà, credo sia bello che queste risposte non si trovino nel Vangelo. Le situazioni troppo definite non lasciano spazio alla fantasia. Quello che noi sappiamo è l’entusiasmo di un inizio d’amicizia, che ha dovuto subito essere forgiata dal fuoco della contestazione. Quindi, possiamo dire, che è stato un buon inizio, che ha consentito di porre delle basi solide per il futuro.
Saranno bastate? Non lo sappiamo. Ci lascia, però, una certezza. Oggi, come allora, per le nostre strade come per quelle di Samaria e Galilea, ciascuno di noi ha l’occasione di scegliere, di nuovo, Cristo. Anche se, a volte, la libertà che Lui offre ci chiede di rinunciare al successo sociale e al suo fascino.
1 Favola di Fedro
2 TOMMASO D’AQUINO, Commento alla lettera ai Colossesi. Corpus thomisticum, Super Col., cap. 1 l. 6
3 Qui è possibile un confronto tra le versioni di Colossesi 2,24
4 AURELIO AGOSTINO, omelia 44, 2
Fonte: Sulla strada di Emmaus
Rif. Letture festive ambrosiane, nella quarta domenica di Quaresima, anno B
Immagine: Cristo e il mendicante. Guarigione del cieco (Andrey Mironov, 2009)