Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Le riflessioni
L’invocazione di Fra Tommaso sgorga spontanea, contro ogni logica, contro ogni atto di fede, addirittura, poiché egli è tutt’uno con il Redentore e sente nel corpo e nella mente quell’angoscia nuova che mai, prima di allora, aveva visitato Cristo.
O Padre eterno, non vedete ora il unigenito vostro figliolo tutto angonizante ne l’orto? Non udite la voce sua che vi prega che, si possibile è, che gli levate quel calice tanto amaro? O Padre eterno, movetevi a pietà del vostro figliolo. (Selva, 222)
Ma l’angelo che Dio manda per confortarlo non fa, in realtà, che confermare ciò che Gesù stenta ad affrontare: il sacrificio di sé come per la salvezza di tutti.
Che cosa fa Gesù davanti all’amore per le persone?
Pigliando il nostro Cristo animo, vedendo che con sua morte faceva tanto beneficio e che apriva le porte del cielo, si levò e andò dalli discepoli che dormivano, dicendo che stassero vigilanti, aciò non intrassero in tentazione. Ritornò poi all’orazione. (Selva, 222)
Confortate il vostro Dio
Ma Fra Tommaso sembra non rassegnarsi; sembra voler intervenire su quanto era accaduto quindici secoli prima, quasi fosse possibile modificarne il corso, con la stessa santa retorica con cui si pongono domande le cui risposte sono scontate.
O Dio, o angelo, che conforto inusitato date al vostro figliolo! O angelo, a questo modo confortate il vostro Dio che se ne sta in tanti dolori? Iddio eterno, quando che stanno li vostri servi e amici adolorati e afflitti e che si ricorrono alla maiestà vostra, li consolate, gli date dolcezza al cuore tale che mai si partino dalla maiestà vostra senza consolazione. Lo sanno questo le anime che lo prova, lo sanno tanti santi martiri e verginelle che nelli instessi tormenti e morte sentivano refrigerio, lo sa quel vostro gran servo Francesco, lo sa quel gran contemplativo il beato Egidio, che al solo nome de Gesù andava in estasi, e tanti altri che il raccontarli sarebbe troppo longo. E il vostro figliolo instesso a questo modo consolate, con prononziargli la morte? E si un principe mandasse a dire a un suo figliolo che il giorno sequente lo volesse far morire di atroce morte e che fusse innozente, di certo che questa nova gli saria un estremo dolore e principio de morte. E pure, o Iddio Padre eterno, chiamate conforto il mandar un angelo a prononziare una tanto atroce morte al vostro unigenito figliolo: non credete che questa morte gli sarà un principio de morte? O Dio, che novità è questa vostra? Che li martiri, cercando la morte, e’ gli era contento e refrigerio, e il vostro figliolo, pensandosi di morte, suda sangue andando in angonia che, si la divinità non lo soccorreva, saria morto. (Selva, 223)
«Che novità è questa vostra?». Fra Tommaso non è certamente impazzito, né sta bestemmiando: è il grido di disperato dolore che la sua anima leva di fronte all’inevitabile; è l’accentuazione di un paradosso, a tutto beneficio del lettore, ché mai abbastanza si potrà sottolineare questa grandiosa contraddizione, poiché in nessun’altra religione si dà che l’unico Dio sacrifichi se stesso come uomo, in remissione di peccati non suoi, ma dell’intera umanità.
L’angoscia di Cristo
Ma è pur sempre l’angoscia di Cristo che quasi ipnotizza l’attenzione di Fra Tommaso.
Non ti partire, o anima mia, e contempla come il tuo Dio stava alora, perché, essendogli ussito tanto sangue del suo santissimo corpo, era indebolito che a pena poteva trizarsi in piedi. Aveva anche una sete corporale che lo affligeva molto, ma molto più era la sete spirituale per la salute de l’anima tua. Abbi compassione, o anima divota, del tuo Iddio e si non hai altro da dargli da bevere, dagli delle tue lacrime, che si contentarà e gli smorzerai quella sete così ardente. E disse il povero Cristo: Tristis est anima mea usque ad mortem. [La mia anima è triste fino alla morte. Mt 26,38]. Da queste parole si può cavare quanto fussero grandi li dolori de Cristo ne l’orto, perché non muore già mai l’anima perché Iddio la creò immortale, e quel dire che l’anima de Cristo era adolorata fin alla morte volse dimonstrare quanto atroce fussero li suoi dolori non solo nel corpo, ma anche ne l’anima. E tanto furno più grandi quanto che l’anima è del corpo più nobile. E tanto più grande furno li dolori de Cristo quanto che fu quella anima e quel corpo de’ altri corpi e altre anime più beata e santa. […] E però fu grande la sua angonia ne l’orto. Questo misterio, o anima mia, debbi aver a cuore e frequentemente contemplare, piangendo e gemendo, e compassionar al tuo Dio che per tuo amore patì cose tali. O pupilla delli ochi mei, o Dio de l’anima mia, o vero consolatore, scolpite nel mio cuore questo misterio divotissimo, aciò giorno e notte lo contempli per gloria della maiestà vostra. (Selva, 224)
In nessun luogo Fra Tommaso riprende quel drammatico «Abbà! Padre!» (Mc 14,36), che è così carico di disperata forza emotiva, che, da sola, serve a spiegare come in quest’ultimo tentativo del Gesù uomo di sfuggire alla propria sorte, egli cerchi, in realtà, di riempire il fossato che separa la sua obbedienza al Padre dal comprensibile orrore per quella sofferenza.
Il Cristo del beato Tommaso suda, sì, sangue, ma accetta rapidamente la propria sorte, poiché è un Cristo ormai mediato da un millennio e mezzo di devozione appunto al suo sacrificio ed esso non è, dunque, eroico ma divino.