Papa Francesco torna spesso sul tema della «cultura dello scarto». Mentre continuiamo a pregare per una pronta guarigione di Sua Santità, ci siamo abituati a un’accezione negativa di questa espressione. Eppure ci può essere anche uno «scarto di misericordia», in questo caso e all’opposto, di sapore positivo, o uno «scarto generazionale», di per sé innocuo quando con esso si fotografa la differenza tra le generazioni. E che, tuttavia, può assumere toni drammatico se in famiglia la differenza tra le età e le generazioni diventale tale a tal punto da non parlarsi più o, se si parla, facendolo attraverso dispositivi linguistici che del dialogo hanno perso, nel paradosso, ogni sintomo. Ciò che può avvenire, purtroppo, anche in talune comunità religiosa, quelle di solito definite di «vita consacrata». Senza dubbio oggi abitiamo un mondo completamente trasformato rispetto a soltanto dieci anni fa. Per comprendere questo processo è utile tenere presenti tre dettagli che ci riguardano assai da vicino. Il primo è il nostro contesto, ossia l’Europa; il secondo è il modo con il quale l’inconscio collettivo giovanile percepisce il maschio e la femmina in quanto consacrati, proiettando, quindi, su di essi la possibilità di diventare umanamente tali, oppure no, al fine di realizzarsi; il terzo punta direttamente alla nostra fedeltà – o meno – all’intuizione originaria individuata dal nostro Fondatore, fedeltà che è «guardata a vista» dai giovani che ci attorniano.
La vita consacrata nata in Europa non è soltanto europea
Osserviamo lo scenario europeo. Detto in maniera molto realistica, a meno che non si inneschi prossimamente una «res nova» con l’inarrestabile crisi economica, i nostri Istituti religiosi non possono aspettarsi molto da un’Europa completamente invecchiata, che disprezza la famiglia e che ammicca alla modernità guardando ai suoi panni soltanto secolarizzati. Da questo angolo visuale i giovani non entrano in dialogo con la vita religiosa semplicemente perché: non ci sono; quei pochi che ci sono non hanno ricevuto una adeguata iniziazione cristiana in famiglia; quelli che l’hanno ricevuta temono potentemente di essere rubricati in una forma di vita sostanzialmente presentata come se fosse fatta di soli sacrifici e di privazioni. Fino ad arrivare ad affermare: «è troppo impegnativa da non farcela». L’unica via di uscita e di sopravvivenza che si prospetta agli Istituti di vita consacrata in Europa è quella di guardare oltre l’Europa, finché sono ancora in tempo, modalità che, infatti, viene immediatamente attuata dalle nuovissime fondazioni di cui ho parlato prima (Sermig di Torino, «Nuovi Orizzonti» di Piglio, (Frosinone), e molti altri ancora) e da quegli Istituti a diffusione mondiale che reputato un elemento oramai accessorio l’essere nati in Europa, essendosi sostanzialmente consolidati in altri Continenti. È duro ammetterlo, ma crogiolarsi troppo a disquisire sul rapporto tra giovani e vita consacrata all’interno del solo scenario europeo significa sottovalutare l’elemento teologico che oggi la Chiesa pulsa altrove[1]. Ciò nonostante, alla fine spenderò, comunque, un’ultima parola su questo ambito che – lo so bene – ci attanaglia.
Il rischio di una mancata promozione sociale
Il secondo punto fermo è il modo con il quale l’inconscio collettivo giovanile percepisce il maschio e la femmina in quanto consacrati. Anche se sono pienamente – e teologicamente – consapevole che non tutti i giovani negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sceglievano di farsi frati e suore «solamente» per acquisire una posizione sociale di prestigio, difficilmente ottenibile in altro modo, è inconfutabile l’affermazione che l’apparato motivazionale che li guidava tenesse conto anche di questa possibilità: l’entrata in un Istituto di vita consacrata stava in equazione, comunque, con un riconoscimento pubblico di stima ecclesiale e di rispetto sociale. Oggi, invece, il mondo è completamente cambiato e quello che noi conoscevamo non esiste, oramai, più. Per una serie di convergenze, nel XXI secolo la figura femminile e maschile ha raggiunto posizioni di prestigio professionale, culturale, economico e politico tali per cui essa non solo non sente più il bisogno di ricercarle nella compagine della vita consacrata, ma, anzi, fiuta in detta compagine il rischio reale di non ottenere mai quel traguardo promessogli dalla società. Cosicché chi oggi si fa frate, suora o sacerdote, lo fa solo per un’autentica scelta di fede, come peraltro esige la prospettiva evangelica, anche se la valutazione della mera prospettiva evangelica non colma il fossato tra giovani e vita consacrata che ho registrato come «decremento della posizione sociale»; e, probabilmente, è giusto che sia così.
Espresso in termini molto più semplici, una ragazza oggi deve essere fortemente motivata ad essere un’insegnate suora piuttosto che un’insegnante «laica»: deve essere spinta, cioè, da una scelta radicale di fede. A meno che non si insinui il DNA epigenetico della dimensione missionaria, peculiare dalla vita religiosa, dimensione che tratterò, però, alla fine.
Viene rispettato il carisma del Fondatore?
Il terzo punto è, forse, il più importante perché controlla esattamente la nostra fedeltà – o meno – all’intuizione originaria e individuata dal nostro Fondatore. Dicevamo che questa fedeltà è «guardata a vista» dai giovani che ci attorniano. È, infatti, sufficientemente perspicua la constatazione che se i francescani sono nati per osservare il Santo Vangelo alla lettera, nello spirito di «Madonna povertà», andando itineranti per il mondo a predicare la penitenza e la buona notizia, e oggi vivono asserragliati nel baluardo di sicurissimi Conventi residenziali dove non manca praticamente nulla, i giovani d’oggi traggano da soli le loro conseguenze. Guarda caso sono soprattutto i giovani europei a farlo, attrezzati dello spirito critico offerto loro dalla modernità. Ancora: se i Cappuccini, per fare soltanto un altro esempio, sono fuoriusciti dall’Osservanza francescana per una vita eremitica e contemplativa di più rigida povertà, mentre oggi non si differenziano quasi in nulla dagli altri «fratelli» francescani, non è necessario ricorrere allo strutturalismo di Claude Levi-Strauss[2] per ipotizzare l’impossibilità a motivare un giovane per la scelta degli uni piuttosto che degli altri, se non per fortuite occasioni messe in essere da una organizzazione della pastorale vocazionale che, nella vita consacrata, mai come in questi anni ha conosciuto sforzi enormi di investimento economico, affettivo e in termini di personale, a fronte di risultati piuttosto scarsi. Ma l’osservazione vale anche per tutte quelle Congregazioni femminili accumunate dalla stessa predisposizione pastorale, per esempio, all’attività educativa. Dove sta, guardando alla «cosa» – direbbe Aristotele – la differenza che motiva la giovane a scegliere l’una rispetto a un’altra? Voglio dire a scegliere di essere una suora insegnate, piuttosto che un’insegnate «laica» e pure professionalmente strutturata nella carriera?
Tuttavia, dal punto di vista teologico il vero problema alberga ancora più in radice e può essere formulato con questo interrogativo che i giovani si pongono anche senza dircelo: «potrò fare anch’io quello che ha fatto il Fondatore, che ho scelto ,entrando nella sua famiglia religiosa?». Se la risposta è positiva, allora possiamo cominciare a creare dei ponti tra noi e i giovani; se la risposta è negativa, quelli che entrano da noi o siamo riusciti ad ammaliarli, oppure prima o poi chiederanno l’esclaustrazione, anche se non tutti, anche se non subito. Lo ripetiamo: se un Istituto religioso femminile o maschile – utilizziamo adesso questo esempio, dopo quello dei francescani – è nato per educare i poveri e gli orfani, mentre ora è tutto dedito a formare l’intelligentia borghese della polis, stanziando, forse, una o due borse di studio per i bimbi poveri, i giovani guardano a distanza il fenomeno, ma, appunto rimanendo, nella loro distanza di sicurezza e traggono le loro conseguenze. Anche se, come facciamo tutti, essi riconoscono l’eroismo di quelle suore o di quei religiosi insegnanti che, personalmente, operano gratuitamente per «amore di Dio».
È ancora possibile passare ai fatti
Siamo giunti alla conclusione, dove avevo preannunciato che avrei esibito delle ipotesi operative molto concrete al fine di «passare ai fatti» ed evitare l’irreparabile, consapevoli, comunque, che a guidare la nostra storia rimane sempre lui, Gesù Cristo il Signore della storia universale. Le delineeremo sulla base del precedente triplice registro – Europa, promozione sociale, fedeltà al carisma originario – posizionandoci, in ogni caso, su una prospettiva ottimistica, che è, poi, quella cristiana, la quale, superando l’analisi empirica, coglie nel bersaglio la promessa evangelica che Gesù Cristo, Signore unico della storia, conosce la ragione di quanto sta accadendo e, soprattutto, rimane l’unico a guidarla provvidenzialmente.
Data la situazione europea, gli Istituti di vita consacrata dovranno operare in un’azione simultanea, che, da una parte, accorpi le forze, e, dall’altra, testimoni – grazie all’accorpamento – quel clima di famiglia così bramato dai giovani e dalle giovani. Ciò che papa Francesco stigma come «via dell’attrazione»[3]. Anzi, a quegli Istituti di vita consacrata che ancora lo possono fare, urge l’incombenza di trasferire il massimo delle forze rimanenti al di fuori dell’Europa, esattamente come risposta al problema che essi hanno di entrare in contatto con i giovani e, così, di salvaguardare il carisma. Perché noi religiosi e religiose italiani ci accaniamo – quasi – a (con)vincere i giovani europei orientandoli al nostro carisma, mentre molti e molte sono quelli extra europei che attendono di conoscerlo? Non è, forse, perché abbiamo paura di uscire dall’Europa e, così, ci accasiamo con quelli europei l’ennesima edizione della strategia operativa per la pastorale vocazionale?[4].
In merito alla questione della cosiddetta «promozione sociale», che i giovani oppure le giovani sembrerebbero non poter più trovare tra le nostre fila, dal mio ristretto angolo visuale pare, invece, che oggi risultino inderogabili, a questo proposito, altri due obbiettivi ben più importanti, dal momento che essi agiscono in radice sulle cause che determinano questa impressione di non venire umanamente e professionalmente «promossi» nella vita consacrata. Con il primo si dovrebbe affinare ulteriormente, e ancor di più, il discernimento da farsi sulle Candidate e sui Candidati alla nostra vita, perché troppi sono coloro che oggi si rifugiano in Convento per uscire dalla «loro depressione» e pochi sono quelli che entrano per portare davvero una ventata di «salute/salvezza»[5]. In questo caso, papa Francesco è ancora più esplicito dello scrivente: «Il fantasma da combattere è l’immagine della vita religiosa intesa come rifugio e consolazione davanti a un mondo esterno difficile e complesso»[6]. Se un giovane entra in un Istituto per trovare rifugio dalla sua zona d’ombra che è la malinconia dovunque palpabile per la mancata realizzazione affettiva, egli deprime ancora di più quell’Istituto e, nell’Istituto, chi, invece, dovrebbe essere promosso al proprio voler portare aria nuova.
Il secondo obbiettivo è perfino complementare a questo primo e tocca il nodo cruciale – oggi si può anche dire che siamo, a questo proposito, arrivati letteralmente a un «bivio» – dell’esercizio dell’autorità da parte dei superiori. Deve essere definitivamente chiaro che continuando a esercitare il servizio dell’autorità con il metodo nietzschiano della «volontà di potenza» come fanno alcuni superiori/superiore a dispetto del Vangelo e dell’ultima Istruzione della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica «Faciem tuam, Domine, requiram», i giovani del secolo XXI non ci capiranno mai o, forse, mai più. Cresciuti in un’atmosfera dove il principio democratico di esibire liberamente la propria opinione, assieme a quello di ottenere motivazioni comprensibili a ciò che viene detto loro di fare, essendo come i due binari ferroviari sui quali scorre tutta la loro esistenza, i «nostri» giovani europei rincorrono quelle nuove tipologie di vita consacrata dove intravedono l’esistenza di un dialogo e la possibilità dell’espressione liberadi se stessi, mentre rifiutano, pressoché totalmente, quelle dove l’autorità si impone pensando di essere ancora ascoltata dai giovani catechizzati, quelli degli anni Ottanta del secolo scorso, che oramai non ci sono più. Ma io credo di poter affermare, assieme ai numeri 13 e 14 della citata Istruzione, che oggi i giovani scappano – dentro e fuori gli Istituti – perché constatano come l’autorità semplicemente non osservi queste due disposizioni rivolte ai superiori. Il primo è il seguente:
L’autorità è chiamata a promuovere la dignità della persona, prestando attenzione ad ogni membro della comunità e al suo cammino di crescita, facendo dono ad ognuno della propria stima e della propria considerazione positiva, nutrendo verso tutti sincero affetto, custodendo con riservatezza le confidenze ricevute […]. La guida comunitaria è come il buon pastore che dedica la sua vita per le pecore, anche perché nei momenti critici non si tira indietro, ma è presente, partecipa alle preoccupazioni e alle difficoltà delle persone affidate alle sue cure, lasciandosi coinvolgere in prima persona; e come il buon samaritano, sarà pronta a curare le eventuali ferite. Riconosce inoltre umilmente i propri limiti e il bisogno dell’aiuto degli altri, sapendo far tesoro anche dei propri insuccessi e delle proprie sconfitte[7].
Il punto seguente fonda teologicamente e, quindi, giuridicamente lo sprone all’atteggiamento pastorale richiesto al numero 13:
Movendo dalla caratteristica natura di munus dell’autorità ecclesiale il Codice ricorda al superiore religioso che egli è innanzitutto chiamato ad essere il primo obbediente. In forza dell’ufficio assunto, egli deve obbedienza alla legge di Dio, dal quale viene la sua autorità e al quale dovrà rendere conto in coscienza, alla legge della Chiesa e al Romano Pontefice, al diritto proprio dell’Istituto[8].
Quanti religiose e religiosi, invece, vivono da decenni impietriti dalla paura del superiore oppure della superiora, senza che nessuno possa rendere loro quella consolazione che trovano, forse e soltanto, nella confessione sacramentale!Se questa sofferenza acuta permane, perché, allora, meravigliarsi ancora se i giovani ci stanno ben alla larga e se i nostri Istituti invecchiano verso il loro inesorabile tramonto?
Il terzo obbiettivo, quello attinente alla fedeltà effettiva ed effettuale al proprio carisma implica, a mio modo di vedere, un’opera di revisionismo totale, il quale non potrebbe, però, avvenire se non in missione, appunto fuori dall’Europa. Perché in Europa tutto sembra (dover restare) fermo nella vita religiosa. Eppure bisognerebbe, e costruttivamente, passare ai fatti. Ricordo – per portare solo un’altra metafora a modo di esempio – come durante il Primo Forum dei Ricercatori e Studiosi Cappuccini che si tenne nel 2005 a Venezia un Relatore, assai stimato in Italia, avesse chiesto al suo Ordine di ripristinare la fedeltà al proprio carisma rivedendo, almeno, la «presenza a ragnatela»[9]dei Conventi, ossia passando a quella tipologia di presenza che risponde con freschezza «alle attese di spiritualità degli uomini di un determinato tempo e luogo» essendo che «la concezione moderna dello spazio è inclusiva e non esclusiva»[10]. Dopo quasi un decennio, nulla è cambiato, se non che le ragnatele presenti nei Conventi semivuoti rubricano, giorno dopo giorno, una presenza che si vuole trattenere a ragnatela, assieme alla «polvere della storia»: appunto, letteralmente polvere e ragnatele in Conventi semideserti.
Eppure,nonostante tutto, fuori e dentro l’Europa rimane un’ultima opportunità che ci permetta di guardare oltre la fine della storia[11]. Essa consiste nel rimettersi in gioco sulla grande opportunità che abbiamo di essere per davvero «poveri in spirito» e «spiriti poveri», ossia coloro soltanto che, secondo Karl Rahner, sono gli unici artefici della storia (1904-1984). Proprio trenta anni fa, come fosse in questi giorni, il grande Teologo gesuita in una famosa conferenza dettata pochi mesi prima di morire ammise che:
Il risultato e il senso definitivo della storia salvata presso Dio non sono identici a quelli messi in luce dai grandi eroi della storia e della cultura. Secondo la fede cristiana, che su questo punto è antielitaria in maniera radicale, i benedetti del Padre, che possederanno il regno, sono i poveri e i piccoli, la «massa» grigia che gli storiografi hanno trovato interessante quasi solo come humus su cui hanno visto crescere le grandi azioni, le uniche per loro degne di essere prese in considerazione dalla storiografia. […] Pure questo problema non trova però in fondo la sua soluzione in una giusta gerarchia nella definitività del risultato della storia, bensì in quell’amore atemporale, in cui il risultato disinteressatamente amato della storia complessiva di tutti appartiene a ognuno[12].
In questo modo, Rahner rimaneva convinto che la maniera cristiana di leggere la storia fosse ancora una volta oggetto di fede, verificabile forse verso la fine della microstoria personale di ciascuno, se non addirittura rimandabile all’imperscrutabilità dell’eternità di Dio, come lo sarà anche il nostro profondo desiderio di fraternità e unità nella vita consacrata. E, infatti, sempre nello stesso scritto, apparso nel 1983, così concludeva: «pure all’interno del mondo le aurore vengono sempre pagate con tramonti»[13].
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[1] Lo notava già oltre quarat’anni or sono W. Bühlmann, La terza Chiesa alle porte, Edizioni Paoline, Alba (CN) 1975, pp. 89-123.
[2] Com’è risaputo Claude Levi-Strauss (1908-2009) afferma che se l’idea costitutiva di un gruppo non viene più sostenuta dalla maggioranza del gruppo o da esso custodita, il gruppo cessa naturalmente di esistere nella storia e l’idea si vanifica nel tempo: cf C. Levi-Strauss, Strutturalismo del mito e del totemismo. Con saggi di M. Douglas, a cura di Edmund Leach, (Paperbacks Saggi 92, Newton Compton, Roma 1975, pp. 312-325.
[3] Cf A. Spadaro, «Svegliate il mondo!». Colloquio di papa Francesco con i Superiori Generali, «La Civiltà Cattolica» 165 (2014) n. 1, pp. 4-15, qui p. 5.
[4] Cf G. Tacconi, Alla ricerca di nuove identità: formazione e organizzazione nelle comunità religiose di vita apostolica attiva, LDC, Leumann-Torino 2001, pp. 237-241.
[5] Cf U. Fontana, Senza perdersi. Professionalità e relazioni pastorali, Orientamenti formativi francescani, 12, Edizioni Messaggero, Padova 2005, pp. 227-253.
[6] Cf A. Spadaro, «Svegliate il mondo!», p. 10.
[7] Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Istruzione Il servizio dell’autorità e l’obbedienza [11 Maggio 2008], n. 13c-d , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 19-20.
[8] Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Istruzione Il servizio dell’autorità e l’obbedienza [11 Maggio 2008], n. 14a , Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 22-23.
[9] C. Peri, Il cammino dei Cappuccini in Italia dinanzi alle gioie e alle speranze dell’uomo oggi, in G. Pasquale – P.G. Taneburgo, ed., L’uomo ultimo. Per una antropologia cristiana e francescana, Teologia Viva 53, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006, pp. 35-63, qui p. 55.
[10] C. Peri, Il cammino dei Cappuccini in Italia dinanzi alle gioie e alle speranze dell’uomo oggi, in G. Pasquale – P.G. Taneburgo, ed., L’uomo ultimo. Per una antropologia cristiana e francescana, Teologia Viva 53, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006, pp. 35-63, qui p. 55-56. Poco dopo quel «Forum» Calogero Peri venne nominato vescovo di Caltagirone (2010), in Provincia di Catania.
[11] Cf G. Pasquale, Oltre la fine della storia. La coscienza cristiana dell’Occidente, (Ricerca 3), Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 136-142.
[12] K. Rahner, Storia profana e storia della salvezza, in Id., Scienza e fede cristiana. Nuovi saggi, IX, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 11-28, qui pp. 27-28.
[13] K. Rahner, Storia profana e storia della salvezza, p. 20.