Gli ultimi dati sulla pena di morte, pubblicati da Arnnesty Intemational, rappresentano una fotografia in più dei drammi che attraversano il nostro mondo e di cui, da un po’ di tempo, si parla sempre meno anche per l’emersione di tragedie ancor più grandi come le guerre in corso.
Invece ci si deve preoccupare per l’aumento delle persone giustiziate nel 2023: ben 1.153, cioè il 31% in più rispetto all’anno precedente. Si tratta del numero più alto registrato dal 2015, quando si erano raggiunte 1.634 esecuzioni, è la prima volta dal 2016 che il totale supera nuovamente le mille unità. Un’impennata ancora più significativa se si pensa che le esecuzioni sono avvenute in solo 16 paesi, il numero più basso mai registrato.
La pena di morte nel mondo
Tra queste nazioni spiccano l’Iran e l’Arabia Saudita, che insieme concentrano l’89 per cento delle esecuzioni, mentre non si conoscono i dati relativi a Stati come la Cina popolare, il Vietnam e la Corea del Nord. Al tempo stesso un numero importante di paesi nel 2023 ha compiuto passi decisivi per allontanarsi dalla pena di morte, segnando notevoli progressi contro questa condanna, che è giusto definire crudele, inumana e, per giunta, mai efficace sul piano della deterrenza.
Ciò vuol dire che, nonostante l’aumento delle esecuzioni, il movimento abolizionista ha compiuto negli ultimi decenni notevoli progressi. Basta pensare che nel 1976 erano solo 16 gli Stati che avevano abolito la pena di morte mentre oggi sono 144 quelli che non la utilizzano più per legge o di fatto. Significativo il fatto che è stata l’Europa il primo continente senza pena di morte. È bene ricordarlo alla vigilia delle elezioni europee. Ma anche che l’Africa si stia progressivamente avvicinando a questo traguardo, seppure tra mille difficoltà, grazie anche al prezioso lavoro portato avanti dalla World Coalition Againstthe Death Penalty e alla Comunità di Sant’Egidio che ci sono battute e continuano a battersi per questo obiettivo.
Non a caso nelle statistiche del 2023, pubblicate da Amnesty, dopo l’Europa (zero esecuzioni) e l’America (solo con gli Usa, che però sono una federazione di Stati), è l’Africa ad avere registrato meno paesi con persone giustiziate (in Egitto e Somalia) contro i 12 dell’Asia (tra medio ed estremo Oriente). Mentre negli Stati Uniti si registra un aumento del 33 per cento delle esecuzioni (da 18 a 24), non sono più avvenute in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sudan del Sud, tutti paesi che nel 2022 rientravano a pieno titolo in questa triste statistica.
Un altro dato allarmante è relativo alle 2.428 nuove condanne a morte del 2023, perché aumentate del 20% rispetto al 2022, ed è significativo che sia avvenuto in paesi attraversati da violenze e forti instabilità interne, come Iraq, Libano, Nigeria e Somalia. La cultura di morte rischia di allargarsi: terrorismo, guerre che non sembrano avere fine, reti criminali globali, narcotraffico. Sono eventi e fenomeni che determinano condanne a morte non ufficiali (extragiudiziali) ma comunemente sempre più accettate.
Le fasce più fragili
Ormai gli Stati non sono più gli unici attori ad avere il monopolio della violenza, con una crescita esponenziale delle violenze legate a motivi etnici, economici o di interessi. Ad esserne vittime sono soprattutto le fasce più fragili delle popolazioni. La pena capitale rappresenta la sintesi della disumanizzazione: è una pena irreversibile, viene data dai poteri pubblici, che dovrebbero difendere la vita, assomiglia a una vendetta, si basa sulla reciprocità con il male, lancia alla società un potente messaggio di legittimità della ritorsione. Prossimamente, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si riproporrà un nuovo voto a favore di una moratoria universale, promossa anni fa dall’Italia. Sarà un passaggio importante perché non si tratta solo di ribadire un principio: da quando è stato fissato quello standard etico e politico all’ONU ogni esecuzione è percepita come più pesante andando contro il sentire di una grande parte del mondo. Occorre ribadire con forza che non c’è giustizia senza vita e che, anche di fronte al delitto più grande, non è accettabile che sia lo Stato a decretare la morte di chi lo ha commesso.
Non è un sogno irrealizzabile – un giorno che si auspica il più vicino possibile – l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. Come in passato è stata abolita la schiavitù.
Tratto da: Comunità di Sant’Egidio
L’autore: Marco Impagliazzo (Roma 1962), è professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università per Stranieri di Perugia, di cui è Presidente del Consiglio di amministrazione dal 27 marzo 2014. Nell’anno accademico 2013-2014 insegna anche presso la Scuola nazionale dell’Amministrazione, dove tiene un corso su Religioni e culture dell’immigrazione in Italia e in Europa. Realtà e modelli a confronto. Dal 2003 è presidente della Comunità di Sant’Egidio (fondata da Andrea Riccardi nel 1968) Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio della Cultura, riconfermato per un quinquennio nel gennaio 2016. Dal 2012 è Consultore del Pontificio Consiglio per la pastorale dei Migranti e gli Itineranti. Nell’ottobre 2012 è stato Uditore al Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione.