Se da una parte il personaggio Gesù – secondo la logica comune – non aveva le caratteristiche per fare fortuna non solo come Messia (incontro 1), ma neanche come uomo (incontro 2), perché troppo miserino, dall’altra parte il suo messaggio si presenta come troppo impegnativo ed esigente per essere seguito. Come venditore proprio non è capace e il prodotto costa troppo. Per come è partito, nessuno avrebbe scommesso che quella proposta sarebbe stata in piedi. Sarebbe come scommettere che una squadra di calcio dell’oratorio vincesse la Champions. È assurdo, vero? Ecco, questa è la scommessa della fede nel Dio di Gesù Cristo.
I diversi modi di utilizzare il verbo credere
Credere è uno strano verbo in italiano perché contiene sia l’idea di sicurezza, sia quella di insicurezza. Infatti viene usato in modi differenti. “Credo che…” significa “penso che… ma non ne sono sicuro”. “Credo a… (qualcuno)” significa “mi fido e perciò accetto quanto mi dice”. Ad esempio: credo al medico che mi propone una cura; mi fido e accetto come valido per guarire qualcosa che per me non è verificabile e perciò mi rimane sempre, fino a guarigione avvenuta, un margine più o meno grande di dubbio. In questo caso credere è accettare come vero qualcosa che non mi è evidente e che tuttavia accetto sulla parola di persone in cui ho fiducia, non in base a prove di tipo razionale, ma in base ad “indizi” o “garanzie”. Prima mi fido della persona e poi accetto per vero quello che mi dice. Però, dato che non c’è l’evidenza, rimane sempre un margine di dubbio sul “valore” delle persone che mi propongono il non-evidente.
Il significato di “credo a”
“Credo a … (qualcosa)” significa “sono sicuro della verità di un’affermazione”. Ad esempio:“quello è uno che crede a ciò che fa”, cioè è assolutamente sicuro di ciò che fa e si butta con convinzione, rischiando e scommettendo in ciò che fa. Ma da dove viene però tale sicurezza? Ho fatto esperienza? Ho la dimostrazione razionale? O mi fido di chi me la garantisce? (se è così però ricado nella situazione sopra, cioè credo a qualcuno).
Il significato di “credo in”
“Credo in…” è invece quello che diciamo nella proclamazione della fede: credo in Dio. È un movimento di ingresso, è richiesto un tuffo di adesione. Entro dentro (non solo accetto). Mi implico. Un piano ulteriore che nelle precedenti sfumature non c’era: è qualcosa che mi condiziona, mi colora, mi cambia, mi chiede di rispondere e di risponderne. Una relazione.
Recitare il Credo a Messa
Oggi noi per identificare il nucleo della nostra fede usiamo l’affermazione “diciamo il credo” e così facciamo tutte le domeniche nella Messa. Se “il credo” è solo “detto” è dogmatismo, è qualcosa da imparare a memoria, da ripetere, da accettare e deglutire, e non necessariamente da vivere. Cambia qualcosa dopo che abbiamo “detto il credo” a Messa? Anzi quasi quasi lo consideriamo uno dei momenti più noiosi della Messa perché è lungo da recitare bla bla bla e diciamocelo sinceramente non pensiamo nemmeno a quello che diciamo. La riprova è che basta che qualcuno sbagli una parola ad alta voce e tutti si ingarbugliano perché si interrompe la modalità in automatico. Proviamo a fare un test. Nel testo che ripetiamo ogni domenica, quante volte diciamo la parola “credo”? Quattro. Tutti uguali? No, uno è diverso. Credo in un solo Dio padre onnipotente… Credo in un solo Signore Gesù Cristo… Credo nello Spirito Santo… Credo la Chiesa. “La” Chiesa e non “nella” Chiesa. Si crede “in” Dio Padre, Figlio, Spirito Santo e si crede “la” Chiesa come luogo e strumento del credere. Piano più basso.
Il Credo identificato con la parola “simbolo”
I primi cristiani, che avevano meno contesto cattolico rispetto al nostro, ma più fede di noi, invece che “dire il credo” lo identificavano con la parola “simbolo”. Non era una cosa da dire come la dicono tutti. Essendo in pochi dovevano “rendere ragione” di ciò che suonava strano. Per noi tutto è scontato per tutti e non ci rendiamo nemmeno conto di quello che diciamo. Se solo pensassimo che centinaia di persone sono morte martiri, assassinate per poter rivendicare il diritto di dire queste parole. E noi le biascichiamo a memoria. Non solo hanno “conformato” la vita, diventando coerenti a quello che dicevano, ma ci hanno “giocato” la vita, nel senso che sono stati perseguitati e uccisi proprio e solo perché dicevano queste parole. Noi smetteremmo di dirle subito anche solo se qualcuno ci minacciasse di rigarci la macchina.
Il significato di symbolon
La parola greca “symbolon” indicava la metà di un oggetto spezzato che veniva presentato come un segno di riconoscimento, di appartenenza, di impegno, di condivisione. Due individui, due famiglie o anche due città, spezzavano una tavoletta di solito di terracotta o un anello o moneta preziosa, e ne conservavano ognuno una delle due parti a conclusione di un accordo o di un’alleanza: da qui anche il significato di “patto” o di “accordo”. Il perfetto combaciare delle due parti provava la verità e completava l’accordo. Il verbo “syn-ballo” significa “mettere insieme, riunire”. Oggi ad esempio questa usanza antica viene usata a volte per i ciondoli degli innamorati: un cuore diviso in due di cui uno porta una metà e l’altro la seconda. Il termine “simbolo” in italiano sembra che non c’entri nulla perché è un segno che rimanda a qualcosa d’altro, in realtà la logica è la stessa: io ho un pezzettino (il disegno) e questo mi rimanda per completarsi alla realtà concreta che rappresenta e di cui ha bisogno per avere valore, alla realtà senza la quale non avrebbe alcun senso e valore.
La consegna dei tre tesori
La fede dunque era intesa non come qualcosa da imparare a memoria, ma come un legame di relazione profonda che ti completa. Per questo c’era proprio un rito particolare. Il Battesimo veniva dato solo agli adulti che avevano fatto un lungo cammino di preparazione. Una delle tappe significative era la consegna dei tre tesori della Chiesa: il vangelo, il simbolo e il padre nostro. Veniva consegnato il testo (traditio) e dopo un periodo nel quale era stato meditato e capito, l’adulto lo restituiva (redditio) perché non gli serviva più il testo in quanto lo aveva fatto suo. Non doveva “dirlo o ripeterlo a memoria”, doveva viverlo, dimostrarlo, professarlo.
La professione di fede come passione
Viene da qui quell’espressione che ogni tanto usiamo: “professione di fede”. La fede è una “professione” cioè una passione, un qualcosa che determina chi sei e cosa fai, proprio come il tuo mestiere, in cui da artigiano devi metterci cuore e testa per migliorare sempre di più.
Il sigillo
I romani, in latino, aggiunsero al significato di “symbolon” quello di “sigillo”, che al tempo era la firma del re che rendeva vero e importante un atto. Le parole scritte col sigillo diventano impegno, atto, realtà, decisione. Così per le parole della fede.
La fede è l’incontro
La fede quindi non è un elenco di affermazioni, di dogmi, ma è l’incontro con Qualcuno, il legame personale e vitale con Qualcuno. Il mistero non è una porta chiusa contro la quale sbattiamo la testa, ma è una finestra socchiusa su una realtà talmente grande che non riusciamo a comprendere pienamente perché inesauribile. Dio è Qualcuno che “mi ha preso” (inteso nel senso affettivo e effettivo del termine di quando una persona ci piace e questo non ci lascia più tranquilli e indifferenti): questa è una traduzione dell’io credo in Dio.
La fede è conoscenza
La fede non è un conoscere, ma è la conoscenza di qualcuno. Non è credere A qualcosa, ma IN qualcuno. L’amore non cresce accumulando informazioni su qualcuno, ma approfondendo la conoscenza, frequentandosi spesso. La prossima volta al “credo” non pensiamo che dobbiamo “dirlo”, ma pensiamo al fatto che è il pezzo di un legame importante e forte che ci è stato dato, appunto il “symbulon” e che qualcuno l’ha pagato caro per darne un pezzo a noi.