È proprio il Direttorio che, per ordine, crea una triplice cesura semantica tra devozioni, pietà e religiosità popolare. Per «devozioni» il n. 8 del Direttorio intende le «diverse pratiche esteriori […], che, animate da interiore atteggiamento di fede, manifestano un accento particolare della relazione del fedele con le Divine Persone». La pietà popolare, invece, designa le «diverse manifestazioni cultuali di carattere privato o comunitario che, nell’ambito della fede cristiana, si esprimono prevalentemente non con i moduli della sacra Liturgia, ma nelle forme peculiari derivanti dal genio del popolo o di una etnia e della sua cultura». Infine, la religiosità popolare, la quale «non si rapporta necessariamente alla rivelazione cristiana». Essa, in realtà, «riguarda un’esperienza universale: nel cuore di ogni persona, come nella cultura di ogni popolo e nelle sue manifestazioni collettive, è sempre presente una dimensione religiosa». Noi qui vogliamo parlare soprattutto di religiosità popolare, pur sapendo che i documenti magisteriali preferiscono utilizzare prevalentemente la locuzione «pietà popolare». Fin dal 1963, la Costituzione Sacrosanctum Concilium al numero 12 afferma che «la vita spirituale non si esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia», ammettendo, anzi raccomandando, altre forme di pietà e dando per esse degli orientamenti chiari, anche se tutt’altro che di facile applicazione (SC 13). Alcuni anni più tardi, la II Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Medellín del 1968 e, soprattutto, la III di Puebla del 1979, approfondirono con efficacia il rapporto evangelizzazione-religiosità popolare, là dove il tema emerge ricorrente in modo fondamentale, con una validità non soltanto per l’America Latina, ma per tutta la Chiesa. A dire il vero già l’Esortazione Apostolica Marialis cultus (1974) di Paolo VI prese nettamente posizione contro due atteggiamenti:
I pii esercizi
L’atteggiamento di alcuni che si occupano di cura d’anime, i quali disprezzando a priori i pii esercizi, che pure, nelle debite forme, sono stati raccomandati dal Magistero, li tralasciano e creano un vuoto che non provvedono a colmare; essi dimenticano che il Concilio ha detto di armonizzarli con la Liturgia, non di sopprimerli. In secondo luogo, l’atteggiamento di altri che, al di fuori di un sano criterio liturgico e pastorale, uniscono insieme pii esercizi e atti liturgici in celebrazioni ibride. Avviene talvolta che nella stessa celebrazione del sacrificio eucaristico vengano inseriti elementi propri di novene o di pie pratiche, con il pericolo che il Memoriale del Signore non costituisca il momento culminante dell’incontro della comunità cristiana, ma quasi occasione per qualche pratica devozionale. A quanti agiscono così vorremmo ricordare che la norma conciliare prescrive di armonizzare i pii esercizi con la Liturgia, non di confonderli con essa. Pochi mesi dopo, nel Dicembre dell’anno santo 1975, con l’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi Paolo VI ritornava nuovamente sull’argomento, creando, quasi la magna charta teologica e pastorale della religiosità popolare stessa. Nel capitolo IV dedicato alle «vie dell’evangelizzazione» Papa Montini (1897-1978) inserisce anche una vera trattazione della religiosità popolare perché essa, scrive Paolo VI: manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede, comporta un senso acuto degli attributi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione.
Paolo VI e Giovanni Paolo II
La religiosità popolare, in questo modo, risultava segnalata come una via privilegiata per l’educazione civica, la catechesi e la carità ecclesiale che qualsiasi operaio del Regno o cittadino della polis non potrebbe percepire se non come sua. Ai pastori e ai capi delle comunità ecclesiali, poi, Paolo VI suggeriva perfino l’ambito esatto di validità teologica della religiosità popolare, ossia il luogo «per le nostre masse popolari, [di] un vero incontro con Dio in Gesù Cristo», di cui si devono cogliere «le sue dimensioni interiori e i suoi valori innegabili». E concludeva dando alla religiosità popolare la definizione che gli spetterebbe propriamente: «A motivo di questi aspetti, noi la chiamiamo volentieri pietà popolare, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità popolare». La stessa teologia ha avvertito in campo religioso-antropologico l’intrinseca finalità educativa del tema in oggetto. La Commissione Teologica Internazionale nel suo documento del 1988 su Fede e inculturazione ha rivolto la sua attenzione a questo fenomeno, come ambito privilegiato di inculturazione della fede. Ha affermato, per esempio, che la religiosità popolare con i suoi valori, in quanto sintesi vitale, possiede una capacità di unificazione che comprende il «corpo e lo spirito, la comunione ecclesiale e l’istituzione, l’individuo e la comunità, la fede cristiana e l’amore della patria, l’intelligenza e l’affettività». Quello che, dunque, oramai oltre trent’anni fa circa Paolo VI scriveva alla Chiesa intera esattamente alla fine del penultimo anno santo, Giovanni Paolo II (1920-2005) lo ribadiva al termine di quello appena conclusosi in vista di evangelizzare il nuovo millennio che «si apre davanti alla Chiesa come oceano vasto in cui avventurarsi, contando sull’aiuto di Cristo». E le indicazioni ecclesiali riferentesi alla religiosità popolare che entrambi i pontefici evidenziano sono principalmente due. Innanzitutto, essa conserva la caratteristica inalienabile di essere nella Chiesa un bacino umano in cui la gente riversa il meglio dei suoi innegabili valori e della propria interiorità. Secondariamente, essa è il luogo reale in cui non gruppi prescelti, non assemblee preordinate, ma la massa, il popolo tutto — che pure appartiene a Dio — una tantum forse lo può incontrare in Gesù Cristo. Ma è soprattutto questa sottolineatura cristologica compiuta da Evangelii nuntiandi e da Novo Millennio Ineunte quella che mette definitivamente al riparo la riflessione del teologo in merito alla religiosità popolare e l’azione ecclesiale del pastore circa la permanente e definitiva validità educativa della stessa.
La leggerezza con la quale vengono formulati giudizi
A proposito dell’uso della qualificazione «popolare» applicata a «religiosità» o «pietà» e in merito al suo rapporto con la liturgia, sorprende la leggerezza con la quale vengono formulati giudizi – addirittura con la presunzione che siano di ordine teologico – senza tener minimamente in considerazione la vera mens presente nel Direttorio su pietà popolare e liturgia, ossia circa «l’eminenza della Liturgia rispetto ad ogni altra possibile e legittima forma di preghiera cristiana». Nessuno osa più oggi mettere in dubbio che la qualifica di «popolare» applicabile al concetto di religiosità proviene esattamente dalla storia, come precisa adeguatamente al n. 11 il citato Direttoriorapportando, come abbiamo osservato, la liturgia alle altre forme di religiosità o pietà popolare: «se le azioni sacramentali sono necessarie per vivere in Cristo, le forme della pietà popolare appartengono invece all’ambito del facoltativo». Entrambi i numeri 12 e 13 del Direttorio, poi, insistono sulla facilmente comprensibile distinzione tra liturgia e religiosità, proprio attorno alla determinazione «popolare» di quest’ultima, fino a giungere alla icastica – e doverosa – definitoria affermazione rintracciabile al numero 13: «si deve pertanto evitare la sovrapposizione, poiché il linguaggio, il ritmo, l’andamento, gli accenti teologici della pietà popolare si differenziano dai corrispondenti delle azioni liturgiche». Poiché la pietà popolare si sta, all’inizio di questo terzo millennio, concentrandosi sui dati essenziali della Rivelazione cristiana, e alla luce del fatto che la religiosità popolare in genere visualizza – e concretizza – l’insopprimibile bisogno che qualsiasi uomo ha di rivolgersi a un Dio a lui superiore, dal quale è certo di essere ascoltato, interessa a noi ora mettere a fuoco quella finalità educativa che, in un mondo globale, ne ratifica la permanente validità e attualità. A questo punto, noi dobbiamo adesso appurare se il fenomeno della globalizzazione sia completamente allogeno al cristianesimo in senso diacronico oppure no e, quindi, segnalare le coordinate con le quali la religiosità popolare situa in esso la propria virtualità educativa, avendo prima dimostrato in che cosa essa teologicamente consista.