Si è già detto che il fenomeno della globalizzazione può e deve essere interpretato in termini positivi: si tratta di un ambiente vitale contemporaneo nel quale il «sensus fidelium» può esibire tutte le sue insite virtualità e al quale il cristianesimo non è mai stato estraneo. Basta pensare ai suoi inizi. Anche allora, esso non si presenta come una religione a sé stante, ma come un particolare modo, una «strada» del giudaismo – proprio quella strada che, infatti, i Giudei chiamano «eresia» (At 24,14) – del quale si condividono le «promesse», con la pretesa che esse siano state adempiute nel Cristo. Questo legame con il giudaismo, nel momento in cui si sviluppa la missione nel mondo ellenico, viene messo in discussione tra ciò che nel giudaismo è caduco e appartiene solo all’Israele secondo la carne – la Legge paolina – e ciò che, invece, resta e viene compiuto in Cristo.
Cristianesimo e globalizzazione
La religione pagana, da parte sua, veniva ridotta, in questo passaggio, alla sua dimensione idolatrica e comunque, come esprime correttamente la categoria di «terzo genere», i cristiani erano convinti di non essere assimilabili né ai Giudei, né agli Elleni. Che la religione fosse anche altro rispetto alla sua modalità idolatrica, i cristiani furono liberi di ignorarlo fino al IV secolo, giacché essi non dovevano, per così dire, assumersi le responsabilità della «funzione» socio-culturale-politica di ogni religione. Era questo che con buona ragione, alla fine del II secolo, notava Celso e che Origene, con grande imbarazzo, cercava di respingere parecchi decenni dopo. Ma già con Tertulliano, il cristianesimo si serve della categoria di «religione» per definire la propria identità rispetto alla religione romana, che quindi sarà degradata al rango di «superstitio». A partire dal IV secolo, con la sostituzione progressiva della religione pagana mediante la «religione» cristiana, era pertanto inevitabile che il cristianesimo si assumesse le varie funzioni e responsabilità della religione, attenuando la propria dimensione escatologica. In questo modo possiamo già formulare un primo criterio – che poi designeremo «ecclesiale» – per il momento desumibile dalla storia, con il quale la religiosità popolare cristiana osava porsi in un ambiente anche allora globalizzato: il tentativo protratto ad ogni costo di non-assimilazione ad altre tradizioni, né prima, né dopo l’editto di Milano (313) e l’Editto di Teodosio (380), pur avendo dovuto subire il depotenziamento dell’intrinseca determinazione escatologica. Questo criterio, tuttavia, ribaltato nuovamente nel contesto storico da cui è stato desunto non ci permette di affermare che religiosità popolare e fede cristiana dovessero necessariamente entrare in conflitto, pur alimentandosi esse a due diverse sorgenti: la problematica immanente all’esistenza umana come tale e la sequela credente di Gesù di Nazareth – e quindi di una precisa figura disegnata dalla sua storia concreta – confessato come Cristo. È proprio la Sacra Pagina a suggerire come possibile – benché non certamente come l’unico – un altro metodo da quello della pedogogia-assorbimento e da quello della semplice condanna. Senza poter qui fondare nel dettaglio quella che preferisco presentare come ipotesi di lettura, si può affermare come, soprattutto nell’Antico Testamento, la dimensione religiosa dell’uomo sia riconosciuta con chiarezza sia pure sotto la continua tutela misericordiosa e critica al tempo stesso della parola profetica. Per altro verso, particolarmente nel Nuovo Testamento, questa dimensione religiosa sembra costituire un orizzonte diverso da quello della sequela di Cristo, quasi un orizzonte più vasto, all’interno del quale la sequela afferma la propria specificità, ma anche il proprio rispetto per qualcosa che resta «diverso».
La riflessione dell’antropologia culturale previa a quella della teologia
In realtà, il Dio della Bibbia si piega sull’uomo religioso, sulla sua domanda, sul suo bisogno. Non potremmo pregare i Salmi se rifiutassimo questa filigrana. Non possiamo, infatti, allegoricamente edulcorare la loro immagine di un Dio misericordioso, ma anche di «roccia del debole», suo protettore e vendicatore. Marcione li prendeva molto più sul serio di tante letture spiritualizzanti, che di fatto ne annullano la peculiarità. Giobbe ci impedisce, a sua volta, di giudicare questa immagine religiosa di Dio. Chi è, in fondo, Giobbe? È l’uomo religioso che chiede giustizia a Dio, che rivendica il diritto a essere trattato secondo le sue azioni, che pretende una corrispondenza tra il suo mondo e quello di Dio, che si scontra con il mistero insondabile di un Dio che dovrebbe essere l’esatta riproduzione del nostro bisogno di amicizia. Il Qohelet, poi, lascia la domanda religiosa in una sua apertura radicale e problematica e ne fa l’indice di un’eternità che l’uomo ha ricevuto nel cuore. La Scrittura divina forse non sarebbe umana se non avesse accolto il dubbio di Qohelet, se non l’avesse fatto suo. C’è una problematicità radicale presente nel libro del Qohelet, alla quale non si trova risposta, afferma il Qohelet. Certamente egli è sicuro che «Dio ascolta tutto» (12,13), ma il Qohelet non è in grado di sentire la risposta di ritorno, per cui davanti a Dio non resta che il timore e l’osservanza dei comandamenti, espressi nei sintomi della religiosità popolare. Tali fugaci esemplificazioni desunte in breve dai Salmi, da Giobbe e da Qohelet, stanno quindi a dimostrare come sia impossibile leggere e pregare la Scrittura senza rispettare questa dimensione religiosa dell’uomo, con tutti i suoi antropomorfismi. La sofferenza dell’uomo, il suo bisogno, meritano da noi una misura di rispetto e di ascolto che deve cercare di approssimarsi alla misura stessa che Dio usa, secondo la testimonianza biblica. Senza voler integrare altri dati, in questa ipotesi di lettura non si può, tuttavia, tralasciare qualche allusione. Ad esempio: l’esistenza di un culto alla raffigurazione taurina di Dio non viene condannata dai profeti più antichi. Parimenti la pratica dello herem, dello stermino sacro, viene codificata a un certo stadio della religione israelitica.
Altre esemplificazioni
E ci sarebbero pure altre esemplificazioni. Lo schema di lettura secondo il quale si tratterebbe di stratificazioni primitive e successivamente superate, nello sviluppo della rivelazione biblica, è troppo semplicistico. Giacché rimane da sapere in che misura questo superamento sia frutto della Rivelazione in quanto tale e non anche un dato esso stesso socio-culturale. E, comunque, poiché l’esistenza di una donna e di un uomo sono un tutto, resta il fatto che, all’interno dell’orizzonte biblico, uomini e donne siano vissuti proprio così, davanti al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Proprio con questa religiosità popolare. Esiste, insomma, un dialogo tra Dio e l’uomo che viene prima della costituzione stessa dell’orizzonte cristiano e che non viene del tutto assorbito all’interno di questo orizzonte una volta che esso si è costituito e che oggi si potrebbe delineare come orizzonte globalizzato. Nel fenomeno religioso dell’umanità, in tutte le sue espressioni, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni, affiora la trama di questo dialogo. In questo senso sarebbe fortemente limitativo e riduttivo, per la teologia della storia della salvezza, dire che nelle religioni è presente solo la conoscenza naturale di Dio. Ma non è soltanto l’Antico Testamento che ci impone una visione magnanima del fenomeno religioso popolare. Anche all’interno del Nuovo Testamento le Beatitudini pongono una conoscenza di Dio, quella dei puri di cuore, che non sembra possa essere immediatamente identificata con la conoscenza cristiana di Dio. L’orizzonte delle Beatitudini è, infatti, extraecclesiale. I discepoli partecipano ad esse solo nella misura in cui testimoniano la causa di Gesù. Esse, nel loro tenore originario, non descrivono le condizioni morali per partecipare al Regno di Dio, bensì la sovranità di Dio sulla storia, che si esprime attraverso la sua predilezione per coloro che non hanno posto secondo il metro comune della valutazione umana. Da questo esatto angolo visuale, le Beatitudini, e in genere l’annuncio del Regno da parte di Gesù, ci rimandano a una storia più ampia di quella cristiana, di cui Dio è il vero sovrano. Un confronto autentico con la religiosità popolare presuppone, quindi, una profonda accoglienza, una saggezza evangelica che è ben diversa da ogni sociologismo. Si tratta, infatti, di accogliere la gioia vitale e la sofferenza della gente, quale si esprime nella religione vissuta dal popolo, persino nei suoi tratti «pagani» – oggi chiaramente globalizzati nel fenomeno della riemergenza del sacro – , instaurando un rapporto pastorale dove ognuno possa collocare la propria fame e il proprio bisogno, l’angoscia della morte e dell’assenza, ma anche la gioia «mondana» del vivere, in una esperienza di misericordia.
La finalità educativa
Proprio da quanto si è sin qui detto, si può anche affermare che la radice teologica che spiega la finalità educativa della religiosità popolare è soltanto una: il fatto che essa sia un frutto dello Spirito che realizza la continua autorivelazione di Dio all’uomo in Cristo. È un dato assodato della teologia della Rivelazione che la rivelazione originaria di Dio viene mediata proprio anche attraverso la vita religiosa del popolo, perché essa diventa precisamente solo così una rivelazione udita e creduta, nei modi che solo Dio conosce (DV 2; 8). Pertanto, pur essendo completamente inseriti nel processo attuale di globalizzazione, non si può certo mettere in discussione il fatto che la finalità educativa della religiosità popolare trattenga, ancora oggi, una triplice virtualità: abilitare il credente alla relazione interpersonale tra egli che è soggetto e il Dio che è persona agevolando, così, l’eventualità che Dio sia conosciuto nel cristianesimo appunto come persona, far crescere la Chiesa nelle anime, e, quindi, condurre il cristiano all’edificazione della comunità con la sua fede, speranza e carità. Questa triplice virtualità costituisce anche un secondo criterio di ordine antropologico. È in questa capacità educativa che la religiosità popolare può non soltanto trasmettere simbolicamente – e quindi efficacemente – la fede in un contesto di globalizzazione, ma può addirittura autenticare come credibile per il villaggio della globalità quella stessa fede che, così, viene trasmessa. Se la religiosità popolare ha la stessa caratteristica della profezia neotestamentaria, non vi può essere mai un’espressione di devozione popolare contraria al devovere se stessi alla gloria di Dio e al devovere se stessi ai fratelli e alle sorelle. Parimenti, è impensabile una religiosità popolare che faccia leva sul timore connesso alla predizione di cataclismi futuri, di pene oppure di castighi. L’autentica religiosità del popolo a Dio e al popolo dei pastori è quella che edifica la comunità (criterio ecclesiale) e parla agli uomini e alle donne (criterio antropologico), distribuendo speranza, perché proprio questa è la sua determinazione e la sua risorsa profetica.
Un desiderio di vedere Dio «secondo natura»
Se vedo giusto – e in limine a queste mie riflessioni – la finalità educativa della religiosità popolare in tempo di globalizzazione si esprime adeguatamente con la seguente immagine, applicabile sia a un’ermeneutica teologica della città, che all’altra riscontrabile nell’homo vicanus: in qualsiasi luogo del mondo che sia abitato da un essere umano, proprio lì viene espresso quel desiderio connaturale di rivolgersi al numinoso soprannaturale «presente» nel mondo della vita. Là dove, poi, questo numinoso soprannaturale dispone, con parole e segni, la pretesa di essere divino, la religiosità si trasforma in risposta data al medesimo desiderio dell’uomo di essere sicuro-di-sé, assumendo le vesti del conferimento di una certezza di speranza (Rm 5,5). Questo rapporto naturale-soprannaturale, poi, non viene rubricato dal processo di globalizzazione, quanto da questa ratificato: in ogni città, nella penombra di una Chiesa, si può scorgere un uomo di affari in ginocchio davanti a una statua della Vergine Maria, come in qualsiasi villaggio del lontano oriente si può immortalare, con un apparecchio fotografico, una donna assorta a pregare il suo dio. Nemmeno quell’ambiente che noi pensiamo essersi impunemente chiuso nell’egoismo della «globalizzazione del peccato» sfugge al desiderium naturale videndi Deum. Chi scrive ha conosciuto personalmente le persone più lontane dall’esercizio «normale» della cristianità o della moralità. Eppure, tutte mi hanno confessato di «pregare» – o hanno chiesto che pregassi – quando sono venute a conoscenza che ero un credente. Come si può, infatti, non ammirare quella rivelazione di Dio «non categoriale» così potentemente presente nelle anime delle nostre mamme e dei nostri papà quando li intravediamo recitare la preghiera esicastica del Rosario, oppure quando, ascoltando anche il brano della musica più «profana» percepiamo la voce umana in ricerca sincera dell’assoluto o quando, pensosi, osserviamo decine di giovani adagiati sulle mura della Santa Casa della Vergine lauretana e altre migliaia in ginocchio nella cova d’Iria a Fátima? Nessun teologo potrebbe, infatti, misconoscere le autentiche tracce dell’esistenziale soprannaturale che ciascun uomo e ciascuna donna per sé possiedono, ma solo (ri)conoscerle nella loro finalità educativa, che, appunto, è un’autentica risorsa ecclesiale[2]. Proprio come si legge nel libro di Tobia, nell’ultimo discorso del padre Tobi al giovane rampollo Tobia: «tutti abbandoneranno i loro idoli, che lo hanno fatto errare nella menzogna e benediranno il Dio dei secoli nella giustizia. […]. Ora figli vi comando: servite Dio nella verità e fate ciò che a lui piace» (14, 6.8).