Vent’anni fa, il 12 novembre, si è consumato il ground zero degli italiani. Alle 10,40 di Nassiriya, Iraq, le 8,40 da noi, vennero uccisi in un attentato terroristico 12 carabinieri, 5 militari dell’ esercito e due civili. A Nassirya ci sono stato. Ci ero arrivato con un volo dell’Esercito Italiano, verso la fine di ottobre proprio di veni anni fa. Dopo una quindicina di giorni, passati tra Nassirya, Bagdad e Falluja per raccontare ciò che stava accadendo, il 9 novembre 2003, tre giorni prima dell’attentato, sono salito su un C 130 che mi ha riportato in Italia. Sono stato nella base dell’attentato. Ho conosciuto i militari e carabinieri che sono morti. Il 13 novembre 2003, sul quotidiano La Stampa usciva questo articolo. Ve lo riproponiamo per non dimenticare.
«Nella base prima del massacro»
di Luigi Tornari
NASSIRIYA – Ci eravamo dati appuntamento per bere insieme un Daiquiri a metà di dicembre, quando sarebbe ritornato dalla missione in Iraq. L’antica Mesopotamia non concedeva pause di relax. Massimo Ficuciello era un riservista, lavorava nell’ufficio cambi milanese di una banca. «Sono un po’ stanco dei numeri. Mi prendo una pausa e vado in Iraq. Poi deciderò», mi aveva detto poco prima di partire per Nassiriya, un mese fa. Novanta giorni di ferma volontaria. Gli avevo chiesto di aiutarmi per trovare il modo più rapido per farmi arrivare in Iraq con un volo militare.
Mi ha organizzato il trasferimento e, 15 giorni fa, sono arrivato in Iraq. «Servono persone che parlano bene inglese e mi hanno chiamato». Figlio del generale Alberto Ficuciello, Massimo si era laureato a Londra. A Nassiriya era inserito nello staff della Pubblica Informazione, agli ordini del colonnello Gianfranco Scalas. Il tenente Ficuciello, insieme con un’altra delle vittime dell’attentato, il maresciallo Silvio Olla, per quattro giorni ha accompagnato i giornalisti nelle varie basi del contingente italiano di stanza nel Sud dell’Iraq. Anche in quella dell’attentato di ieri.
Dall’ufficio stampa interforze, nel campo di «White Horse» dove alloggiano i soldati dell’esercito, poco fuori Nassiriya, nella polvere della pianura desertificata da Saddam Hussein per sottomettere gli sciiti, si percorrono sette chilometri a bordo di mezzi blindati. Poco prima di un ponte sull’Eufrate si arriva alla base «Maestrale», la sede del comando dei carabinieri di stanza in Iraq. La stessa strada che ieri, come ogni giorno, Olla, Ficuciello e gli ufficiali dell’ufficio Pubblica Informazione hanno percorso. I contatti tra le forze armate in Iraq sono quotidiani. La base ha una superficie pari a quella di un campo da calcio. Una sbarra bianca e rossa, una garrita verde avvolta nel filo spinato e un mezzo blindato costituiscono l’ingresso. Oltre, una strada lunga una ventina di metri. Ai lati una decina di barriere di cemento occupano, sfalsate, il percorso di accesso.
Il «compound» si snodava sulla destra. Subito una palazzina di mattoni, quella sventrata dall’esplosione. C’erano alcuni uffici e la zona ricreazione. Nel cortile una trentina di mezzi militari blu. Sulle portiere la scritta «Carabinieri», in italiano e in arabo. Più in là un’altra costruzione, a due piani, verde e beige. Un’inferriata, sormontata da filo spinato, separa la caserma dalla riva destra dell’Eufrate. Dal cortile si vedeva un ponte, seminascosto dai container vuoti utilizzati per trasportare il materiale del Genio. Questa zona non è stata toccata dalla deflagrazione. Più in là ancora, gli alloggi delle truppe. Da una parte le tende gonfiabili con le brandine e gli armadi da campo arrivati quest’estate. Dall’altra alcuni alloggi prefabbricati, ancora in fase di allestimento. Piccole camere nelle quali avrebbero dormito gli ufficiali.
La vita si svolgeva con ordine ma è molto intensa. «Non abbiamo la libera uscita, quindi siamo sempre concentrati sul nostro lavoro – racconta un maresciallo -. Sono quattro mesi faticosi ma gratificanti. Aiutiamo una popolazione a rinascere e questo mi basta». Il tenente colonnello Gino Micale, comandante del reggimento «Msu» («Multinational specialized unity») lavora in un ufficio spazioso. Un tavolo da riunioni ovale, cartine alle pareti e un frigorifero bianco. «Il nostro rapporto con la popolazione locale è ottimo – dice -. E’ una delle prerogative dell’Arma quella di avere dei contatti a misura d’uomo con i cittadini. Accade in Italia e qui è lo stesso. Siamo carabinieri. Stiamo addestrando la polizia irachena. E’ uno dei nostri compiti. La situazione è relativamente tranquilla, ma il nostro stato d’allerta è massimo». Il tenente colonnello Micale in Italia comanda il Nucleo della provincia di Napoli. Offre un caffè italiano, orgoglioso del sapore ricreato a 4 mila chilometri da casa. Anche la mensa della base dei carabinieri ha molto di italiano. Spaghetti aglio e olio e arrosto ai funghi era il menù di mercoledì scorso, rigorosamente mediterraneo. Le materie prime arrivano dall’Italia.
Una quarantina di tavoli rettangolari disposti su tre file, in un capannone bianco. Sul fondo quello riservato al comandante del contingente, il colonnello Georg Di Pauli. E’ un paracadutista, dal fisico asciutto, con un viso spigoloso. «Stiamo lavorando bene – dice -. Siamo professionisti, abituati alle missioni all’estero. Molti di noi sono già stati in Kosovo e Somalia. Le differenze? Ogni missione è diversa dall’altra».
Torno a Nassiriya, dopo essere stato nel Nord dell’Iraq. Da Baghdad e Falluja le parole più lievi nei confronti degli americani, tra i funzionari dell’amministrazione civile e tra la popolazione, sono quelle di «invasori e colonizzatori». «E’ legittimo attaccare i marines per difendere il proprio Paese – dice il segretario dell’amministrazione civile di Falluja, Ahsid Al Rashid -. Siamo come in Palestina e in Somalia». Prima di rientrare in Italia, chiedo a uno dei miei interlocutori a Nassiriya quando sarebbe toccato a lui tornare: «Sono i miei ultimi 15 giorni qui. Gli americani li chiamano i maledetti ultimi 15 giorni». Così è stato.
Le parole di oggi del presidente Mattarella
La “partecipazione nelle missioni internazionali per la pace” “in tante travagliate regioni del mondo” che “l’Italia ha sviluppato in questi anni a servizio della comunità internazionale e dei diritti dei popoli”, “è il segno dell’impegno e del contributo del nostro Paese allo sforzo concreto della comunità internazionale per combattere gli orrori e le atrocità delle guerre e del terrorismo”. Lo scrive il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al Ministro della Difesa, Guido Crosetto in occasione della Giornata del ricordo dedicata ai Caduti, militari e civili, nelle missioni internazionali. “La Giornata del ricordo dedicata ai Caduti, militari e civili, nelle missioni internazionali per la pace – si legge nel messaggio del capo dello Stato – ricorre nel ventesimo anniversario della strage di Nassiriya, ove, a causa di un vile attentato, morirono 19 italiani tra soldati, carabinieri e civili”. “Il sentimento del lutto – sottolinea – ci accompagna in questo giorno in cui la Repubblica rivolge il suo pensiero ai tanti feriti e caduti nelle missioni che l’Italia ha sviluppato in questi anni a servizio della comunità internazionale e dei diritti dei popoli, insieme all’espressione della solidarietà e vicinanza alle famiglie colpite. La partecipazione a queste importanti operazioni in tante travagliate regioni del mondo, è il segno dell’impegno e del contributo del nostro Paese allo sforzo concreto della comunità internazionale per combattere gli orrori e le atrocità delle guerre e del terrorismo”. “I contingenti schierati e le collaborazioni portate avanti sotto l’egida delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e della Nato – aggiunge Mattarella – testimoniano l’intento di difender ii valori della pace e della cooperazione, del rispetto della dignità delle persone e dei popoli”. “A quanti sono impegnati oggi nelle zone di crisi, mettendo a rischio la propria incolumità in nome dei nobili principi sanciti nella nostra Carta costituzionale, va l’apprezzamento e la riconoscenza di tutti gli italiani”, conclude.