«È tempo di mettersi in gioco». L’ha detto ai ragazzi al termine della partita, esortandoli a trovare occasioni di socialità vere e a impegnarsi sul campo della vita reale più che in quello virtuale della rete. L’ha detto e l’ha messo in pratica, il vescovo Domenico Pompili, dando l’esempio in prima persona. Perché alle nuove generazioni servono azioni concrete, come quelle che si consumano confrontandosi su un campo da calcio, per arrivare a segnare dei goal. Metafore calcistiche, da sfoderare contro «l’inazione da sfiducia e da depressione che è purtroppo ricorrente tra i ragazzi», osserva.
A bilancio della partita, cosa possono trovare i giovani nella pratica dello sport?
Lo sport è un’occasione per misurare se stessi. Esige un confronto con la propria dimensione fisica ma, al tempo stesso, è motivo di raffronto con gli altri. Per imparare ad accordarsi e stabilire un gioco di squadra. Un aspetto estremamente importante per uscire da quell’isolamento istintivo che ci viene dato in dote come frutto di una condizione un po’ impaurita e congelata.
Vale per i ragazzi. Ma questo ragionamento può essere ampliato agli adulti, in un momento come quello attuale, in cui parecchie cose (a partire dalla politica) dividono?
Lo sport rappresenta una maniera per solennizzare i tempi di pace. In fondo cosa è, se non un’azione gratuita, almeno quella dilettantistica, per sperimentare uno spazio privo di scopo? Che ci fa emergere per quelli che siamo realmente, senza essere condizionati dalla logica del profitto che spesso è alla base delle tensioni che viviamo nel quotidiano. Anche una passeggiata può essere un’azione senza scopo, che aiuta a ritrovare quella dimensione che cova sotto la pressione delle cose da fare, che ci riduce come Charlie Chaplin, in Tempi moderni, tra gli ingranaggi del sistema.
Da ragazzino giocava a calcio?
Sì, nei tornei di paese. In seminario, nel tempo della ricreazione, si dedicava parecchio tempo al pallone e a diversi altri giochi di squadra. All’epoca, c’era comunque il desiderio di far fare esperienze di gruppo, anche fisiche, incentrate sullo sport.
Da vescovo, invece, le è capitato di indossare gli scarpini?
A volte, in maniera altalenante e a livello amatoriale. Da prete ho giocato tante volte e da vescovo, ad esempio ho disputato la Partita del cuore dopo il sisma di Amatrice. Pochi minuti però…
A detta degli allenatori, ha dimostrato di avere il gioco nelle gambe…
Mi manca la possibilità di allenarmi e faccio come certi sessantenni che rischiano di stramazzare al suolo. Lo sport che pratico di più è camminare, per una mezz’ora al giorno a piedi o sul tapis roulant. Mi consente di muovermi rispetto allo stare seduto che è la postura più consueta del partecipare a incontri e riunioni.
In campo, c’è stata affinità. Come ha trovato i ragazzi?
Accoglienti, fin troppo incoraggianti. Come sono i ragazzi di oggi: immediati, senza pregiudizi di sorta, coinvolgenti e capaci di stabilire immediatamente un rapporto nei confronti della persona che hanno davanti, indipendentemente da quello che uno è».
Non capita tutti i giorni di giocare con un vescovo. Per che squadra tifa e qual è il suo calciatore preferito?
Tifo Cagliari, perché mi ha tenuto fuori da qualsiasi tensione rispetto allo schierarmi per club blasonati, e il mio giocatore preferito è Gigi Riva. Da quando sono a Verona, però, sono andato a vedere qualche partita dell’Hellas. E anche io, lo devo ammettere, soffro per le sorti della nostra squadra e prego».