Mai così tanti poveri in Italia: è questo, al di là del numero (cinque milioni e mezzo), il vero dato del Rapporto Caritas 2022, dal titolo emblematico “Anello debole”, pubblicato il mese scorso. È l’istantanea del 2021 nero-fluorescente dell’Italia: l’Italia nascosta, anonima, in stato d’affanno. Che non ce la fa più a vivere con dignità, senza dovere pagare il dazio dell’umiliazione, della gogna pubblica.
Si nasce già indebitati
A guardare i volti nascosti dietro l’aridità di numeri, percentuali, dati e previsioni ciò che incuriosisce e impensierisce è il fatto che questa povertà è la vera eredità che stanno intascando le facce giovani: si nasce già indebitati, tutta la vita diventa una sorta d’espiazione d’una condizione che t’inginocchia quando sei ancora piccolo, impotente. Dipendente. Ereditieri di una schiavitù logorante.
La Chiesa loda la povertà
La Chiesa, spesso, ama lodare la povertà, fino quasi ad apparire offensiva con chi, poi, fa i conti per davvero con la povertà. È vero che san Francesco d’Assisi la chiamava “sorella”, che tanti altri l’hanno amata alla follia come il più affettuoso degli amori. Quella di costoro, però, è una povertà cercata, scelta: il giovanotto di Assisi era un “figlio di papà” che, sfibrato e schifato dalla ricchezza paterna, scelse questa “madonna” come sua sposa.
La povertà non è affatto bella
Non per tutti è così: per chi non se la sceglie, la povertà non è affatto bella. Al di là dell’aspetto materiale, è dal punto di vista psicologico che la povertà ti morsica: lasciandoti addosso quel senso di precarietà, di insicurezza, di rabbia, di angoscia che ti mette in quella bastarda condizione di essere poco libero, subalterno, impedendoti di dare una forma e una fisionomia al tuo avvenire. Abbiamo un bel da fare, noi cristiani (o presunti tali), nell’ostinarci a dire: “Beati i poveri quaggiù, saranno felici lassù”. Quando si vive nell’angoscia, però, persino il pregare diventa difficoltoso. E la meraviglia, lo stupore, l’estasi diventano orizzonti inimmaginabili. Terre proibite.
Alla mercé del primo che passa
Sono un figlio debitore della civiltà contadina, quella cresciuta lavorando la terra. Nelle poesie, nei quadri, nelle elegie la terra è bellissima: ma lo è quando sei tu a sceglierla, magari come passatempo in una vita benestante. Quando la terra, invece, è l’unico orizzonte a disposizione non è più un lusso, è angoscia. Così è anche della povertà: c’è la povertà scelta – come via per una santità, per una passione umana, per una ricerca dell’essenziale –; c’è la povertà ereditata, che ti fa sentire fiacco e stremato ancora prima di conoscere quale sarà il posto che ti spetta nel mondo. E questa, al netto di qualsiasi credo, è un qualcosa che spaventa. Perché mette l’uomo e la donna alla mercé del primo che passa.