In questo passo vogliamo rispondere alla precisa domanda formulata sopra: che cosa intendevano esattamente i Padri conciliari quando coniarono il concetto di «storia della salvezza»? La risposta appare molto semplice, la sua articolazione speculativa un po’ meno. Innanzitutto, la storia della salvezza è quell’unica storia che all’uomo spetta di poter vivere, celata (verborgen)[1] dietro le quinte della storia del mondo e in essa avvolta (verhüllt) come in un velo[2]. Detto in altre parole, la storia della salvezza, ovvero tutto il bene che ci aspettiamo da Dio in quanto Dio[3], è la storia della libertà tra Dio che si rivela redentore e l’uomo che ascolta, semplicemente. Anzi: solo dove c’è libertà, proprio lì accade la storia della salvezza poiché il vero compimento della storia personale della libertà si verifica soltanto nell’accettazione piena di amore e incondizionata di Dio, così come egli è.
È a questo livello che si inserisce il binomio – già anticipato – che rapporta la parola veritativa alla storia: per comprendere la storia come salvezza è necessaria una parola che spieghi perché quella storia è salvata e non, invece, dannata[4]. È necessaria, insomma, una Rivelazione, essendo proprio vero che nessuna cosa riavvicina laddove la parola manca[5]. Dopo aver affermato che la storicità dell’uomo gli impone un rivolgimento alla storia perché solo nella storia si ode la parola, la teologia di Dei Verbum ne conclude, allora, che il vero, il buono, il bello, l’uno, non sono decisi sulla base della nostra vita individuale così breve, ma dalla categoria di rivelazione che pure possiede una storia (Ez 17,24)[6]. Proprio questa interpretazione sgombera subito il campo da un dubbio che era foriero di parecchie perplessità, ossia se il punto di partenza debba essere dato alla rivelazione o all’uomo posto dinnanzi ad essa. Dopo quanto si è detto, almeno nei primi due schemi di Dei Verbum è chiaro che vi è una precedenza della rivelazione sull’uomo, visto che il Concilio lega così strettamente il concetto di «storia della salvezza» a quello di «storia della rivelazione», legame che, per essere capito, dobbiamo adesso spiegare, declinandolo per comodità in quattro tesi. Questo è pure un altro modo – negli intenti il meno inadeguato possibile – per tradurre il titolo dell’intervento che mi è stato assegnato: «la fede come risposta a Dio che si rivela».
Prima tesi: solo nella storia la rivelazione si storicizza
Si è già affermato che, affinché l’uomo possa darsi ragione di quanto accade, deve ascoltare la bassa, ma continua, frequenza della parola di Dio pulsante come un cuore nella storia. In realtà, solo nel tempo uno può udire l’eterno che parla. Succede, allora, che soltanto nella storia vi è la storicizzazione dell’autocomunicazione di Dio; anzi, solamente nel tempo la grammatica del rivelarsi divino diventa parola degna di un alfabeto perché l’autocomunicazione di Dio agisce per grazia quasi formale (non efficiente)[7]. Questo implica, molto semplicemente, che la grazia di Dio opera sempre e dappertutto e, al contempo, che la salvezza non si realizza in modo storico, bensì solo come affermazione creduta e sperata o, se si vuole, confessata (Gv 9,37-38)[8]. Tale «affermazione» distingue esattamente la storia generale della salvezza da quella profana, pur essendo l’una materialmente coesistente all’altra.
Tutto ciò non può, però, far concludere che il concetto di «storia della salvezza» si riduca a mera interpretazione o che la rivelazione storica sia pura mitologia. Dei Verbum rinvigorisce, piuttosto, un caposaldo della teologia cattolica che riconosce come la libertà nella ricezione della salvezza non sia semplicemente afferrabile, così come Dio, che è la salvezza, non si può assolutamente afferrare nella storia[9].
Seconda tesi: lo storico-salvifico appartiene alla storia in quanto tale
Vi è, quindi, una storia generale della rivelazione che si distingue da quella specificamente cristiana. Quella cristiana è specifica perché non suona ovunque e sempre, avendo uno sbocco in un segmento spazio-temporale ben definito: i trentatré anni della vita di Gesù Cristo[10]. La storia generale della rivelazione, invece, trapela come fenomeno religioso da ogni interstizio di quella profana[11]. Da ciò deriva che quanto è storico-salvifico appartiene qua talis alla storia, ma non deve essere necessariamente storico, nel senso di scientificamente afferrabile attraverso i criteri di indagine storica che noi oggi crediamo i più plausibili.
È vero, piuttosto, il contrario: il tempo storico-salvifico fonda il tempo naturale e cosmico[12]. Se vedo giusto, altre estrapolazioni, diverse da questo assunto, richiedono una grande cautela. Anche H.U. von Balthasar (1905-1988) definisce le affermazioni fatte a questo proposito da Dei Verbum «vorzügliche Ausführungen» (eccellenti esposizioni)[13], concordando con il dettato conciliare che il tempo sia dato da un sovratempo o eternità messa e depositata nella realtà biologica – e in tal modo anche fisica – la cui forma temporale può essere descritta solo approssimativamente e ipoteticamente e, pertanto, che il tempo veramente reale sia quello storico-salvifico. Quindi, si può distinguere il tempo dall’eternità, ma non l’eternità dal tempo perché quest’ultima implica il temporale come momento di se stessa[14].
Terza tesi: la salvezza non è un momento della storia,
bensì della sua abrogazione
Si risponde qui a quest’altro interrogativo: dove l’uomo, qualsiasi uomo, incontra la salvezza? Posto che la salvezza raggiunge, comunque, sempre colui che negli anni Ottanta del secolo scorso si definiva un «cristiano anonimo», ovvero un uomo che ha già sperimentato in modo sconosciuto la grazia di Dio, che talvolta ha prontamente ricevuto[15], non si può per questo concludere che la salvezza sia un momento della storia, bensì della sua abrogazione[16]. E questo perché la creazione e la storia non rappresentano la salvezza, che invece si identifica con Dio e la sua grazia, cosicché la storia non può essere mai una teogonia, bensì una creatura di Dio. E tuttavia, la storia del mondo significa, è un predicato della salvezza, essendo un momento della comunicazione di grazia trascendentale e categoriale che arriva all’uomo nella concretezza dei fatti storici, i quali non possono, però, venire spogliati dalla loro banalità e, persino, ambiguità[17]. Avvolta e nascosta in questa banalità, la salvezza raggiunge l’uomo quando egli l’accetta – e non la rifiuta – cosicché la libertà dell’uomo risulta fattore codeterminante alla trasmissione della salvezza.
Anzi, come già si è detto, la storia della salvezza accade quando l’uomo opera in piena libertà. È nella libertà che la salvezza arriva all’uomo, in questo senso nell’abrogazione di essere un momento della storia profana – che conosce frattempi di perdizione e di colpa – per essere un attimo della piena libertà ricettiva e oblativa. La libertà umana rende addirittura il tempo «a senso unico», quindi assolutamente non ripetibile in una eventuale metempsicosi[18]. Anche per questo motivo l’eternità è un riflesso del tempo perché le decisioni dell’uomo entrano in uno scompartimento stabile della storia universale che ha a che fare direttamente con il Dio eterno[19].
Quarta tesi: Gesù Cristo è la fase irripetibile e originaria della storia della salvezza
Proprio perché la salvezza riguarda l’uomo e ogni uomo, la fede cristiana non può prescindere da quella figura d’uomo che il Concilio professa «uomo perfetto» e «perfetto uomo» (GS 22), ossia simultaneamente uomo ultimo (novissimus Adam) e straordinario (homo perfectus): Gesù Cristo, Figlio di Dio. Il contributo cristologico conciliare appare, in questo caso, decisivo, essendo Gesù Cristo l’unica e ultima cesura fondamentale della storia profana, della salvezza e della rivelazione[20]. In ordine di importanza, è cesura della storia profana perché fondamento e conclusione di un lungo processo di ominizzazione che nel piano di Dio coincide anche con il tempo dell’incarnazione, ovvero con la pienezza dei tempi[21]. Da cui la nascita del calendario cristiano. È cesura della storia della salvezza perché quella pienezza dei tempi è traboccante ed eccedente l’attesa veterotestamentaria, per quanto, essendoci data soltanto nel suo inizio – cosa sono, infatti, duemila anni di fronte a tutto il resto? – l’incarnazione di Gesù è, rispetto alla storia che ci aspetta, soltanto «giunta a primavera»[22] – così almeno si impegnò a dichiarare il beato Giovanni Paolo II (1920-2005) nell’Enciclica «Redemptoris missio» (n. 86).
In ogni caso, il suo essere cesura per la storia della salvezza comporta che il tempo del Nuovo Testamento sia tutto escatologico, ossia non più aperto ad alcun’altra futura pienezza[23] perché fondato sulla morte di Gesù, come su quell’evento che toglie (aufhebt) e supera (aufhebt, in seconda accezione) la storia[24]. La storia dell’Antico Testamento, infatti, pur elaborando il concetto di speranza non è affatto escatologica perché ancora oscillante tra il giudizio e la promessa. La sperimentabilità sociale di questa ebraica storia della salvezza, non ancora escatologica, agli occhi del teologo rimane, insomma, annullabile a causa della ancora possibile incredulità del partner umano[25], possibilità ormai scongiurata dalla fides Jesu, dalla fede dell’ebreo Gesù[26].
La pienezza dei tempi è, infine, una divisione fondamentale anche per la storia della rivelazione. Da quest’angolo visuale, si può osservare che le cesure della storia del mondo non sono decise sulla base della nostra vita individuale così breve, bensì esattamente dalla categoria di rivelazione. Guardando alla storia di Gesù Cristo, per esempio, un attimo storico può durare un paio di millenni e oltre[27]. Ma è soprattutto la storia prebiblica[28] che risulta abbastanza disarticolata se sganciata dal riferimento a Cristo; quella biblica, poi, che va da Abramo a Cristo, data la molteplicità delle sue tendenze pretende, quasi, il riferimento a un concetto unitario e, infatti, già in sé si restringe al breve attimo di attesa del Cristo mediante il carattere di interpretazione dell’evento e di prospettiva futura[29]. Letto da questo versante prospettico, anche un teologo strenuamente gesuita quale fu Karl Rahner sfiora chiare accentuazioni teologiche di indole bonaventuriana, e perfino scotista, quando afferma che:
Il mondo è stato creato per il Logos eterno, deriva da lui e deve tornare a lui. Il mondo e la sua storia sono stati creati in vista del Logos di Dio incarnato. Siccome Dio voleva esprimersi nel suo Verbo eterno, poiché è amore, ecco che esiste il mondo; ed esiste precisamente così differenziato in natura e grazia, in storia della salvezza e storia profana. Ciò significa a sua volta che questa differenziazione viene conglobata in uno da Cristo e dall’assoluta auto-espressione di Dio impersonata da lui.
Proprio sulla base di queste tracce cristologiche la letteratura teologica postconciliare ha indicato altri traguardi che hanno spinto Benedetto XVI a convocare – come accennato – un Sinodo sulla Parola di Dio nel 2008 e, ultimamente, a indire l’Anno della Fede. È opportuno, quindi, e a questo proposito, rispondere più nel dettaglio al nostro secondo interrogativo pertinente «la fede come risposta a Dio che si rivela», da parte dell’uomo del XXI secolo, il secolo della cosiddetta tardomodernità. Questo è anche l’ultimo tassello che ci manca per completare questa nostra indagine e per suggerire alcune piste operative.
[1] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 118.
[2] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 131.
[3] Cf G. Pasquale, La storia della salvezza. Dio Signore del tempo e della storia, Diaconia alla verità 11, Paoline, Milano 2002, pp. 135-137.
[4] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, pp. 125-126.
[5] Cf U. Galimberti, Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, Il Saggiatore, Milano 1996, pp. 20-21.
[6] Cf K. Rahner, Grundkurs des Glaubens, p. 171.
[7] Cf K. Rahner, «Zur Theologie des Symbols», SzTh.IV.Neuere Schriften, Benzinger, Einsiedeln – Zürich – Köln 19612,pp. 275-311, qui p. 303, nota 21.
[8] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 119.
[9] Cf K. Rahner, Grundkurs des Glaubens, pp. 148-149.
[10] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 127.
[11] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 129.
[12] Cf K. Rahner, «Theologische Bemerkungen zum Zeitbegriff», SzTh, IX, Benziger, Einsiedeln – Zürich – Köln 1970, pp. 302-322, qui pp. 304-305.
[13] H.U. von Balthasar, Theodramatik. III. Die Handlung, Johannes Verlag, Einsiedeln 1980, p. 91 nota 13.
[14] Cf K. Rahner, «Theologische Bemerkungen zum Zeitbegriff», SzTh, IX, p. 321.
[15] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 118.
[16] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, pp. 115-117. La stessa lettura in Rahner viene fatta da G. Ruggieri, «L’unità della storia. Per una teologia fondamentale del fatto cristiano», in Id., Enciclopedia di teologia fondamentale. I. Storia, progetto, autori, categorie, Marietti, Genova 1987, pp. 403-467, qui p. 462.
[17] Cf K. Rahner, Grundkurs des Glaubens, pp. 148-149.
[18] Cf K. Rahner, Zur Theologie des Todes, Quaestiones Disputatae 2, Herder, Freiburg im Breisgau 1958, pp. 27-28.
[19] Cf K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 117.
[20] Cf K. Rahner, Grundkurs des Glaubens, pp. 171-172.
[21] Per quanto controversa possa essere l’interpretazione del concetto di ominizzazione, nell’accezione rahneriana si tratta di un fenomeno che non sfugge alla costituzione trascendentale dell’uomo: nel suo rapporto con Dio, l’uomo si ominizza (cf P. Overhage – K. Rahner, ed., Das Problem der Hominisation. Über den biologischen Ursprung des Menschen, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1961, p. 36) nel senso che, in tal modo, l’incarnazione appaia «non come un grado supremo a sé stante, proprio dell’autotrascendimento del mondo, sia pur sostenuto dalla libera autocomunicazione di Dio, ma come l’akmé liberamente unica e irrepetibile del punto culminante dell’apparizione storica irreversibile (escatologica) della vittoriosa automediazione di Dio al mondo»: K. Rahner, «Teologia trascendentale», in Id., ed., Sacramentum mundi, VIII, ed. A. Bellini, Morcelliana, Brescia 1977, coll. 347-353, qui col. 352 [or. Id., «Transzendentaltheologie», in Id., ed., Sacramentum mundi. Theologisches Lexikon für di Praxis, IV, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1969, coll. 986-992].
[22] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptoris Missio. La perenne validità del mandato missionario (7 Dicembre 1990) [n. 86,] in Enchiridion delle Encicliche. VIII. Giovanni Paolo I-Giovanni Paolo II (1978-1998), Edizioni Dehoniane, Bologna 1999, pp. 850-1027. «Se si guarda in superficie il mondo odierno, si è colpiti da non pochi fatti negativi che possono indurre al pessimismo. Ma è, questo, un sentimento ingiustificato: noi abbiamo fede in Dio Padre e Signore, nella sua bontà e misericordia. In prossimità del terzo millennio della redenzione, Dio sta preparando una grande primavera cristiana [cuius nunc dispicitur aurora], di cui già si intravede l’inizio. Difatti, sia nel mondo non cristiano come in quello di antica cristianità, c’è un progressivo avvicinamento dei popoli agli ideali e ai valori evangelici, che la Chiesa si sforza di favorire»: qui pp. 1014-1015.
[23] Cf G. Pasquale, La ragione della storia. Per una filosofia della storia come scienza, (Filosofia. Nuove Introduzioni 151), Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 246-265; cf anche K. Rahner, «Chalkedon – Ende oder Anfang?», in A. Grillmeier – H. Bacht, ed., Das Konzil von Chalkedon. III. Geschichte und Gegenwart, Echter, Würzburg 1954, pp. 3-49, qui p. 19.
[24] K. Rahner, «Weltgeschichte und Heilsgeschichte», SzTh, V, p. 117.
[25] Cf K. Rahner – H. Vorgrimler, «Altes Testament, Alter Bund», KTW, pp. 15-16, qui p. 15.
[26] Per questa problematica – oggi ritenuta addirittura una «vexata quaestio» –, cf G. Pasquale, «La fede portata da Gesù Cristo», in Ian G. Wallis, La fede di Gesù nelle tradizioni cristiane antiche. Traduzione, adattamento delle note e Postfazione di Gianluigi Pasquale OFM Cap., (Saggi per il Nostro Tempo 20), Lateran University Press, Città del Vaticano 2010, pp. 331-340.
[27] Cf K. Rahner, Grundkurs des Glaubens, p. 226.
[28] La storia universale della rivelazione, fatta di riti e preghiere rintracciabili in ogni consesso umano, coincide con quella universale della salvezza che, ovviamente, non può essere messa in dubbio (Rm 11,25): cf K. Rahner – H. Vorgrimler, «Prophet», KTW, pp. 301-302.
[29] Cf K. Rahner, Grundkurs des Glaubens, p. 171. Si veda pure I. Sanna, Teologia come esperienza di Dio. La prospettiva cristologica di Karl Rahner, Queriniana, Brescia 1997, pp. 190-191.