Pubblichiamo, in otto puntate, una riflessione teologica di fra’ Gianluigi Pasquale intitolato “L’esegesi della Scrittura in san Bonaventura. Il modello del Commentarius in Evangelium Ioannis”. Questa è la terza uscita.
Schema del Vangelo e teologia
È piuttosto facile ricostruire la struttura dell’opera grazie alle indicazioni precise disseminate dall’Autore lungo tutto il suo corso. L’analisi del piano di Bonaventura è interessante, perché può essere una chiave per entrare nel suo pensiero teologico-filosofico dalla porta dell’esegesi e dell’ermeneutica del testo sacro. I commentatori nostri contemporanei che ho potuto prendere in considerazione sottolineano come, nella molteplice varietà dei progetti di suddivisione del quarto Vangelo (cronologico-geografici, logici, tematici, ciclici, tipologici o simbolici, catechetico-simmetrici, drammatici, liturgici…), la struttura che essi stessi propongono segua i suggerimenti del Vangelo medesimo e non le idee teologiche, che possono prestarsi a visioni più unitarie, ma anche più soggettive[1]. Vi è sostanziale accordo su una prima macrosuddivisione del Vangelo in:
1,1-18 Il Prologo;
1,19–12,50 Il Libro dei Segni;
13,1–20,31 Il Libro della Gloria;
21,1-25 L’Epilogo.
Entrando nel dettaglio, emergono però le differenze che si possono ascrivere all’idea guida che l’esegeta individua nel testo del quarto Vangelo. D. Mollat, nella Bibbia di Gerusalemme, propone uno schema desunto dalle feste liturgiche ebraiche[2]. R.E. Brown, preoccupato del pericolo d’imporre all’evangelista le proprie intuizioni[3], suddivide il Libro dei Segni, ad esempio, cercando di rispettare la fluidità del pensiero del Vangelo e tenendo conto dei collegamenti allusivi che nel testo spesso hanno la doppia funzione di chiudere una parte e aprirne un’altra[4]. L’idea guida del Segalla, invece, è:
la rivelazione storica del Logos incarnato, Messia e Figlio di Dio, mediante segni e discorsi, ed infine mediante il suo innalzamento sulla croce e la sua elevazione alla gloria per suscitare la fede e così donare la vita all’uomo.
Egli trova che questo risponda allo scopo dichiarato dal Vangelo[5] stesso, così come lo troviamo in Gv 20,30-31:
Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Qual è la logica dello schema bonaventuriano e qual è, quindi, l’idea fondamentale che esso sottende? Bonaventura stesso le enuncia:
Questo libro tratta del Verbo incarnato di cui considera la duplice natura, umana e divina. Si divide in due parti: nella prima si parla del Verbo in se stesso; nella seconda in quanto è unito alla carne[6].
Soggetto, centro, senso di tutto il Vangelo è il Verbo. La evidente sproporzione tra le due parti principali (prima: I, 1-16 [Gv 1,1-5]; seconda: I, 17–XXI,57 [Gv 1,6-21,25]) è indicativa della sublimità delle cose scrutate e del linguaggio usato da Giovanni: «Che v’è di più grande della generazione eterna del Verbo?»[7]. I primi versetti rivelano misteriosamente la natura divina del Verbo e costituiscono l’acmè che sovrasta e illumina tutto il Vangelo. La dimensione quantitativamente preponderante della Seconda Parte dice, però, anche qual è l’interesse di Bonaventura: non tanto o non solo la grandezza della contemplazione di Dio in sé, ma lo sguardo carico di gratitudine e di risonanze affettive verso un Dio che è presenza e azione continua e che nel Figlio rivela progressivamente i disegni, gli attributi e il mistero stesso del suo essere[8]. Nella Prima Parte si considera ciò che il Verbo è in se stesso, che coincide con il suo ruolo di medium. Verbo è una «parola che esprime un potere operativo» (In Ioan. I, 1), cioè è e stabilisce relazione: al Padre, innanzitutto, che è «Colui che parla» il Verbo, nel quale è uno, dal quale è distinto, al quale è uguale, con il quale è coeterno; poi alla creazione, che per suo mezzo viene «detta», essendo egli l’a)rxh\ pa/ntwn, principio sufficiente, indefettibile, preconoscente, illuminativo. Nell’ampia Seconda Parte, Bonaventura sottolinea nel quarto Vangelo la funzione del Verbo in quanto unito alla carne per la nostra salvezza e lo contempla nella sua discesa da Verbo increato a Verbo incarnato, nelle tre tappe dell’Incarnazione, Passione e Risurrezione. Dall’esame della struttura del In Ioan. si nota, così, la dialettica essenza/manifestazione che il Dottore Serafico coglie nel testo giovanneo, con la sottolineatura che ciò che conosciamo del mistero di Dio in sé lo dobbiamo all’umile condiscendenza di Dio, che, uscito fuori da sé incontro all’uomo, ha lasciato dei segni per la nostra salvezza e felicità eterna.
[1] Cfr. Giovanni, a cura di G. Segalla, p. 123; R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, I, Capp. 1-12, Cittadella, Assisi (PG) 1979, p. clxix; D. Mollat, Il Vangelo secondo s. Giovanni. Introduzione al Vangelo e alle lettere, in La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 19856, pp. 2257-2264, qui p. 2260.
[2] D. Mollat, Il Vangelo secondo s. Giovanni, p. 2260. Lo schema in qualche punto presenta delle rigidità, es. 1,19–4,54 unito dal tema della Pasqua; cfr. Giovanni, a cura di G. Segalla, p. 123.
[3] R.E. Brown, Giovanni, p. clxxiv.
[4] Ivi, pp. clxxii-clxxiii.
[5] Giovanni, a cura di G. Segalla, pp. 125-130.
[6] Bonaventura da Bagnoregio, In Ioan., I, 1.
[7] Ivi, Prooem., 11.
[8] Cfr. J.G. Bougerol, Introduzione, p. 22.
Particolarità strutturali
Nei titoli delle suddivisioni viene messa in evidenza la continuità tra il Verbo prima e dopo l’evento dell’Incarnazione: il Verbo è Gesù Cristo inviato dal Padre[1], è per eccellenza il segno del Padre e a lui rimanda come significato; «chi vede me vede il Padre»[2]. È interessante notare qualche esempio di «forzature di schematizzazione» da parte di Bonaventura nel piano del suo In Ioan., motivate spesso dall’amore, comune nel Medioevo, per l’ordine, il numero e la gerarchia, che sono segno di una visione armonica e unitaria del tutto e che tutto cerca di sistematizzare, per dire già attraverso la forma che il contenuto è bello, manifestazione del pulchrum divino. Riguardo alla manifestazione particolare di se stesso da parte del Verbo in quanto unito alla carne (In Ioan., I, 89), Bonaventura distingue la sua Rivelazione rispetto ai destinatari (In Ioan., I, 90: discepoli, Gv 1,43-2,11; Giudei, 2,12-3,36; Samaritani, 4,1-42; Galilei, 4,43-54) e rispetto a se stesso come guaritore (Gv 5,1-47), conservatore di corpi e di spiriti (6,1-72), guida e luce (7,1-10,42) e perfetto riparatore o vivificatore (11,1-46).
Nell’esposizione della Passione del Verbo incarnato, il terzo preambolo raggruppa il modo in cui i discepoli vengono confermati tre volte nella fede (In Ioan., XIII-XVII): con un esempio di umiltà (Gv 13,1-38), con parole di ammaestramento e consolazione (14,1-16,33), con il sostegno della preghiera (17,1-26). Le parole di ammaestramento del Signore esortano i discepoli «ad essere costanti nella fede» (14,1-31), li istruiscono nell’amore (15,1-16,4) all’attesa della speranza (16,5-33).
Un’ultima annotazione concerne la struttura data da Bonaventura alla narrazione giovannea della risurrezione di Cristo (In Ioan., XX-XXI), vista sotto tre aspetti: la sollecitudine dei discepoli e delle donne (Gv 20,1-9), la manifestazione del Risorto (20,10-21,23), la conferma della nostra fede (21,24-25); interessante è il fatto che le apparizioni ai discepoli vengono raggruppate secondo uno schema ternario suggerito dal tipo di relazione sensoriale che si instaura con Gesù (In Ioan., XX, 36): per mezzo della vista si è mostrato ai discepoli, al fine di vincere l’incredulità di tutti loro e inviarli in missione (20,19-25); per mezzo del tatto si è reso palpabile a Tommaso, in modo tale da vincere la sua incredulità (20,26-31); per mezzo del gusto ha mangiato sulle rive del lago, per confermare l’amore di Pietro (21,1-23).
[1] Bonaventura da Bagnoregio, In Ioan., XI, 64: «La Passione del Verbo sotto due aspetti».
[2] Gv 14,9.